sabato 20 settembre 2025

[MARIO MERZ: NUMERO, SPAZIO, CASA, COSMO]


L’INIZIO DEL PERCORSO

Non si comincia mai dall’inizio, diceva Merz, perché l’inizio è già germinazione, già proliferazione di possibilità. Si entra dentro l’opera come in un campo magnetico che non ha un vero ingresso né una vera uscita. Guardare un igloo, o un numero scritto al neon, significa accettare di perdersi in un sistema che non si chiude, ma che continuamente rimanda oltre, spinge a un altrove.

Se c’è un punto da cui partire, forse non è una data, né un’opera specifica, ma un’intuizione: l’arte come informazione, e insieme come impossibilità di ridursi a informazione pura. “Non esiste arte senza aggettivi” – diceva Merz. Ed è lì che si apre la sua sfida: ogni opera, per esistere, reclama linguaggio, chiede di essere detta, di essere qualificata, ma non si lascia mai esaurire dalle parole che la circondano.

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IL NUMERO COME RESPIRO

Tra le invenzioni di Merz, quella del numero resta forse la più radicale. Non perché il numero sia un simbolo, ma perché è respiro, ritmo, battito. Quando scrive in progressione fibonacciana, non vuole dare la prova di una legge matematica, bensì la testimonianza di una vitalità. I numeri si espandono come cerchi nell’acqua, come cellule che si moltiplicano. Non c’è calcolo, ma proliferazione; non equilibrio, ma spinta vitale.

Molti, prima di lui, hanno tentato di coniugare arte e scienza, di piegare il Numero Aureo o le armonie matematiche a regole estetiche. Ma si trattava spesso di illusioni, di tentativi di trovare un codice universale che in realtà tradiva sia l’arte sia la scienza. Merz, al contrario, non cerca coincidenze rassicuranti. Per lui, il numero non è regola ma energia: “i numeri vivi danno delle visioni”, diceva. E proprio questo è il punto: la visione non nasce da un calcolo, ma dalla capacità del numero di farsi organismo, creatura, energia che cresce.

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IGLOO: IL COSMO RACCHIUSO

L’igloo, nell’opera di Merz, non è mai solo forma. È rifugio e cosmologia, è isolamento e relazione, è materia che racchiude e che si lascia attraversare. Vetro e legno, trasparenza e opacità: due forze che convivono, che dialogano, che trasformano ogni costruzione in un’esperienza.

Un esempio emblematico resta il Sentiero per qui alla Triennale di Milano del 1986. Qui l’igloo diventa non solo opera ma manifesto: un nucleo di energia che attrae, un centro del mondo che si definisce non per chiusura ma per apertura. L’arte, suggerisce Merz, non è rappresentazione ma generazione. Ogni opera è un campo energetico che produce spazio, che non lo occupa soltanto ma lo fa nascere.

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MATERIALI INQUIETI

Acciaio, vetro, cera, pietre, rami. Fragili o micidiali, sempre attraversati da un rischio. Merz li sceglie per la loro forza viva, non per la loro docilità. Non li addomestica, non li piega alla decorazione. Li lascia vibrare nella loro natura, nel loro pericolo, nella loro crudezza.

C’è qualcosa di quasi etico in questo atteggiamento: non mascherare la durezza del mondo, ma assumerla, trasformarla in occasione di coscienza. Per Merz la bellezza non è mai un incanto innocuo, ma sempre un attraversamento di fragilità e minacce. È questa tensione a rendere le sue opere vere e non consolatorie. Nessuna favola, nessuna illusione: solo la verità della materia che si offre e si espone.

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LA CASA DI FOGLIE

Eppure, in mezzo a queste tensioni, Merz non smette di costruire dimore. Dimore fragili, provvisorie, poetiche. La “casa tra gli alberi” è una delle sue invenzioni più suggestive: architettura ideale, spazio sospeso che non promette protezione definitiva ma un rifugio temporaneo, aperto. È un atto di coraggio, perché afferma che abitare non significa possedere, ma sostare, lasciare tracce, accettare la precarietà.

La casa fatta di foglie non è un paradosso, ma una metafora precisa: come il pensiero, germina e si disperde, concentra e si dissolve. Non c’è chiusura, c’è movimento. Ogni abitazione immaginata da Merz è sempre una soglia, mai un recinto.

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L’ETICA DELL’ABITARE

Non a caso, Tommaso Trini ha parlato di un’arte dell’abitare. E Merz sembra incarnarla fino in fondo: abitare non significa riempire uno spazio, ma crearne uno nuovo. Ogni igloo, ogni casa sospesa, ogni cartello di foglie è un’architettura antropometrica, misurata sull’uomo, ma aperta al cosmo. Non si tratta solo di luoghi da vivere, ma di luoghi che insegnano a vivere.

Questa è forse la più grande novità di Merz: trasformare l’arte in dimora, in spazio di insediamento, in atto etico. Le sue opere sono eventi che accadono, case che si aprono, germinazioni che continuano. Non trattengono, ma liberano. Non concludono, ma inaugurano.

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UNA STORIA PERSONALE

Negli anni Ottanta, affascinato dalla radicalità di Merz, scrissi un testo intitolato La poesia numerica di Mario Merz. Partivo da Voglio fare subito un libro, opera in cui Merz stesso dichiarava la sua urgenza, e cercavo di mostrare come la sua scrittura fosse poesia tanto quanto le sue installazioni. Quel lavoro mi portò a incontrare Jole De Sanna, critica d’arte militante, che aveva seguito da vicino le vicende dell’Arte Povera e che trovò in quelle pagine un’intesa di sguardi. Da quell’incontro nacque un’amicizia duratura, segnata da discussioni appassionate, da affinità e da scambi che andarono oltre la critica.

Quel testo rimase inedito, se non per una prefazione pubblicata nel 2018. Ma non credo sia un caso: come le opere di Merz, anche i testi possono restare sospesi, germinali, pronti a riemergere quando le circostanze lo richiedono.

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ANCORA UNA VOLTA MERZ

Riscrivo oggi, a distanza di anni, perché Merz non smette di interrogare. Non è un artista che si esaurisce in una stagione, né un autore che si lascia chiudere in una definizione. È un generatore di domande, un costruttore di spazi che restano attivi, che continuano a provocare pensiero e scrittura.

I suoi numeri non sono formule, ma visioni. I suoi igloo non sono rifugi, ma cosmi. Le sue case di foglie non sono fragili scarti, ma metafore di una vita che germina e si disperde.

Forse, allora, il compito della critica non è spiegare Merz, ma seguirlo, lasciarsi condurre dai suoi percorsi del senso. Accettare che ogni volta l’inizio non è mai davvero un inizio, ma un nuovo germoglio, un’altra possibilità.