L’eredità invisibile di Alessandro Cappabianca: la luce che resta dopo il film
Ci sono persone che non fanno rumore. Non cercano il centro della scena, non alzano la voce, non si aggrappano all’attualità con affanno. Ma intorno a loro — silenziosamente — si forma un campo di forza. Un campo magnetico del pensiero. Alessandro Cappabianca è stato questo: un critico che non voleva convincere, ma condividere; che non pretendeva attenzione, ma la meritava fino in fondo. La sua figura si è mossa lungo i margini della cinefilia italiana, ma quei margini, grazie a lui, si sono dilatati fino a contenere tutto il cuore del problema. E oggi, nella sua assenza, non possiamo che riconoscerne la grandezza: non come nostalgia, ma come necessità. A differenza di molti suoi colleghi — anche illustri — non ha mai smesso di pensare. Non ha mai ceduto all’aneddotica, alla superficialità dell’opinione, alla retorica del gusto personale. La sua era un’attività intellettuale pienamente etica: ogni riga, ogni osservazione, ogni interpretazione veniva filtrata da un’intensa responsabilità verso il pensiero e verso l’immagine. Se scriveva di un film, era perché quel film diceva qualcosa che non poteva essere taciuto. Se ne scriveva così, era perché non bastava ripetere schemi, etichette, aggettivi. Alessandro Cappabianca apparteneva a quella razza rarissima di critici che non vogliono sedurre il lettore, ma farlo lavorare. Lo coinvolgeva nel gesto stesso dell’interpretazione, lo costringeva a non cedere alla fretta, al pregiudizio, alla semplificazione. In un’epoca in cui tutti hanno un’opinione, lui insegnava il dubbio. Il suo sguardo, rigoroso e affilato, si posava con identica intensità su autori celebrati e su registi minori. Non c’erano gerarchie convenzionali nel suo modo di guardare: c’erano semmai costellazioni, tensioni, ossessioni che tornavano. La crudeltà, per esempio: non come categoria moralistica, ma come linguaggio, come necessità ontologica. Il sacro: non come religione, ma come rottura del quotidiano, come apparizione dell’insostenibile. L’incarnazione: l’idea che il cinema debba sporcarsi di corpi, di viscere, di fallimenti. Il suo studio su Antonin Artaud — così come le sue riflessioni su Bataille, su Carmelo Bene, su Fassbinder — non erano escursioni teoriche, ma veri e propri atti di allineamento. Cappabianca non si limitava a interpretare le immagini, cercava di stare loro dentro. Ne accettava la vertigine. Le sue monografie sono oggetti preziosi, ostinati, intensi. Quella su Erich Von Stroheim, per esempio, è un piccolo classico per chiunque voglia capire come la modernità del cinema sia già tutta inscritta nel suo esordio muto, nella figura del regista megalomane e disperato. Quella su Billy Wilder non è una semplice celebrazione del cinismo elegante, ma un’indagine sul disincanto e sulla commedia come strumento tragico. Polanski, Akerman, Dreyer, Ferreri: ogni nome che ha studiato era un prisma, una fenditura attraverso cui leggere la crisi del mondo. E ogni libro che ha scritto — purtroppo pochi, rispetto a quanto avrebbe potuto donare — era una forma di resistenza. Non al mercato, o alla superficialità mediatica, ma alla stupidità, alla semplificazione, alla perdita di profondità. Era come se volesse ricordarci continuamente che il cinema non è mai solo quello che mostra, ma è soprattutto ciò che ci interroga. Chi ha avuto la fortuna di assistere a una sua lezione, o di scambiare con lui anche poche parole, sa che non esagero. Alessandro parlava come scriveva: con precisione, con lentezza, con densità. Mai banale. Mai pigro. Mai intento a recitare un ruolo. Aveva la rara capacità di aprire uno spazio di pensiero anche nel contesto più banale. Se interveniva a un convegno o a un seminario, bastavano tre frasi per cambiare il livello della discussione. Aveva quella che si potrebbe chiamare autorevolezza discreta, che nasce non dal potere ma dalla coerenza. In un paese come l’Italia, dove spesso la critica si fa chiacchiera, narcisismo, o rassegna stampa, la sua figura era un anacronismo vitale. Eppure, non era un elitista. Non parlava solo agli specialisti. La sua scrittura, pur densissima di riferimenti e stratificazioni, aveva una limpidezza rara. Sapeva coinvolgere il lettore senza blandirlo. Sapeva portarlo là dove non pensava di voler andare. Sapeva — e questo è il suo grande dono — rendere il cinema di nuovo una questione centrale, umana, non settoriale. Aveva una visione ampia, nutrita di arte, di teatro, di filosofia, ma sempre incarnata, concreta, attenta ai dettagli e alle vibrazioni. E quando parlava di un film, non lo riduceva mai alla sua sinossi, ma lo trattava come un evento: qualcosa che avviene, che cambia lo spettatore, che lascia una traccia. Tante volte, nei suoi saggi, ritorna il tema del buio. Non solo il buio della sala, ma quello dell’inconscio, quello del desiderio, quello che ogni immagine cerca di rischiarare senza mai riuscirci del tutto. Cappabianca amava quel buio. Lo esplorava. Lo interrogava. E lo rispettava. Non cercava di eliminarlo, ma di metterlo in relazione con noi. Perché per lui il cinema era proprio questo: un passaggio nel buio verso una forma possibile di verità. Una verità che non si può mai dire tutta, ma che ogni tanto si lascia intravedere. E in quei momenti — che lui sapeva riconoscere con precisione chirurgica — si apriva uno spazio di pensiero assoluto. Uno spazio che oggi manca, e mancherà ancora di più. Nel tempo della velocità, della riduzione, della bulimia visiva, Alessandro Cappabianca è stato un difensore dell’approfondimento, del dettaglio, del tempo lento. La sua morte ci priva di uno degli ultimi intellettuali per cui il cinema era ancora una forma di filosofia incarnata. E se oggi possiamo ancora parlare di cinema come gesto critico, come forma di sapere, come mappa del contemporaneo e delle sue vertigini, è anche grazie a lui. Ai suoi scritti, ai suoi silenzi, alle sue domande. Non ci saranno commemorazioni urlate, e forse è giusto così. La sua opera non chiede lacrime, ma riletture. Non omaggi, ma ascolto. Riaprire le sue pagine, rivedere i film che ha commentato, tornare a interrogarci su cosa davvero significhi guardare: ecco come si può continuare a dialogare con lui. Perché Alessandro Cappabianca è ancora qui.Nel gesto di accendere una lampada tascabile sul buio del senso.
Nel modo in cui ci sediamo, soli, davanti a uno schermo, e aspettiamo che qualcosa ci parli.
Nel brivido che ci attraversa quando l’immagine — per un attimo — coincide con il pensiero.
Nel silenzio sospeso dopo un grande film.
Nel bisogno, sempre più urgente, di uno sguardo che non si accontenti.
Grazie. Per averci insegnato che il cinema non è un argomento: è un rischio.
E che guardare è, ancora oggi, un atto di pensiero.
E di amore.