domenica 29 giugno 2025

Tentativo (un racconto)


La stanza respira, lentamente, con il respiro lungo e incostante di un animale addormentato che non vuole svegliarsi, ma che nemmeno dorme del tutto. C’è in quell’aria un tremore che non è movimento, ma una potenzialità trattenuta, una vibrazione congelata. Ogni oggetto sembra sospeso in un'attesa fragile, immerso in quella luce torbida e opaca che precede l’abbandono, una luce incerta che non illumina ma avvolge, che non svela ma consuma piano i contorni delle cose. È una luce che non ha ancora deciso se deve lasciar entrare il giorno o trattenere la notte, un chiaroscuro stanco che sta tra il sonno e l’insistenza della veglia, come se il mondo esitasse a continuare. Le pareti, che una volta erano contenitori sicuri, ora non delimitano più: sembrano confini provvisori, porosi, destinati a dissolversi al primo errore, al primo passo maldiretto. Eppure resistono, per abitudine o per pietà. Ma io cammino piano, piano come si cammina in sogno o in un campo minato, cercando di non disturbare quell’equilibrio instabile che potrebbe frantumarsi in silenzio, come il vetro sottile della superficie di un lago ghiacciato.

Non è una casa questa. Non lo è più. Non lo è mai stata del tutto. È un teatro, ma senza spettatori, senza attori, senza applausi. Un teatro muto dove il tempo finge di non passare, dove ogni cosa sembra restare immobile e invece muta lentamente, accumulando i secondi come polvere nei gesti, nei margini, nei vetri. C'è una messinscena perfetta e inavvertita, in cui tutto appare eterno e invece è fragile, destinato a svanire.

E poi c’è il vetro. Quel vetro. Non una finestra, non un bicchiere, non una lastra. Ma lo specchio. Lo specchio che mi attende, paziente come le cose che sanno di non dover dimostrare nulla. Lo specchio che è lì ogni notte, ogni volta, appeso alla parete come una ferita addomesticata, una presenza che non pretende, ma che non cede mai. È una superficie liscia, apparentemente muta, piatta, eppure vive, inquieta, infestata. Non riflette soltanto: accade. Lo specchio non è passivo. Lo specchio è un evento.

Mi avvicino come si fa con un oracolo. Come se dovessi ricevere una rivelazione che già conosco, ma che temo di affrontare. Mi avvicino con quella cautela che si ha nei confronti delle risposte che potrebbero cambiare tutto, delle verità che non siamo pronti a sentire. Mi chiedo, ogni volta, cosa cerco davvero quando lo guardo. Cerco la conferma che esisto? La prova che io sia ancora io? O la speranza segreta che non lo sia più, che qualcosa sia cambiato e che possa smettere, finalmente, di essere me?

Lo specchio è la mia prova del nove. Il mio rito. La mia punizione. Ogni volta che mi osservo, mi chiedo se sarò riconosciuto. Ogni volta qualcosa non torna. Non è una discrepanza evidente, ma una sottilissima dissonanza, una crepa impercettibile tra me e il mio riflesso. È come se il volto riflesso vivesse appena un istante dopo di me, come se fosse in ritardo o troppo avanti, come se avesse una sua coscienza che mi insegue ma non mi appartiene. È come se fossi guardato da qualcosa che non coincide con me.

E quella superficie così perfetta non è neutra. Ha memoria. Ha volontà. Non è uno schermo ma un interlocutore. Quando mi ferma, non lo fa per restituirmi un’immagine, ma per iniziare un dialogo muto, criptico, talvolta crudele. È un dialogo senza parole, fatto di sguardi riflessi, di posture riflesse, di espressioni che non so se ho deciso io o se sono state imposte da quel doppio silenzioso. E non c’è giudizio nello specchio. Ma una forma di osservazione assoluta, spietata nella sua oggettività. Nessuna madre guarda così, nessun amante scruta con tanto distacco. Lo specchio è un dio senza volontà. Senza morale. Senza cuore. E proprio per questo mi sconvolge. Mi mostra solo ciò che sono, senza sconti, senza consolazione.

Guardo le mie labbra. Sono gonfie. C’è una ferita, una fessura che conosco bene, che ricordo di aver sentito bruciare. E il riflesso la riproduce, fedelmente. Ma non pulsa. È lì, ma senza carne. È una ferita imbalsamata, congelata, un segno che ha perso il suo dolore. E ogni volta mi stupisce che anche il dolore venga riflesso, ma svuotato, come se l’immagine fosse incapace di soffrire. Tocco il punto esatto. Sento il bruciore sulla mia pelle. Ma nel vetro, un dito si posa con la medesima lentezza su un labbro che non ha sangue, che non ha nervi. È come assistere alla propria agonia recitata da un attore inconsapevole. Troppo distante per capire davvero ciò che interpreta.

E allora mi interrogo: chi recita? Chi imita? Chi comanda? Faccio un’altra prova. Una smorfia. Il riflesso risponde subito, preciso, senza esitazioni. Ma è tutto troppo esatto. Così esatto da farmi dubitare della mia spontaneità. E se non fossi io a generare quel movimento? E se fosse lui a condurre me, a decidere prima di me, a sapere già tutto ciò che sto per fare? Un freddo mi prende. Non un freddo fisico, ma ontologico. Un gelo che viene dal dubbio. Dall’instabilità dell’identità. Dal sospetto che io non sia né l’originale né una copia. Che io sia un frammento. Un’ipotesi. Un tentativo di essere che ha preso forma solo ora, solo stanotte, solo in questo preciso istante in cui il riflesso ha cessato di obbedire.

E poi, come sempre, compare lui. Il terzo. Non si mostra mai, ma si sente. È lo spazio tra me e lo specchio. È l’aria compressa tra il dito e il vetro. È l’assenza che separa ma che rende possibile il contatto. È ciò che impedisce la fusione, ma permette il confronto. È il vero protagonista. Non sono io. Non è lui. È il margine. Il dislivello. L’intercapedine. Forse è lì che vive la coscienza. Non la mia. Non la sua. Ma una terza. Una coscienza che ci osserva entrambi, che ci confronta, che forse ride, forse piange. Una coscienza che non ha volto ma ha volontà.

E se domani lo specchio non rispondesse più? Se passassi e vedessi solo il muro? O, peggio, un altro? Qualcuno che non conosco? O peggio ancora, qualcuno che avrei potuto essere, ma che ho scacciato per sopravvivere? In quel caso, chi sarebbe l’intruso? Io o lui? Lo specchio non parla. Non risponde. Non tace nemmeno. È lì. È. Sta. Resiste. Come un testimone. Come un complice. Come una sentenza.

Anche ora, mentre cerco di allontanarmi, di sfuggire al suo abbraccio visivo, sento che mi trattiene. Che custodisce qualcosa che ho perso. Un nome, forse. Un volto. Un tempo. E mentre torno nel letto, nella carne, nella mia illusione di essere unico, sento dietro di me ancora quel legame. Quello sguardo senza pupille che non penetra, ma aderisce. Che non invade, ma si incolla. Che non abbandona. Mi segue nel buio. È un gemello senza corpo. È la mia ombra rovesciata. E allora penso – o temo – che nel momento esatto in cui chiudo gli occhi e torno nel mio sonno, nella mia presunta realtà, forse è lui a restare. Forse è lui, il riflesso, a essere reale. E io, soltanto un’ombra. L’ombra che svanisce.