Ci sono giorni in cui il mondo intero sembra voler entrare nelle mie orecchie senza chiedere permesso. Non parlo solo del rumore — quello lo tollero — ma dell’infiltrazione silenziosa di linguaggi, melodie, tic verbali e odori narrativi che si appiccicano alla pelle come la pece. È l’effetto collaterale di vivere in un’epoca dove tutti sono emittenti, dove ogni individuo è convinto di avere una frequenza propria ma, in realtà, trasmette da una torre comune, alimentata da qualche centrale di distribuzione invisibile.
Ricordo — per dare un’idea — un pomeriggio estivo, infuocato, in cui presi un traghetto per attraversare un braccio di mare insignificante. In quell’ora sospesa tra il pranzo e il desiderio di non fare nulla, mi ritrovai incastrato sul ponte, tra due gruppi di turisti. A sinistra, una famiglia del Nord, armata di fotocamere e di quell’accento che trasforma ogni vocale in un invito a partecipare alla loro opinione. A destra, un coro spontaneo di giovanotti che avevano deciso di fare dell’altoparlante del telefono un organo a canne, alternando tormentoni estivi a registrazioni di discorsi motivazionali sulla “vita autentica” (che evidentemente si conduce alzandosi tardi e gridando al vento).
Io, nel mezzo, ero il campo neutro di una guerra non dichiarata: a colpi di “Che bella quest’acqua!” e di “Fratè, senti qua la drop!”, mi sentivo come un ambasciatore a cui nessuno aveva detto per chi dovesse fare da tramite. Pensai che, se avessi avuto in mano un taccuino — e la spudoratezza del viaggiatore dal taccuino rosso di cui parleremo più avanti — avrei annotato tutto, compreso il ronzio grave del motore, che dava a quell’incontro una base ritmica vagamente pornografica.
Non si trattava di fastidio, ma di invasione. Un’invasione che oggi molti spaccerebbero per “scambio culturale” e che in realtà era il perfetto esempio di influenza subìta. Perché è questo il punto: l’influenza non bussa alla porta. Ti prende quando sei in costume e con le ciabatte di gomma, quando credi di essere immune al mondo e invece il mondo ti ha già riempito le valigie.
Viviamo in un tempo di ipersensibilità epidermica, dove ogni frase deve passare un collaudo morale e ogni aggettivo rischia di attivare una sirena d’allarme. Basta descrivere un evento, e già sei sotto processo per la cornice che ci hai messo intorno. Il problema è che io, le cornici, le cambio spesso: a volte sono dorate, altre marce, ma non le scelgo mai per compiacere. Così capita che, se dico che un certo tono di voce mi ricorda l’effetto di un cucchiaio di stagno sul palato, qualcuno veda un pregiudizio sociale; se dico che un profumo mi riporta a una cucina anni ’70, ecco che divento un nostalgico reazionario.
Questo clima di sospetto mi fa sorridere quando penso a un certo ufficiale-scrittore di fine Settecento che, mentre pianificava l’assalto di una piazzaforte, stava in realtà preparando la più raffinata mappa erotica del secolo. Lui non doveva preoccuparsi di essere “politicamente corretto” — doveva solo vincere. E per lui vincere non era tanto questione di cannoni o trincee, quanto di abbattere bastioni ben più interessanti: quelli che circondano la virtù ostinata.
Perché diciamolo: c’è un’arte nel resistere e un’arte nel far cedere, e l’ufficiale-scrittore in questione era maestro di entrambe. Nei suoi appunti, strategia militare e seduzione si scambiavano le uniformi: un giorno il nemico era un esercito da aggirare, il giorno dopo una dama da far cadere. In fondo, un bastione è un bastione, sia che tu lo colpisca con l’artiglieria o con un biglietto profumato.
La prima volta che lessi le sue pagine — senza sapere ancora che dietro quelle righe c’era un uomo capace di calcolare la parabola di un colpo d’obice mentre dettava una lettera d’amore — mi colpì la precisione. Ogni parola era un proiettile, ogni pausa un cambio di traiettoria. Era un’arte in cui la resa del nemico non arrivava mai per caso: c’era un ritmo, una cadenza, una sequenza di fuochi che avrebbero fatto invidia a qualsiasi generale.
E pensai: questo è il tipo di influenza che mi piace. Quella che ti cattura senza che tu te ne accorga, che ti invade le difese con la grazia di chi sembra chiedere permesso, ma in realtà ha già messo piede nel salotto.
secondo blocco
(Stendhal sotto mentite spoglie).
