Nonostante i miei reiterati, ostinati e spesso volutamente provocatori attacchi polemici contro la parola scritta – parola che allora, con la sfrontatezza di chi ama sfidare convenzioni, istituzioni e aspettative, mi trovavo a definire «scrittura lingua morta» [parafrasando malamente, ironicamente e con gusto polemico Arturo Martini] – la mia esperienza artistica negli anni Ottanta si dispiegava in una maniera apparentemente paradossale, eppure profondamente coerente con la mia visione della scrittura e della vita. Ogni affermazione polemica, ogni dissenso, ogni critica feroce alla parola scritta non era mero rifiuto o ostilità, ma un modo di interagire con la scrittura, di misurare la mia voce contro le voci altrui, di provocare e provocarmi, di sondare i limiti del linguaggio e della percezione stessa. Era un continuo contrappunto tra rifiuto teorico e adesione pratica: da un lato dichiaravo morte la parola, dall’altro la inseguivo ossessivamente, la ascoltavo, la interrogavo, la scomponevo e la ricomponevo, come se fosse un organismo vivente, mutevole, capace di generare e assorbire vita. Questa tensione, apparentemente conflittuale, era in realtà il cuore pulsante della mia esperienza creativa, l’energia segreta che alimentava ogni gesto, ogni scelta stilistica, ogni deviazione dai sentieri convenzionali della letteratura.
Questa raccolta, curata con una precisione e una pazienza quasi ossessive, si presenta oggi come un florilegio di missive, appunti, riflessioni teoriche e autobiografiche che testimoniano la densità del mio rapporto con la scrittura come pratica esistenziale. Ogni testo è una tessera di un mosaico più ampio, un intreccio complesso di memoria, pensiero, esperienza e azione, in cui la parola si fonde con la vita e la vita si trasforma in parola. La loro unicità risiede nella struttura ibrida e complessa, nella capacità di resistere a ogni classificazione tradizionale, pur mantenendo un ordine interno invisibile, fatto di logiche segrete, ritmi interni e coerenza nascosta. Non sono semplici documenti, ma organismi vivi, respiri concreti della mia esperienza, strumenti di conoscenza e di confronto con il mondo e con me stesso. In questi testi la scrittura non si limita a descrivere, a registrare, a raccontare: diventa gesto, presenza, memoria, esperienza viva. Ogni lettera, appunto o frammento autobiografico porta con sé il peso di una vita intera, il segno di una tensione interiore, la traccia di un’indagine costante sul senso, sul mondo e sul sé.
Rispecchiando la varietà degli scritti che in quegli anni sgorgavano con ritmo febbrile e convulso, abolendo qualsiasi distinzione tra generi, questa concezione aderiva a una nozione più ampia e radicale di «spazio letterario». Non si trattava di un esercizio formale o retorico, ma di un progetto culturale, filosofico e quasi spirituale: uno spazio aperto, attraversabile in tutte le direzioni, dove la dicotomia tra alto e basso, tra colto e popolare, tra tradizione e innovazione, veniva smantellata, sostituita da un flusso unico, continuo, che inglobava tutto ciò che viveva e respirava intorno a me. Le mie pagine erano permeabili: accoglievano le cronache quotidiane, i gesti più minuti della vita, le emozioni e i pensieri più segreti, ma anche la teoria letteraria, la critica, la filosofia, la poesia classica e la sperimentazione più radicale. Tutto ciò che dal mondo si riversava nella scrittura e ciò che dalla scrittura rifluiva nel mondo diventava parte di un tessuto unico e coerente. Apparentemente caotico, questo flusso possedeva un ordine segreto, un principio interno invisibile che guidava la mia pratica e ne garantiva la continuità. Ogni frammento, ogni lettera, ogni appunto trovava il suo posto in un insieme coerente, pur nella varietà, nella dissonanza, nella frammentarietà.
I materiali eterogenei che in quegli anni accumulavo – testi drammaturgici destinati a teatri immaginari, romanzi incompiuti ma intensamente vivi, racconti sospesi tra realismo e visione fantastica, sceneggiature cinematografiche abbozzate, poesie di getto e poesie meditate, aforismi, riflessioni autobiografiche, note teoriche e critiche – convivevano in una tensione fertile che ne moltiplicava la ricchezza e la potenza. La pubblicazione di questi scritti fu a lungo ostacolata da circostanze esterne: una lite editoriale elegante e misurata, ma insanabile nei contenuti, incarnava le regole e i compromessi che io rifiutavo. Quell’assenza dai circuiti editoriali, lungi dall’essere un danno, rafforzò lo spirito dei testi, ne accentuò la libertà e autenticità, rendendoli più intensi, più veri, più vivi. Oggi, sotto il nome di Bo Summer’s e collegati al sito www.gaiaitalia.com, questi materiali trovano finalmente la possibilità di essere letti come un corpus unitario, organico e coerente, raccontando un percorso, un’epoca, una tensione culturale e creativa che attraversa la mia vita e il mio pensiero.
