come uno che sta sognando e sa
di sognare e nel sogno si ribella
al sogno per liberarsi di quella
camicia di forza o Nesso che già
un po' cede, un po' si scuce s'appella
disperatamente alla potestà
dei nervi che lo catapulti là
dove trema e si inerpica la stella
del piccolo giorno e forse ci si
strappa via con spasimo ciecamente
dalla madre per nascere, così
sarà, credo, anima, la più urgente
delle volte che tu e la mente una
per volta passerete dalla cruna.
Questo sonetto di Giovanni Raboni è un esempio straordinario, forse uno dei più compiuti, della sua capacità poetica di intrecciare sogno e coscienza, dimensione onirica e riflessione razionale, esperienza del corpo e tensione spirituale, in un nodo linguistico che è al tempo stesso lucidissimo e torturato, coerente e tormentato. In questi versi si coglie con forza quella che si potrebbe definire l’essenza stessa della sua poetica: la continua, struggente oscillazione tra l’aderenza alla realtà più concreta e un desiderio mai quietato di trapasso, di metamorfosi, di oltrepassamento. La poesia non è mai, per Raboni, puro abbandono lirico né esercizio di stile, ma diventa il luogo in cui una coscienza critica si misura — parola dopo parola, verso dopo verso — con l’impossibilità del dire e la necessità di dirlo comunque.
Raboni mette in scena una condizione estrema: quella dell’anima nel momento del passaggio — un passaggio che può essere letto come morte, certo, ma anche come rinascita, come momento di radicale trasformazione, di strappo tra due stati dell’essere. La scena si apre su un’immagine visionaria e lucida insieme: un soggetto che sta sognando e sa di sognare. È già questa una posizione liminare, di frontiera, una coscienza che si sdoppia e si osserva mentre è immersa in una realtà alterata. Ma ciò che conta è il gesto successivo: il rifiuto. Il sognatore non si abbandona alla deriva del sogno, come potrebbe fare chi cerca un conforto nell’inconsapevolezza, ma si ribella. Il sogno è una camicia di forza. O peggio, è una tunica di Nesso: richiamo colto e tragico alla figura mitologica che porta Eracle alla morte, simbolo di un legame mortale, di un dono avvelenato che brucia e distrugge chi lo indossa. In questo caso, la tunica o camicia non è soltanto ciò che trattiene, ma è anche ciò che brucia, che lacera. È la forma stessa della soggettività, forse la poesia stessa, che si trasforma in trappola.
Eppure questa camicia, questa costrizione, “un po’ cede, un po’ si scuce”: come se la lotta interiore, la volontà di liberazione, già iniziasse ad agire sulla struttura che imprigiona. E in quel momento critico, l’io — o meglio, l’anima — si appella disperatamente a qualcosa di più istintivo e animalesco: “alla potestà dei nervi”. È un’immagine folgorante, perché rovescia la tradizione platonica o cristiana dell’anima che si eleva alla ragione, per sostituirla con un’anima che si affida al corpo, ai nervi, alla tensione muscolare, alla scossa elettrica dell’essere. È il corpo, non la mente, che può salvarci — o almeno l’energia vitale che dal corpo promana. E quella scossa, quella catapulta, dovrebbe proiettare l’anima là dove “trema e si inerpica la stella / del piccolo giorno”: un’immagine di rara bellezza, dove la stella non è luminosa e trionfale, ma fragile, in bilico, appena sortante dall’ombra. È l’alba, sì, ma anche una figura del pensiero che si accende appena, un’intuizione minima, precaria, ma salvifica.
In questa visione, il passaggio è una nascita. Ma non una nascita simbolica e pacificata: è un trauma. Raboni lo dice senza giri di parole: “ci si strappa via con spasimo ciecamente / dalla madre”. È una delle immagini più crude e commoventi della poesia italiana contemporanea: la nascita non è una benedizione, ma un distacco violento, un atto cieco, istintivo, di rottura. E in quella rottura, in quello spasimo, si annida la possibilità — unica, irripetibile — della nascita vera, della liberazione. Per questo, aggiunge il poeta, “così / sarà, credo, anima”: la formula è ipotetica, dubbiosa, segnata da un’incertezza radicale. Ma anche nella sua precarietà, il “credo” dice una speranza. Dice una fede piccola, ma tenace.
Il culmine emotivo, e tecnico, del sonetto si trova nella chiusa, nella terzina finale, dove Raboni dispone i suoi strumenti poetici con estrema precisione e intensità. L’anima è immaginata mentre passa, “una per volta con la mente”, attraverso “la cruna”. Il riferimento è evangelico — “è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago” — ma qui perde la sua valenza morale per diventare un’immagine assolutamente concreta, fisica, sottile: la cruna come luogo minimo, strettissimo, attraverso cui l’anima deve passare. Ma non può farlo tutta insieme. Deve passare “una per volta”, come se la scissione mente-anima imposta dalla modernità potesse essere ricomposta solo in un transito individuale, dolorosamente parcellizzato. È un’immagine finale di grande potenza e delicatezza, che restituisce in pieno il senso del sonetto come passaggio — non solo di contenuti, ma di forme, di pensiero, di linguaggio.