L’ufficiale-scrittore di cui parlo non era uno di quei letterati che passano le giornate a lucidare metafore al sole, aspettando che l’ispirazione scenda come una colomba ubriaca. No, lui aveva l’odore della polvere da sparo addosso, e non solo perché frequentava campi di battaglia veri. Aveva capito che il vero teatro di guerra, quello più crudele e più elegante, era la mente delle persone. E per arrivarci, bastava una penna.
Non una penna qualunque, sia chiaro: la sua era un’arma di precisione, capace di disegnare linee di attacco così sottili che il bersaglio non se ne accorgeva fino a quando non era già all’interno del perimetro. Conosceva le regole delle piazzeforti e quelle dei salotti, e le confondeva apposta. Non si può dire che fosse un moralista: la sua bussola puntava sempre verso ciò che valeva la pena conquistare. E, per lui, ciò che valeva la pena non era mai facile da ottenere.
Quando mi imbattei nei suoi scritti, trovai un’annotazione marginale, una specie di appunto dimenticato, in cui raccontava di aver pensato a un “sequel virtuoso” di una delle sue opere più celebri. L’idea era talmente fuori dal suo temperamento che si poteva intuire la noia mortale che ne sarebbe venuta. Come chiedere a un pirata di redigere il regolamento per l’uso corretto delle posate. Ci aveva forse riflettuto un momento, poi era tornato ai suoi bastioni e ai suoi assalti — quelli veri, quelli che non chiedono permesso e non rilasciano ricevute.
La cosa buffa è che quest’uomo — capace di combinare un bombardamento con un invito a cena — ebbe un’influenza sotterranea su un certo viaggiatore del secolo successivo, quello dal taccuino rosso e dalla passione per annotare qualunque cosa, dai tramonti di provincia alle crisi di coscienza delle signore sposate. Il viaggiatore non si definiva militare, eppure aveva lo sguardo di chi sa riconoscere la strategia in un gesto casuale. Per lui, sedurre era una manovra complessa, con ritirate tattiche e attacchi all’alba.
Quando lo incontriamo nei suoi scritti, questo viaggiatore ha l’aria di un osservatore, ma in realtà è un partecipante attivo. Non guarda mai per il semplice gusto di guardare: registra, analizza, soppesa. E se una scena — diciamo, una passeggiata sotto un tiglio, a tarda sera — si trasforma in qualcosa di più, è perché lui ha già mappato ogni passo prima ancora di muoverlo.
Io credo che il filo tra l’ufficiale-scrittore e il viaggiatore dal taccuino sia fatto di quella stessa sostanza che lega un maestro di scacchi a un suo discepolo non dichiarato: una serie di mosse imparate per osmosi, quasi senza rendersene conto. Non si tratta di plagio né di semplice imitazione, ma di quell’assorbimento silenzioso che capita solo quando si è immersi abbastanza a lungo nella voce di un altro.
Ed è qui che, in filigrana, si intravede l’influenza vera: quella che non si presenta con un biglietto da visita, che non dice “ti sto influenzando”, ma che agisce come un infiltrato. Una frase letta per caso, un modo di descrivere un volto, una pausa strategica in un dialogo — tutto materiale che si insinua nella mente e, al momento giusto, riaffiora come se fosse tuo.
Il viaggiatore dal taccuino, a differenza del suo maestro non dichiarato, non aveva bisogno di bastioni veri per parlare di assalti. Gli bastava una panchina, una lettera, un’infinità di esitazioni femminili. Ma la geometria era la stessa: colpire, arretrare, farsi dimenticare, poi riapparire al momento esatto in cui la difesa si è allentata. L’arte della guerra travestita da corteggiamento — o forse il contrario.
E, per inciso, credo che questo tipo di arte oggi avrebbe vita breve: in un’epoca dove tutto è dichiarato e spiegato in diretta, il fascino dell’attesa e della strategia è ridotto a una notifica sullo schermo. Non c’è più tempo per accerchiare: si va dritti al punto, e il punto è spesso un’emoji.
terzo blocco
(Nietzsche mascherato)
Il filosofo dai baffi da felino di montagna non si muoveva leggero. Ogni sua frase aveva il peso specifico di un lingotto e la grazia di una valanga che decide, per puro divertimento, di cambiare vallata. Parlava di morale come altri parlano di moda: non per stabilire cosa fosse giusto indossare, ma per mostrare quanto fossero ridicoli i guardaroba altrui.