Un elemento centrale di quegli anni fu la pratica della corrispondenza epistolare: lettere fitte di digressioni, racconti minimi, confessioni, riflessioni, piccoli esperimenti stilistici, che non trovavano altra forma se non l’inchiostro sulla carta. Questa pratica, oggi quasi dimenticata, si rivelò un vero e proprio laboratorio della scrittura e del pensiero, uno spazio di confronto reale con altre menti, di esercizio della pazienza, della concentrazione, dell’ascolto, della memoria. L’attesa delle risposte – settimane o mesi – diventava parte integrante del gioco e del processo creativo: l’assenza temporale alimentava la densità della parola, rafforzava la consapevolezza della frase e generava un ritmo intimo, umano, rituale. Le risposte dei miei interlocutori, sempre gentili, attente e profonde, non saranno qui trascritte, né i nomi dei destinatari rivelati, ma il loro influsso invisibile ha modellato ogni scritto, rendendolo vivo, responsivo, parte di un dialogo che trascendeva il tempo e lo spazio. Il silenzio stesso, l’assenza apparente, diventava presenza viva, memoria tangibile, strumento di riflessione, crescita e confronto interiore.
La scrittura, dunque, non fu mai semplice esercizio stilistico o vanità: è stata esperienza vissuta, materia della mia vita, strumento di conoscenza e di resistenza, testimone di un periodo storico, culturale ed esistenziale che ha segnato profondamente la mia formazione. Ogni parola, ogni frase, ogni lettera rappresenta una forma di esistenza parallela, una voce che dialoga con il mondo e con se stessa, attraversando tempi, spazi, contesti culturali, situazioni e percezioni diverse. In questo tessuto inestricabile di vita e parola, memoria e immaginazione, esperienza e teoria, si riconosce il nucleo stesso della mia pratica: una tensione continua, un movimento incessante tra rifiuto e attrazione, tra provocazione e devozione, tra ironia e serietà, tra vita e scrittura.
Ancora più profondamente: la mia scrittura di quegli anni si nutre di incontri, letture, esperienze culturali vissute, conversazioni notturne con amici intellettuali, passeggiate nei quartieri cittadini, visite a librerie, gallerie e biblioteche, dialoghi improvvisati con artisti, scrittori e critici. Ogni contatto, ogni parola ascoltata o letta, entrava nel flusso creativo, veniva assimilata, trasformata e restituita nelle lettere, negli appunti, nelle pagine autobiografiche, nelle poesie, nei racconti. La mia vita culturale e la mia pratica di scrittura erano indissolubilmente intrecciate: difficile separare l’atto creativo dal vivere stesso, e ogni testo diventava un microcosmo in cui convergevano mondo, memoria e invenzione.
Oltre agli scritti, era il contesto stesso della vita quotidiana a nutrire la mia pratica: il rumore delle strade, le conversazioni casuali in caffè e librerie, gli incontri con persone improbabili o invisibili al mondo, i sogni e le fantasie notturne. Tutto questo confluisce nei testi, come un’infrastruttura invisibile ma potente che sosteneva e orientava la scrittura, conferendole spessore, densità e respiro. La mia percezione della scrittura, e più in generale della cultura, era totale: non si trattava solo di leggere e scrivere, ma di vivere ogni gesto, ogni incontro, ogni parola come parte di un processo creativo più vasto, in cui la vita stessa diventava testo e il testo diventava vita.
In definitiva, questi scritti non sono semplici lettere o testi privati: sono il resoconto di una vita vissuta nella scrittura, una mappa di tensioni, curiosità, dubbi, ironia, desideri e rivelazioni. Sono l’espressione di un’epoca, di una visione e di una pratica che considera la parola come organismo vivo, capace di generare esperienza, senso, memoria, relazione e resistenza. Ogni pagina testimonia che la scrittura, anche quando proclamata morta, rimane viva, vitale, capace di plasmare la realtà e di trasformare chi la pratica e chi la legge. È una scrittura che respira, che vive, che si fa presenza nel mondo, memoria e azione. Ogni frase, ogni parola è testimone di un percorso che intreccia vita e letteratura in modo indivisibile, creando un flusso continuo tra osservazione e invenzione, tra esperienza e riflessione, tra memoria e progetto, e trasformando la lettura stessa in un’esperienza che trascende il tempo.