mercoledì 17 settembre 2025

Il blu di San Sebastiano: viaggio nei tessuti dell'arte



Ripensare a quel pomeriggio nelle silenziose sale di Palazzo Bianco, a Genova, significa immergersi nuovamente in un tempo sospeso, in un’eco di luce e colore che continua a risuonare dentro di me come un frammento indelebile di memoria. Non era semplicemente una visita a un museo: era un incontro con un mondo altro, con un’intensità che trascendeva la semplice osservazione. La pala Lomellini di Filippino Lippi, col suo equilibrio fragile e misterioso tra realtà e trascendenza, si imponeva davanti ai miei occhi come un ponte tra due dimensioni, una soglia che permetteva di attraversare il visibile e intravedere l’invisibile.

Ogni dettaglio del dipinto sembrava respirare con una vita propria. La disposizione delle figure, il loro sguardo assorto o concentrato, le mani che si piegavano con grazia naturale, le pieghe dei drappi che cadevano con una fluidità apparentemente spontanea, tutto vibrava di un’intensità che non si poteva misurare. Il colore stesso sembrava parlare, modulando sfumature e luci con una lingua antica eppure immediatamente comprensibile al cuore. La scena, così accuratamente orchestrata, possedeva una complessità che non si esauriva in un solo sguardo, ma chiedeva di essere esplorata, di essere vissuta con attenzione e pazienza.

In quell’insieme armonico, un dettaglio catturò la mia attenzione in maniera irresistibile: il subligaculum blu che cingeva i fianchi di San Sebastiano. Non era semplicemente un indumento, ma un simbolo che si rivelava a chi sapeva guardare. Il blu del tessuto, profondo e quasi luminescente, sembrava contenere un’energia propria, un’essenza che filtrava oltre i confini del dipinto e sembrava dialogare con chiunque si soffermasse a osservarlo. Le pieghe, modellate con una perizia incredibile, suggerivano un movimento perpetuo, come se il drappo respirasse, oscillasse, sfidando la staticità della pittura stessa.

Era ipnotico, quel blu. Tornavo a fissarlo continuamente, cercando di decifrarlo, come se custodisse un segreto antico, un sapere nascosto tra le fibre del tessuto. Immaginavo la sua consistenza, il contatto diretto con la pelle, il modo in cui catturava la luce, come reagisse a un raggio di sole o alla penombra di una sala chiusa. Ogni piega raccontava una storia diversa, ogni ombra suggeriva un mistero che si aggiungeva a quello della figura stessa. Quel blu non era più solo colore: era esperienza, era scoperta, era la prima porta verso una comprensione più profonda dell’arte e della vita.

All’epoca ero uno studente di storia dell’arte a Brera, immerso in un mondo di libri, appunti e discussioni accese. Frequentavo un corso di specializzazione pittorica all’Accademia, rinomata per la qualità dei suoi insegnamenti e per la presenza di figure di riferimento quasi leggendarie nel corpo docente. Tra queste, Jole de Sanna emergeva come una presenza magnetica e autorevole. Compariva nei corridoi come un’ombra silenziosa, ma ogni lezione era un evento che lasciava impronte indelebili nella mente degli studenti. La sua capacità di intrecciare storia, tecnica e narrazione rendeva ogni frammento un viaggio nel tempo, ogni dettaglio un racconto da decifrare, un piccolo enigma che attendeva di essere svelato.

Decisi di rivolgermi a lei, attratto dalla sua conoscenza e dalla sua capacità di illuminare ciò che agli altri poteva apparire banale. Con timidezza, espressi il mio interesse per quel subligaculum blu, per il modo in cui sembrava possedere vita propria. Lei mi ascoltò con una concentrazione totale, come se ogni mia parola fosse importante, come se stesse decifrando un messaggio segreto nascosto nel mio stupore. Poi, dopo qualche istante di silenzio, pronunciò tre parole che mi rimasero scolpite nella memoria: “Pannilini di bambagia.”

Tre parole semplici eppure cariche di una rivelazione profonda. La bambagia, materiale umile e quotidiano, emergeva come protagonista silenzioso di quel dettaglio che mi aveva colpito. Mi immaginai i tessitori, le loro mani esperte che lavoravano il filo, la cura con cui il materiale veniva trattato, il viaggio che lo aveva portato fino alle mani di Filippino Lippi. Ogni drappo racchiudeva storie, fatica, saperi antichi e scelte estetiche, un microcosmo di significati accessibile solo a chi osservava con pazienza e curiosità.

Da quel giorno, guardare i tessuti nei dipinti non fu più la stessa cosa. Ogni piega, ogni sfumatura, ogni ombra divenne oggetto di attenzione. Non erano più meri dettagli decorativi, ma elementi narrativi fondamentali, capaci di raccontare storie e trasmettere emozioni. Iniziai a notare come ogni artista trattasse i tessuti in maniera diversa: Verrocchio li modellava come materia viva, conferendo loro un peso e una presenza quasi tangibile; le pieghe non erano casuali, ma parte di un ordine interno che suggeriva armonia e logica. Signorelli, al contrario, conferiva ai drappi un carattere quasi metafisico, rendendoli protagonisti delle scene, creature animate da una forza autonoma.

Il blu, colore del sacro e del trascendente, ma anche del dolore e della redenzione, possedeva un significato speciale. Ogni volta che lo incontravo, sentivo di entrare in contatto con qualcosa di eterno, di universale. Ogni sfumatura raccontava una storia diversa, racchiudeva emozioni, simboli, frammenti dell’anima dell’opera. Il subligaculum blu di San Sebastiano divenne così per me simbolo e punto di partenza per una riflessione più ampia: la bellezza si cela nei dettagli, nei frammenti che spesso passano inosservati, ma che l’arte sa trasformare in eternità.

Negli anni, continuai a riflettere su quel blu, sulle sue sfumature e sul significato che aveva assunto nella mia esperienza. Ogni volta che lo incontro in un dipinto, rivivo quell’incontro iniziale, ritrovo una parte di me che avevo dimenticato, un vecchio amico nascosto tra i colori e le pieghe della tela. E ogni volta ricordo che anche il dettaglio più piccolo può racchiudere un universo, un frammento della bellezza infinita che solo l’arte sa creare.

Oltre al blu e alla tecnica, iniziai a notare la storia dei materiali, la geografia dei tessuti, le rotte commerciali che portavano stoffe pregiate da terre lontane fino agli studi degli artisti rinascimentali. Ogni filo, ogni piega, era testimonianza di un sapere antico, di mani che avevano lavorato con pazienza e dedizione. Cominciai a vedere l’arte non solo come visione, ma come intreccio di culture, mestieri e storie umane.

Imparai che l’osservazione dei dettagli, apparentemente marginali, apre porte insospettate: il drappeggio di un tessuto, la luce riflessa su una piega, la consistenza suggerita da un colore diventano strumenti per leggere l’anima di un’opera e dei suoi creatori. La mia esperienza con quel subligaculum blu si estese così, nel tempo, a un’esplorazione più ampia di tutta la pittura rinascimentale, dei suoi simboli, della sua gestualità e delle emozioni che sapeva suscitare.

Ogni volta che mi ritrovo davanti a un dettaglio simile, che sia il blu di un tessuto, la morbidezza di un panneggio o il delicato contrasto tra luce e ombra, sento ancora la stessa meraviglia di quel pomeriggio a Genova. È un promemoria che l’arte, nella sua infinita capacità di parlare al cuore e alla mente, insegna a guardare oltre il visibile, a scoprire storie e mondi nascosti nei piccoli frammenti della realtà.