Quando mi capitò di aprire uno dei suoi libri — per caso, su un treno che odorava di panini al salame e giornali gratuiti — mi trovai di fronte a un campionario di pensieri che sembravano scritti con il coltello, non con la penna. Niente introduzioni, niente carezze: solo fendenti precisi. Ma, sotto la scorza dura, si intuiva il tocco di qualcuno che aveva imparato il mestiere della seduzione intellettuale da un maestro.
Era chiaro che il viaggiatore dal taccuino rosso aveva lasciato più di un’impronta. Non si trattava di citazioni o di riferimenti diretti — il filosofo avrebbe detestato essere preso per un epigono — ma di una certa postura mentale. L’idea che la vita non fosse un compromesso tra ciò che si desidera e ciò che si può, ma un’arena dove ci si misura senza chiedere permesso.
Il baffuto di montagna era convinto che l’atto di sedurre — nel senso più ampio, non solo amoroso — fosse una forma di volontà applicata. Non un capriccio, ma un programma, come una campagna militare o una fuga ben costruita. In questo, assomigliava sia all’ufficiale-scrittore con i suoi bastioni da conquistare, sia al viaggiatore dal taccuino che conosceva le vie laterali per arrivare al cuore di una persona.
Lui, però, portava tutto su un altro piano: non si accontentava di raccontare l’assalto o di compierlo, voleva che fosse la vita stessa a trasformarsi in una serie di sfide sempre più audaci. E se il mondo non offriva abbastanza resistenza, era pronto a inventarsela. Da qui il suo disprezzo per le strade già tracciate e per le virtù di comodo, quelle che si reggono come palazzi senza fondamenta.
C’è una cosa che mi colpì, leggendo le sue pagine: l’attenzione al momento in cui un ostacolo smette di essere tale. Lo trattava come un passaggio delicato, un punto in cui tutto può crollare o trionfare. Nella sua ottica, la vittoria troppo facile era una sconfitta mascherata. In questo, era l’opposto della nostra epoca, dove la parola d’ordine è “semplificare”. Lui voleva complicare, stratificare, creare labirinti e poi sfidarvi a uscirne.
Una volta lessi una sua nota, persa tra aforismi come una moneta caduta in mezzo alle pietre, in cui parlava di “virtù assediata”. Diceva che la resistenza, per essere vera, deve essere consapevole di sé, e che la sua bellezza sta proprio nel fatto che può cedere. Mi venne subito in mente l’ufficiale-scrittore con la sua arte dell’assedio e il viaggiatore col tiglio e le esitazioni notturne. Era come se il felino di montagna avesse raccolto il filo e lo avesse intrecciato in una corda tesa sopra un burrone: attraversala, se osi.
Quello che oggi si chiama “influenza” — parola che suona come una malattia ma che qui è un contagio felice — per lui era un atto di forza: si riceve, si trasforma, si rilancia. Niente di più lontano dall’ansia di sembrare originali a tutti i costi. Al contrario, era come se dicesse: “Non c’è nulla di male a rubare il fuoco, se poi lo si fa bruciare in un modo che nessuno ha mai visto”.
Io, leggendo, capii che stavo assistendo a un passaggio di testimone in piena regola, anche se i diretti interessati non si sarebbero mai riconosciuti in questa genealogia segreta. Dall’artiglieria sentimentale dell’ufficiale-scrittore, al tatticismo emotivo del viaggiatore dal taccuino, fino all’attacco filosofico del felino di montagna: tre epoche, tre stili, un unico istinto.
E a quel punto cominciai a pensare che l’influenza — quella vera, quella che non si può programmare — non è una catena di omaggi, ma una serie di colpi sferrati in punti che nemmeno sapevi di avere.
quarto blocco — “romanzo americano dei prestiti d’idee” (Lethem mascherato) e il “profeta dell’angoscia dell’influenza” (Bloom camuffato)
Molti anni dopo, quando i baffi del felino di montagna erano ormai diventati reliquia filosofica da citare in tesi universitarie e calendari di frasi motivazionali (un destino che, sono certo, lo avrebbe fatto inorridire), mi imbattei in una disputa letteraria d’oltreoceano.
Da una parte c’era il profeta dell’angoscia dell’influenza, un signore convinto che ogni scrittore vivesse in un eterno braccio di ferro con i fantasmi dei suoi predecessori. Secondo lui, la storia della letteratura non era un coro armonico, ma una rissa in un vicolo buio, dove ognuno cerca di storpiare la voce di chi lo ha preceduto, così da sembrare “nuovo”. In altre parole: se ti influenzano, sei fregato, a meno che tu non faccia un’operazione chirurgica radicale sul testo altrui.
