Nel panorama delle grandi retrospettive italiane dedicate al Novecento, “Fausto Melotti. Lasciatemi divertire!” alla GAM di Torino – visitabile fino al 7 settembre 2025 – si staglia come un’occasione preziosa e complessa, di quelle che più che un’esposizione sono un viaggio: non solo nella carriera di un artista poliedrico, ma dentro un’idea diversa di tempo, di ritmo, di forma, di bellezza.
Curata con notevole sensibilità da Chiara Bertola e Fabio Cafagna, la mostra è costruita come un’opera musicale a più voci, articolata in sezioni che si richiamano e si contrappuntano tra loro. Non si limita a mostrare, ma propone una drammaturgia del vedere: ogni sala diventa una scena, ogni opera una battuta in uno spartito visivo che Melotti – scultore, ceramista, musicista, scrittore – ha saputo scrivere con un’originalità radicale e insieme lieve, mai ostentata. Il titolo, Lasciatemi divertire!, non è una boutade, ma una dichiarazione esistenziale: il gioco come metodo, la leggerezza come profondità, il divertimento come disciplina interiore.
La GAM ospita oltre 150 opere, molte provenienti dalla collezione della Fondazione Melotti, altre da raccolte pubbliche e private, incluse gemme come la Modulazione ascendente (1977), installata nel giardino interno e visibile già dall’ingresso come un preannuncio: un crescendo verticale di strutture leggere, in cui il metallo – che di norma grava – qui si eleva, si tende, si lascia attraversare dalla luce e dall’aria. È una scultura che non occupa lo spazio: lo evoca, lo scandisce, lo rende visibile. Ed è questo il gesto melottiano per eccellenza: trasformare il vuoto in protagonista, il peso in vibrazione, la materia in gesto musicale.
Il percorso si articola in otto sezioni che ripercorrono l’intero arco della carriera dell’artista, dalla fase iniziale legata all’astrattismo e al clima del razionalismo milanese degli anni Trenta, al travaglio interiore del secondo dopoguerra, fino alla maturità poetica delle composizioni sospese degli anni Settanta e Ottanta. Lungi dal seguire una linea progressiva o cronologica in senso rigido, le sezioni si dispongono secondo un criterio tematico e risonante: Città e foreste, Cosmologie e miti, Alfabeti, Pioggia e vento, Intervalli e contrappunti – titoli che sembrano rubati a partiture musicali o a poesie ermetiche, e che rendono giustizia alla pluralità di linguaggi con cui Melotti ha attraversato il Novecento.
Ogni opera è una risposta silenziosa alla domanda su cosa possa ancora essere la scultura nel tempo moderno: non più monumento né allegoria, ma presenza eterea, tensione, vibrazione. Il metallo, la ceramica, la carta, il legno: ogni materiale viene usato come una voce differente di un coro. L’arte di Melotti è fatta di cesure, di pause, di respiri: è un’arte che non dice tutto, che lascia spazio, che invita. In questo senso, le sue sculture “leggere” – costruite con fili metallici, aste, forme geometriche appena trattenute – sono dichiarazioni di poetica. Ma anche le opere più compatte, i teatrini, le ceramiche antropomorfe, non fanno mai rumore: agiscono per allusione, per sottrazione, per trasparenza.
I “teatrini” meritano una digressione a parte. Realizzati a partire dagli anni Quaranta in ceramica smaltata o in materiali compositi, sono piccole scene in miniatura, affollate di figurine enigmatiche, architetture surreali, simbologie sospese tra l’infanzia, il mito e la tragedia. Sembrano giocattoli, ma non lo sono: sono mappe psichiche, rappresentazioni dell’uomo moderno disorientato, oppure favole ironiche raccontate dal punto di vista di chi ha perso la fede nella storia ma non nella poesia. In queste opere il senso del teatro diventa centrale: non come luogo di spettacolo, ma come metafora dell’esistenza, spazio della rappresentazione e della maschera. E qui si sente l’eco del Melotti scrittore, autore di libri come Il Triste Minotauro, Linee o I racconti – testi asciutti, ironici, spesso paradossali, che accompagnano in modo perfetto la sua scultura: piccoli apologhi morali dove tutto si tiene e nulla si spiega.
Il ritmo della mostra è orchestrato con grande maestria. Le opere non sono semplicemente esposte, ma messe in scena: su piedistalli sobri, simili a “I” tipografiche, sospese nello spazio, accompagnate da luci fredde e ombre nette, da vuoti eloquenti e pause visive. L’atrio, i vestiboli, il giardino, persino la biblioteca della GAM diventano parte integrante del percorso. L’allestimento evoca – senza imitarli – gli ambienti di lavoro di Melotti, le sue botteghe-laboratorio tra Milano e Roma, quei luoghi in cui l’arte non era un’occupazione ma un’aria da respirare, un orizzonte interno.
Ciò che colpisce, camminando tra queste opere, è il silenzio. Non il silenzio dell’assenza, ma quello della concentrazione: Melotti sembra suggerire che la vera arte non si impone, non urla, non si giustifica – si lascia essere. Come la musica da camera, che non ha bisogno di palcoscenici ma di orecchie attente, anche l’arte melottiana si rivolge a chi sa ascoltare. È un’arte civile ma non ideologica, che si fa carico della storia ma non la rappresenta; che abita il dolore ma lo trasforma in misura, in ritmo, in segno.
La mostra è accompagnata da incontri, conferenze, visite guidate e approfondimenti – tra cui segnaliamo la lezione-concerto su Musica e Scultura del 4 giugno, e il dialogo su Gioielli e Teatrini previsto per il 3 luglio – pensati per restituire al pubblico la multidimensionalità di un artista spesso troppo semplificato o relegato a categorie comode (astratto, lirico, leggero). In realtà, Melotti è un pensatore visivo, un costruttore di microcosmi, un filosofo che ha scelto come linguaggio la forma. La sua arte è una forma di conoscenza.
In un tempo come il nostro, affollato di rumori, di affermazioni urlate, di immagini saturate e iperprodotte, la lezione di Melotti è quanto mai attuale: ci insegna a togliere, a respirare, a rallentare. A vedere di nuovo. Lasciatemi divertire! non è un capriccio: è una disciplina dell’anima, un’etica dello sguardo, un’arte del trattenersi. In questo, Melotti è davvero il poeta della leggerezza, ma di una leggerezza gravata da tutto il peso della storia, eppure capace di sollevarlo – con un gesto, con un segno, con un filo.