Quando il tempo venne dichiarato in contumacia, le cose cominciarono a sfaldarsi in un silenzio pieno di lamento. Non c’era più ieri, né un domani al quale affidarsi come a un lenzuolo fresco. Rimanevano solo porzioni di presente, sbriciolate come cialde troppo friabili, amare in bocca, dolci solo a memoria.
All’inizio non lo notarono in molti. I più continuarono a vivere con l’automatismo degli orologi da polso, ma già le lancette si ostinavano a fermarsi su ore spurie: le tre meno otto, le undici e sedici e mezza, mezzogiorni lunghi tre sere. Nei villaggi, gli asinelli avevano cominciato a piangere. Non ragliavano: piangevano. Lacrime lente, oblique, che rigavano i musi come solchi nel terreno arato da un dio distratto. Le vecchie li accarezzavano con gesti antichi, chiamandoli per nome come si fa con i figli morti, o mai nati.
Il vento portava voci in disuso. "Le genti paniche", diceva qualcuno, "sono tornate". E davvero si vedevano, al crepuscolo, sagome danzanti nelle radure, corpi nudi e impauriti che ridevano con ferocia, poi si dissolvevano come polline. Qualcuno provò a seguirle, a chiedere spiegazioni, ma tornò muto o non tornò affatto.
Le ultime ragazze si raccoglievano al bordo delle fontane, con le unghie sporche di terra e gli occhi così fissi da sembrare statue. Nessuno le aveva cresciute. Nessuno sapeva da dove venissero. Alcune portavano bracciali fatti di ossa sottili, altre scrivevano parole sulle pietre. “Aspetta”, diceva una. “Resta”, diceva un’altra. Come se ancora si potesse, come se il tempo, sebbene accusato e condannato, stesse solo dormendo sotto i cardi in fiore.
O come se stesse sognando noi.