Dall’altra parte, il romanziere americano dei prestiti d’idee, uno che invece la vedeva come una festa di quartiere: “Prendi quello che ti serve, mescola, aggiungi il tuo tocco, e offri il risultato al buffet comune”. Per lui, l’influenza non era un peso da scrollarsi di dosso, ma una specie di gioia clandestina. L’arte, diceva, è sempre stata un furto ben riuscito. La differenza tra plagio e genio, aggiungeva con aria sorniona, sta tutta nell’invito: il genio ti fa credere che sei tu ad avergli prestato la lampadina.
Li osservavo, questi due, come si guarda una partita di tennis dove però la palla è fatta di concetti. Il profeta lanciava smashes di “angoscia creativa”, il romanziere rispondeva con pallonetti di “esaltazione condivisa”. In mezzo, io prendevo appunti, pensando che in fondo la verità, come sempre, stava più nella coreografia che nel punteggio.
Il punto è che, in tutta questa discussione, nessuno sembrava considerare un fatto banale: noi esseri umani siamo spugne. Possiamo fingere di essere rocce impermeabili, ma assorbiamo lo stesso. Un odore, un ritmo, una parola detta a metà — e già qualcosa in noi cambia direzione. Possiamo illuderci di “non farci influenzare”, ma è come cercare di non respirare in un campo di lavanda.
Il romanziere dei prestiti d’idee, almeno, aveva il merito di dire: “Smettiamo di far finta. Non c’è vergogna nell’ammettere che una frase, un’immagine, una scena, ci abbia accesi. La cultura è un virus gentile: lo prendi, lo porti dentro, e un giorno lo contagi a qualcun altro, magari in una forma che non riconosceresti più neppure tu”.
Naturalmente, il profeta scuoteva la testa: “Ecco come si finisce tutti a scrivere la stessa roba. Il contagio senza ansia produce uniformità”. Forse aveva ragione, ma la sua visione aveva lo stesso fascino di una dieta a base di acqua tiepida: sarà pure salutare, ma ti toglie la voglia di vivere.
E così, mentre loro due continuavano a duellare a colpi di teoria, io ripensavo all’ufficiale-scrittore che conquistava bastioni, al viaggiatore col taccuino rosso che trattava le emozioni come città da mappare, e al felino di montagna che trasformava ogni ostacolo in una sfida estetica. Ognuno di loro era stato influenzato e aveva influenzato a sua volta, e nessuno aveva pensato di chiedere scusa per questo.
A quel punto mi convinsi che il problema non era tanto l’influenza in sé, quanto il modo in cui la si racconta. Metà delle ansie creative del mondo sparirebbero se smettessimo di parlare di “originalità” come di un’entità sacra e cominciassimo a vederla per quello che è: un cocktail con ingredienti noti, preparato in un bicchiere nuovo.
quinto blocco
racconto un episodio completamente inventato di “contagio culturale” surreale
Un giorno, per ragioni che neppure adesso saprei spiegare senza cadere nel sospetto di avere un debole per le punizioni autoinflitte, mi ritrovai a partecipare a una crociera tematica.
Tema: “Gastronomia e Letteratura Contemporanea”.
Già l’abbinamento era di per sé sospetto, ma la brochure prometteva “degustazioni ispirate ai capolavori narrativi del nostro tempo”. E io, come un ingenuo, mi presentai con la valigia mezza vuota — per lasciare spazio ai souvenir alimentari — e un taccuino pronto a registrare chissà quali folgorazioni.
La prima sera, a cena, ci offrirono “Il purè esistenzialista”: patate bollite e schiacciate con tanta foga da sembrare reduci di una battaglia interiore, accompagnate da una salsa grigia “ispirata alla penna di un grande romanziere nordico”.
Dopo il terzo boccone, iniziai a sospettare che il cuoco stesse sperimentando una nuova forma di tortura culturale. Ma fu durante la seconda portata, “Il risotto postmoderno” — un miscuglio di riso, fragole e pezzetti di cioccolato fondente — che capii di trovarmi di fronte a un’esperienza quasi mistica.
A tavola, un signore col cappello di paglia, presentatosi come “studioso di semiotica balneare”, mi spiegò che la combinazione di sapori voleva evocare la frammentazione dell’identità contemporanea. Io, più semplicemente, pensavo che evocasse il contenuto di una borsa della spesa rovesciata per errore.
La cosa notevole, però, non fu il cibo in sé, ma la colonna sonora.