In definitiva, questo sonetto è una meditazione intensa e radicale sull’estrema soglia dell’esistenza. È una poesia che pensa la coscienza del trapasso non come evento mistico o retorico, ma come esperienza concreta, lacerante, reale. È una poesia che sta sul limite e ne fa materia espressiva: la soglia tra sonno e veglia, tra corpo e spirito, tra essere e non essere, tra parola e silenzio. Ma ciò che colpisce, più di tutto, è l’intensità emotiva e intellettuale con cui Raboni affronta questa soglia. Non la mitizza, non la spiritualizza, non la alleggerisce con metafore rassicuranti: al contrario, la abita con piena consapevolezza della sua angoscia, del suo dolore, della sua fisicità. Il lessico, come sempre nella sua poesia più alta, mescola filosofia, mito, medicina, psicologia: “nervi”, “camicia di forza”, “spasimo”, “anima”, “cruna” — ogni parola è concreta, ma anche carica di stratificazioni culturali e affettive. E tutto questo avviene entro una forma classica — il sonetto — che non è mai esercizio formale, ma camicia di forza necessaria, spazio regolato dentro cui la poesia può combattere la sua battaglia.
Raboni non rompe mai la forma: la tende fino al limite, la svuota, la spreme, la disloca internamente. Ne fa una forma-mondo, in cui il pensiero può sbattere, respirare, gridare in silenzio. In questo senso, la tecnica del sonetto diventa essa stessa allegoria: una cruna, attraverso cui far passare — con spasimo, con coscienza, con lucidità — l’anima della poesia.
La tecnica di questo sonetto di Giovanni Raboni è straordinariamente raffinata, al punto che il lettore potrebbe non avvertire subito la complessità strutturale e metrica che sorregge il dettato, tanto è naturale e teso il fluire dei versi. Eppure è proprio lì, in quella tensione tra forma classica e urgenza espressiva, che si gioca gran parte della sua forza poetica. Proviamo a smontarne e analizzarne alcuni aspetti fondamentali:
Siamo davanti a un sonetto italiano canonico, composto da:
- due quartine (ABBA ABBA),
- seguite da due terzine (CDC DCD).
L’endecasillabo è la misura dominante, anche se Raboni ama spesso forzarlo ritmicamente, spezzandolo internamente con enjambements e sfasamenti metrici che ne complicano la musicalità, rendendola inquieta, scattosa, quasi antimetafisica. Tuttavia, la misura regge sempre, come un corpo nervoso ma saldo.
La sintassi di Raboni è tesa, fluida, spinta da un enunciato unitario che attraversa tutto il sonetto senza interruzioni forti. La punteggiatura è minima (una sola virgola e un punto fermo finale), e i numerosi enjambements rompono i confini del verso in un moto continuo:
“come uno che sta sognando e sa
di sognare e nel sogno si ribella
al sogno”
Il soggetto si costruisce a rilento, il verbo è rimandato, le subordinate si accumulano: è una lingua che imita l’affanno del pensiero che cerca un varco, una via d’uscita. La sintassi specchia l’azione che descrive: è un'anima che si agita nella gabbia dei versi.
Raboni lavora sul doppio registro: la forma metrica è rigida, classica, ma il lessico e le immagini scalciano al suo interno. Ne è prova lo straordinario parallelismo tra:
“camicia di forza o Nesso”
Il primo termine è moderno, psichiatrico, concreto; il secondo è mitologico e tragico. Ma entrambi sono immagini di costrizione. E come l’anima si agita nella camicia/Nesso, così il verso si agita nella misura.
Raboni non cerca eufonie liriche, ma una sonorità pensante, nervosa, spesso segnata da suoni duri o difficili da accostare:
“camicia di forza o Nesso che già
un po’ cede, un po’ si scuce”
Qui le sibilanti (“s”, “sc”) e i monosillabi duri (“già”, “po’”, “cede”) creano un attrito fonico, un senso di tensione interna, come se il tessuto sonoro fosse strappato.
Il lessico è colto, ma non prezioso. Raboni alterna termini di sapore letterario (“potestà”, “anima”, “cruna”) a parole di uso più quotidiano (“camicia di forza”, “nervi”, “spasimo”), creando una frizione tra astratto e concreto.
Il tono generale è quello di una meditazione metafisica condotta però con gli strumenti della fisicità — il dolore, il sogno, il corpo. È una poesia dell’anima che ha ancora i nervi in tensione.
Questo finale è magistrale:
“sarà, credo, anima, la più urgente
delle volte che tu e la mente una
per volta passerete dalla cruna.”
Qui Raboni comprime il tempo e lo spazio, crea una sorta di buco d’ago in cui far passare tutto il senso del poema. L’ultima parola — “cruna” — è delicata, precisa, quasi acuminata. Ma è anche apertura e limite, è il luogo simbolico del passaggio impossibile.
Quel “una per volta” ha un andamento rallentato, faticoso, che restituisce il movimento stesso dell’anima nel momento della soglia. La poesia termina dunque su una stretta — sonora, concettuale e ritmica — che sigilla il testo con una perfezione che non è mai compiacimento, ma necessità.
La tecnica di questo sonetto è l’arte di contenere l’angoscia nel ritmo, la vertigine nella forma. Raboni non rompe mai davvero la struttura, ma la spinge fino al limite della frattura. Come uno che sogna e sa di sognare, ma sogna in versi, e quei versi sono la vera camicia — o Nesso — da cui cerca di liberarsi. E riesce, sempre, scrivendo una poesia che si contorce come un corpo, ma respira come un’anima.