venerdì 27 giugno 2025

Pride, bandiere e coerenza: se i diritti non valgono ovunque

Ogni Pride racconta una storia, non solo di identità, ma anche di scelte politiche. In ogni corteo, ciò che si porta, ciò che si mostra, ciò che si tace o si omette, definisce un orizzonte etico. Per questo, mentre domani Milano si prepara alla sua grande manifestazione arcobaleno, è importante guardare con lucidità ai temi emersi nelle ultime settimane, anche partendo da ciò che è accaduto a Roma.

Al Roma Pride 2025, tra le tante voci e istanze, hanno sfilato anche bandiere palestinesi e slogan che denunciavano il pinkwashing — ovvero l’uso strumentale dei diritti LGBTQ+ da parte di Stati coinvolti in conflitti o in politiche repressive. Frasi come “No Pride in Genocide” e “Free Palestine from pinkwashing” hanno sollevato un acceso dibattito. Alcuni hanno parlato di antisemitismo, altri di solidarietà internazionale. Alcuni si sono chiesti se quelle bandiere rappresentassero solo le vittime civili o anche regimi che negano sistematicamente i diritti delle persone queer. Una riflessione legittima.

Il punto è delicato, ma inevitabile: può un Pride includere simboli politici e nazionali — da qualsiasi parte provengano — che siano associati a sistemi repressivi, omofobi o autoritari? E, d’altra parte, può accettare sponsor, patrocini e fondi da soggetti istituzionali che rappresentano governi accusati di violazioni sistematiche dei diritti umani?

A Milano, il tema assume un’altra forma. Tra i partner e sostenitori del Milano Pride compaiono anche organizzazioni internazionali come il Keren Hayesod, legato al sostegno finanziario e politico del governo israeliano. Questa presenza, pur non esplicitamente tematizzata nel materiale ufficiale del Pride, solleva interrogativi etici simili, seppur da una prospettiva differente.

Non si tratta qui di stabilire un “giusto” o uno “sbagliato” in senso assoluto. Ma di porsi alcune domande fondamentali: si può parlare di diritti civili senza guardare alle responsabilità politiche dei propri alleati? Si può sfilare per la libertà, mentre si è sponsorizzati da chi, altrove, reprime con la forza?

Non sono solo le bandiere a fare problema. Lo sono anche gli sponsor. Perché ogni forma di finanziamento o visibilità istituzionale porta con sé un impianto simbolico, e una narrazione. In questo senso, si può parlare di un rischio crescente per il Pride: quello di diventare un terreno di legittimazione per Stati e poteri che, pur promuovendo i diritti LGBTQ+ sul piano interno o mediatico, negano questi stessi diritti in altri territori, o li usano come strumento propagandistico.

Israele, in questo contesto, è il caso più evidente. Tel Aviv è da tempo presentata come meta LGBTQ+-friendly, ma questa narrazione convive con politiche governative di apartheid denunciate da numerose organizzazioni internazionali e da esponenti della società civile israeliana stessa. Il pinkwashing è una strategia riconosciuta, e accettare passivamente questa operazione nei Pride significa perdere l’autonomia del messaggio, e con essa la sua credibilità.

Allo stesso tempo, si assiste da anni a una dinamica parallela nel settore privato: quella del rainbow washing. Brand, istituzioni e aziende che ogni giugno si tingono di arcobaleno senza una reale assunzione di responsabilità politica o sociale: loghi rainbow, patrocini, dichiarazioni di intenti che svaniscono a luglio, senza un impegno concreto contro le discriminazioni, senza sostegno alle comunità, talvolta in aperta contraddizione con le politiche interne dell’azienda stessa. Quando l’arcobaleno diventa una decorazione, il Pride perde la sua forza dirompente e si trasforma in una campagna pubblicitaria.

Ma il problema non riguarda solo Israele o la Palestina. Riguarda ogni presenza simbolica nei Pride che implichi una doppia morale sui diritti: una morale progressista per l’Occidente, e un silenzio complice quando si parla di diritti negati altrove. Riguarda il fatto che in molti Paesi, dai Territori palestinesi all’Iran, dall’Egitto alla Russia, le persone LGBTQ+ non hanno voce, protezione, cittadinanza. In alcuni casi, nemmeno diritto alla vita. Eppure, le loro bandiere possono sfilare. Mentre si tace su cosa accade lì alle persone queer.

Il rischio non è la politicizzazione del Pride. È la sua selettività. È la sua incoerenza.

A Roma, alcune voci — tra cui l’artista Laika e realtà come Arcigay Roma — hanno sollevato perplessità sulla presenza di sponsor o sostenitori indirettamente riconducibili al governo israeliano, chiedendo trasparenza e coerenza etica. Non si tratta di escludere, ma di chiarire. Di scegliere cosa si porta in piazza, e perché. Di non trasformare il Pride in un palco indistinto dove ogni bandiera è ammessa purché abbia un ufficio stampa.

A Milano, la questione resta aperta. Il titolo scelto per il corteo, “Resistenza arcobaleno”, richiama una tensione forte: quella tra visibilità e lotta. Tra festa e memoria. Ma la resistenza non è marketing. È scelta. È visione. E resistere, oggi, significa anche non accettare la logica per cui i diritti LGBTQ+ diventano merce di scambio, decorazione diplomatica, copertura geopolitica.

Chi vuole davvero stare dalla parte della libertà non può farlo a metà. Non può sfilare accanto a chi opprime, in nome di una causa che nega la nostra. Non può fingere che i diritti valgano solo in alcune aree del mondo, e non in altre.

Il Pride non è una vetrina. È ancora, o dovrebbe essere, una forma di presa di parola collettiva. Non è necessario gridare. Ma è necessario non tacere.

Nessuna bandiera può rappresentarci se, altrove, quella stessa bandiera ci perseguita. Nessuno sponsor può “sostenerci” se sostiene regimi che ci negano.

Nel 2025, la comunità LGBTQ+ non può più permettersi silenzi strategici. Né slogan vuoti. La nostra libertà è indivisibile. O lo è per tutte e per tutti — anche per chi è queer a Gaza, a Gerusalemme, a Teheran, a Mosca — o non lo è per nessuno.