Un’orchestra improvvisata, piazzata proprio accanto al buffet, alternava brani di musica barocca a hit dance anni ’90. Così, mentre il violinista eseguiva un minuetto, la batteria elettronica pompava un ritmo che avrebbe fatto felice qualunque discoteca di provincia. Il risultato? Ogni volta che infilavo la forchetta nel piatto, mi sembrava di partecipare a un matrimonio simultaneamente celebrato nel 1723 e nel 1997.
E lì mi colpì, come un’illuminazione travestita da mal di testa: stavo vivendo sulla mia pelle — e sulle mie papille gustative — l’essenza stessa del contagio culturale. Nessun elemento era “puro”, tutto era frutto di mescolanze improbabili, eppure qualcosa funzionava.
Non si trattava di originalità, ma di collisione. Di incidenti felici.
Quando, la sera, uscii sul ponte per prendere aria, mi trovai a parlare con una donna che diceva di essere “consulente di titoli di romanzi”. Un lavoro che non avevo mai sentito nominare, ma che lei descriveva con l’aria di chi custodisce un segreto professionale da proteggere con la vita. Mi confidò che i migliori titoli, a suo avviso, nascono sempre da una frase già sentita da qualche parte — magari in un bar, su un autobus, o durante un litigio di condominio. “Il trucco”, disse, “è rubare bene e rubare con amore”.
Sorrisi, pensando al romanziere americano dei prestiti d’idee e al profeta dell’angoscia. Se fossero stati lì, forse si sarebbero messi a discutere pure sul purè esistenzialista e sul risotto postmoderno. Ma per me la questione era chiusa: l’influenza non è un ladro notturno da temere, è un ospite un po’ invadente che arriva a cena senza avvisare, e finisce per raccontare la storia più memorabile della serata.
sesto blocco
(l’ufficiale-scrittore settecentesco torna in scena come personaggio romanzesco, e l’influenza viene raccontata come assedio strategico tra erotismo e tattica)
C’è un momento nella vita in cui capisci che alcune persone non sono solo figure del passato: diventano campi di battaglia che attraversi con occhi all’erta e mani pronte a misurare ogni distanza. L’ufficiale-scrittore settecentesco di cui parlo — quello che avevo finora citato in modo sfuggente — entra in scena così: come un comandante che non fa prigionieri, ma che sa che l’arte dell’assedio non richiede ferite permanenti, solo sospensioni drammatiche.
Immaginatelo con un’uniforme impeccabile, ricamata più per stile che per utilità, e una penna al posto del cannocchiale. I suoi bastioni non erano muri di pietra, ma di virtù, resistenze e piccoli rituali di rispetto apparente. La sua arma principale era la pazienza combinata a un’intelligenza che calcolava traiettorie invisibili: quando avanzare, quando arretrare, e quando lasciare che il nemico — o la dama ostinata — credesse di aver vinto la prima battaglia.
Ogni lettera che scriveva era come un colpo d’artiglieria: calibrato, elegante, eppure capace di produrre un effetto devastante sul morale del destinatario. Leggere i suoi scritti oggi, anche mascherati e lontani dal tempo, è come assistere a una simulazione di guerra in miniatura, dove ogni parola ha un peso strategico e ogni sospensione è un’imboscata sottile.
Il suo concetto di “resa” era rivoluzionario: non puntava a far crollare un bastione con la forza bruta, ma con la seduzione strategica, con l’arte sottile del disegno, del gesto, del silenzio. La virtù della controparte diventava così parte integrante della battaglia: più resisteva, più lui poteva mettere in mostra la sua maestria. Ed è qui che il concetto di influenza trova la sua incarnazione più potente: l’arte di conquistare senza apparire aggressivi, di entrare nella mente dell’altro senza chiedere permesso, come un virus gentile che si insinua e ristruttura tutto dall’interno.
Non sorprende quindi che il viaggiatore dal taccuino rosso, qualche decennio dopo, abbia raccolto tracce di questo approccio nei suoi taccuini. E non sorprende nemmeno che il filosofo dai baffi da felino di montagna abbia osservato con interesse la tecnica dell’assedio, riconoscendola in gesti quotidiani, in scelte morali, in piccoli atti di volontà. Tutto si muoveva lungo un filo invisibile, tra esercizi di potenza e giochi di seduzione, come se la vita stessa fosse un campo di battaglia in cui la strategia è sempre necessaria, anche nelle situazioni più apparentemente innocue.
Ciò che mi colpisce maggiormente, rileggendo oggi quei testi, è il senso di precisione che li permea. Ogni interazione, ogni parola, ogni pausa è calcolata, eppure non perde mai l’elemento di sorpresa. È una coreografia di influenza che trascende la cronologia: il passato influenza il presente, il presente risponde al passato, e in mezzo si colloca la mente del lettore, che diventa parte integrante del gioco.
Si potrebbe ridurre tutto a un esercizio di tattica militare, se non fosse per l’elemento erotico, che non è mai accessorio. In effetti, l’ufficiale-scrittore non separava mai il piacere dalla strategia: un assalto ben condotto è come un corteggiamento riuscito, un mix di calcolo, rischio e audacia. La vittoria totale non è il possesso, ma la capacità di orchestrare la resa, di trasformare la resistenza in partecipazione attiva, in gioco condiviso.
Ecco quindi che il concetto di influenza — che nel corso dei secoli ho visto incarnarsi in modi diversi, dal taccuino rosso al filosofo baffuto, fino ai romanzi americani dei prestiti d’idee — trova una delle sue forme più pure e raffinate proprio in questo ufficiale-scrittore. Non è imposizione, né plagio, né semplice imitazione: è un’arte che sa combinare tecnica e sensualità, riflessione e impulso, disciplina e fantasia.
settimo blocco
(tutti i personaggi mascherati al concetto di “estasi dell’influenza”, con ironia e surrealtà)
E così eccomi qui, a osservare dall’alto della mia scrivania immaginaria questo curioso circolo di influenze: l’ufficiale-scrittore che manovra bastioni invisibili, il viaggiatore dal taccuino rosso che annota ogni esitazione notturna, il filosofo dai baffi da felino di montagna che lancia fendenti di pensiero, il romanziere americano che trasforma il furto in festa letteraria, e il profeta dell’angoscia che osserva tutto con aria severa.
Non ci sono confini chiari tra epoche e menti. Tutti si toccano, tutti si contaminano, tutti si prestano idee senza chiedere permesso. Ed è proprio in questa contaminazione che avverto l’estasi: una specie di orgasmo intellettuale che ti prende quando capisci che il pensiero non è mai un’isola, ma un’onda che travolge e porta con sé frammenti di altre onde, di altre menti.
Ricordo un episodio, meno glorioso ma più istruttivo: una libreria polverosa, luci gialle, l’odore di carta umida e tè freddo. Stavo leggendo Laclos, quando alle mie spalle qualcuno cominciò a recitare brani di Stendhal a voce alta, mescolandoli ai commenti sconclusionati di un turista giapponese sul valore estetico dei bastioni medievali. Il tutto accompagnato da un sottofondo di “hit anni ’90” che usciva da un vecchio registratore.
In quel caos sensoriale, ho percepito chiaramente la dinamica dell’influenza: non una catena lineare, ma un mosaico di contaminazioni, collisioni e appropriazioni. Laclos si insinuava tra Stendhal e il turista, Nietzsche sbucava dall’ombra di uno scaffale, e il romanziere americano rideva in un angolo, prendendo appunti per un prossimo libro sul plagio felice. Io, naturalmente, annotavo tutto, partecipando all’assedio culturale senza saperlo, parte del gioco.
La risata è stata spontanea: capire che non si può controllare chi ti influenza, ma solo come reagisci a quell’influenza, è un atto liberatorio. Il senso di colpa del “sono originale?” evapora davanti alla consapevolezza che l’influenza è inevitabile, e che ogni idea che crediamo nostra è un cocktail di intuizioni altrui, rimescolato dal nostro gusto personale.
Così, tornando ai nostri personaggi mascherati, capisco che ognuno di loro ha incarnato un tipo diverso di estasi: l’ufficiale-scrittore, l’orgasmo strategico del bastione conquistato; il viaggiatore, il brivido della scoperta di sé attraverso gli occhi degli altri; il filosofo baffuto, il piacere crudele della logica che sorprende; il romanziere americano, il godimento del furto trasformato in creazione; e il profeta dell’angoscia, la tensione erotica tra rispetto e timore.
E io, che scrivo queste righe, mi sento parte della stessa catena. L’influenza arriva senza bussare, ti scuote, ti mescola, ti fa ridere o rabbrividire. La differenza tra chi ne è soggetto e chi ne è artefice è sottile, quasi invisibile, eppure cruciale: accogliere l’influenza è come accogliere un ospite imprevisto che porta una torta esotica, sapendo che l’unico modo per gustarla è lasciarsi contaminare.
Alla fine, credo che l’estasi dell’influenza non sia altro che questo: un gioco senza regole apparenti, dove ogni partecipante è allo stesso tempo predatore e preda, maestro e allievo. Non si tratta di imitare, non si tratta di resistere, non si tratta di vincere. Si tratta di lasciarsi attraversare, di capire che la cultura è un campo di battaglia dove ogni gesto, ogni parola, ogni nota, ogni pensiero ha un effetto che va al di là di noi.
E allora sorrido, mentre richiudo il taccuino e lascio che i fantasmi di Laclos, Stendhal, Nietzsche, Lethem e Bloom si mescolino tra loro come ospiti di un ricevimento surreale. Tutti presenti, tutti influenti, tutti felici in un modo che solo chi accoglie l’influenza può comprendere. L’estasi, insomma, non è un concetto teorico: è il battito segreto di ogni interazione culturale, l’eco di ogni parola rubata e restituita con amore, il piacere supremo di riconoscersi parte di una catena infinita e sfacciatamente viva.
ottavo blocco
(l’epilogo ironico e surreale che chiude il cerchio, collegando tutti i tuoi episodi personali alla rete di influenza culturale)
E così, dopo aver attraversato secoli e continenti, filosofi baffuti e romanzi americani dei prestiti d’idee, mi ritrovo di nuovo su un treno, perché in fondo il tempo ama il déjà-vu. Solo che questa volta, al posto dei calabresi chiassosi, c’è un gruppo di turisti armati di smartphone che ripetono a ritmo incalzante le canzoni di Mino Reitano, Laura Pausini e improbabili remix di musica elettronica. Ogni nota è un colpo di artiglieria invisibile, ogni frase detta a voce alta un piccolo assedio alla mia pazienza.
Ma ora, sorridendo, riconosco l’arte della contaminazione. Il rumore non è più fastidio, ma esperienza: un mix surreale che unisce passato e presente, realtà e ricordo, Laclos e l’ultimo tormentone radiofonico. La sposina veneta che commenta tutto in pullman? Non è più solo un dettaglio irritante: è un’influenza che attraversa lo spazio e il tempo, una piccola diplomatica della sottocultura televisiva che mescola logica e caos, come una giovane Valmont in miniatura.
In effetti, tutto ciò che prima mi irritava — il treno rumoroso, le note stonate, le osservazioni fuori luogo — diventa parte di un mosaico più grande. Ogni episodio personale si trasforma in testimonianza della stessa legge universale: nulla è isolato, tutto influenza tutto. E mentre Laclos sorride ironico dalle pagine, Stendhal annuisce complice, Nietzsche fa un occhiolino da dietro il taccuino rosso, Lethem ride apertamente e Bloom, be’, Bloom scuote la testa con la sua aria drammatica di sempre, ma in fondo non può fare a meno di riconoscere la bellezza di questo caos.
Perfino il mio amico calabrese di Rete, che un tempo mi aveva rimproverato, diventa parte della scena: non più critico, ma collegamento vivente tra i bastioni della mia memoria e le torri dei nuovi stimoli. La cultura, capisco, non si costruisce in solitudine; si costruisce sulla confusione, sulle collisioni, sulle contaminazioni più imprevedibili.
E così, seduto sul sedile del treno, con le cuffie a metà e il taccuino aperto sulle ginocchia, rido di tutto: del passato, del presente, di me stesso. Rido dell’ansia di sembrare originale, delle polemiche virtuali, dei rimproveri sottotraccia. Rido perché, alla fine, l’influenza non è minaccia, non è violenza, non è plagio. È festa. È orgasmo intellettuale. È estasi.
E mentre il treno corre, mescolando chiacchiere, canzoni, ricordi e fantasmi letterari, comprendo che ogni esperienza personale, per quanto banale o fastidiosa possa sembrare, è una tessera del mosaico. Non c’è nulla di più vero, nulla di più divertente, nulla di più esaltante: siamo tutti parte di una rete invisibile di influenze, e chi osa chiudersi a riccio perde il gusto migliore del gioco.
Alla fine, dunque, non resta che aprire le braccia, lasciare che l’eco dei bastioni letterari incontri le note dei tormentoni, che le lettere dei grandi scrittori si mescolino ai commenti improvvisati di una sposina veneta, e gridare mentalmente: “Benvenuti nel caos dell’influenza! Qui tutto si contamina, tutto si riscopre, tutto si esalta. E noi ridiamo, perché è la cosa più intelligente e più divertente che si possa fare.”
E con questo, il cerchio è chiuso. Laclos, Stendhal, Nietzsche, Lethem, Bloom, il taccuino rosso, i treni, i turisti, le spose venete e persino i calabresi chiassosi: tutti partecipi, tutti complici, tutti felici. L’estasi dell’influenza non è teoria, non è testo critico, non è esercizio accademico: è vita, è caos, è festa, è risata, è cultura che si passa di mano in mano senza chiedere permesso.
nono blocco
(chiusura ironica e surreale, come un vero “manuale dell’influenza culturale”)
Bene, allora prendete appunti, perché ecco il regolamento non scritto del contagio culturale, o come preferisco chiamarlo, il “manuale surreale dell’influenza”: punto primo, non esistono punti fissi. Tutto è relativo, tutto è variabile, tutto è potenzialmente contagioso. Una frase letta per caso, un brano musicale ascoltato senza volerlo, la voce stonata di un turista che discute animatamente con un bibliotecario: tutto può diventare nutrimento, tutto può diventare esplosione creativa.
Punto secondo, la resistenza è illusoria. Non c’è muro abbastanza solido, bastione abbastanza alto, difesa abbastanza sofisticata che possa impedire all’influenza di infiltrarsi. Lo testimoniano Laclos con le sue lettere da assedio, il viaggiatore con il suo taccuino rosso, e persino la sposina veneta, che commenta ogni dettaglio con l’entusiasmo di un generale in esercitazione. Resistete quanto volete: l’onda vi sommergerà, e meglio ridere che piangere.
Punto terzo, l’estasi è obbligatoria. Non c’è alternativa. Ogni contaminazione, ogni mescolanza, ogni appropriazione felice di idee altrui è un orgasmo intellettuale in miniatura. Non importa se vi sembra casuale o caotica: lasciatevi trasportare. È un’estasi che combina piacere, sorpresa e un pizzico di disorientamento. Se non vi sorprende almeno una volta al giorno, probabilmente state sbagliando qualcosa.
Punto quarto, l’ironia è la chiave. Non prendete tutto troppo sul serio. I calabresi chiassosi, i treni notturni, i tormentoni, i visitatori improbabili delle librerie polverose: sono tutti insegnanti mascherati. Ridere di ciò che vi attraversa, riconoscere la bellezza del caos, e abbracciare l’assurdo è parte essenziale dell’influenza.
Punto quinto, la cultura è una festa. Prendete le regole, mescolatele, riscrivetele, mischiate i secoli e i continenti, e servitele come un cocktail esplosivo di idee. Ogni volta che un pensiero vi colpisce, annotate, ricordate, ridete. L’influenza non è furto: è danza condivisa. Il plagio diventa piacere se accompagnato da un sorriso e da un senso di meraviglia.
Punto sesto, il gioco non ha fine. Laclos può dialogare con Nietzsche, Stendhal può scherzare con Lethem, Bloom può fare il broncio mentre voi ridete sotto il tavolo. Tutti esistono simultaneamente, tutte le epoche convivono, e voi siete lì, spettatori e partecipanti, complici e testimoni. La cultura non è lineare, non è gerarchica, non è controllabile: è un ecosistema folle, e il vostro compito è lasciarvi attraversare.
Infine, punto settimo, ricordatevi di ridere di voi stessi. L’ego è il bastione più fragile, e l’ironia l’artiglieria più efficace. Ogni volta che vi sentite originali, ricordate: siete un cocktail di influenze, un mosaico di idee rubate e restituite, e ogni dettaglio della vostra vita quotidiana — dai treni rumorosi alle spose commentatrici — è parte integrante della festa.
E con questo, cari lettori immaginari e reali, chiudo il manuale.
Le regole sono semplici, le applicazioni infinite, e la ricompensa è la stessa: estasi, risata, contaminazione.
Sedetevi sul vostro treno, aprite il taccuino, ascoltate il caos, lasciatevi sorprendere. Laclos potrebbe osservare da un angolo con un sorriso malizioso, il viaggiatore rosso annotare tutto, Nietzsche fare una smorfia filosofica, e voi ridere sotto la coperta del tempo e dello spazio. Perché alla fine, l’influenza non è mai una minaccia: è la festa più lunga e più folle che l’umanità abbia mai organizzato.
E così, mentre il treno corre verso orizzonti sconosciuti, il mondo rimane un grande, scintillante buffet di idee, esperienze e contaminazioni. Il manuale surreale dell’influenza è chiuso, ma la festa continua.