Il percorso espositivo si articola in una sequenza tematica che alterna approcci cronologici a nuclei tematici trasversali. Non si tratta, dunque, di un semplice excursus stilistico, ma di una riflessione strutturata attorno al soggetto che si fa oggetto: l’artista che si guarda, si interpreta, si reinventa. Il primo modulo affronta l’autoritratto come affermazione sociale: qui compaiono i pittori in abiti eleganti, talvolta sontuosi, che si presentano come gentiluomini del proprio tempo, all’interno di ambienti borghesi o aristocratici, o circondati da attributi simbolici del loro mestiere — il pennello, la tavolozza, la statua di un modello antico. È il caso, ad esempio, degli autoritratti cinquecenteschi, da Parmigianino a Sofonisba Anguissola, in cui l’immagine dell’artista si associa a un preciso statuto culturale, come a dire che l’artista non è più mero artigiano, ma intellettuale, partecipe della vita delle corti e delle accademie.
Ma accanto a questa rappresentazione “elevata” del sé, il percorso forlivese esplora anche le declinazioni più intime e marginali. Una sezione cruciale è dedicata alla rappresentazione allo specchio, vero topos dell’autoritratto, fin dal celebre esempio di Jan van Eyck e dal “Convito” di Caravaggio, fino ai capolavori ottocenteschi in cui lo specchio diviene non solo mezzo ma metafora dell’introspezione. Lo specchio riflette non solo l’immagine fisica, ma la tensione del soggetto verso un’autocomprensione sempre più profonda e, talvolta, inquietante. In alcuni casi, la superficie riflettente produce un cortocircuito tra realtà e illusione, come nei giochi visivi di Élisabeth Vigée Le Brun o nei lavori di Lorenzo Lotto, dove l’artista si guarda e ci guarda, suggerendo una pluralità di sguardi.
La mostra si sofferma con grande attenzione anche sulla presenza di figure familiari, amici, animali domestici, come elementi che dilatano la sfera del sé in direzione narrativa e affettiva. L’autoritratto, infatti, non è mai un’isola solitaria, ma un dispositivo relazionale. In alcuni casi, l’inserzione di familiari o animali da compagnia costituisce un’espressione di tenerezza, in altri un elemento simbolico. Pensiamo a Artemisia Gentileschi che si autorappresenta come allegoria della Pittura, o a Goya, che si ritrae afflitto, affiancato da volti attoniti e presenze oniriche, o ancora a Frida Kahlo, in cui l’animale totemico — la scimmia, il cervo — si fonde con il corpo dell’artista in una visione animistica e spirituale.
Un altro asse interpretativo è quello dell’autoritratto performativo, in cui il soggetto non si limita a mostrarsi, ma si mette in scena. È il caso dei ritratti in costume: con armature, strumenti musicali, costumi mitologici o teatrali. L’artista, qui, non è più solo autore, ma anche attore della propria autorappresentazione. Questo tema attraversa con particolare forza l’arte moderna, da Gustave Courbet che si rappresenta come “uomo disperato” fino ai camuffamenti fotografici di Claude Cahun o ai travestimenti performativi di Cindy Sherman. La mostra di Forlì intercetta questi slittamenti, e li colloca in un orizzonte storico lungo, che permette di cogliere la continuità di certe tensioni espressive attraverso epoche e stili diversi.
Infine, un capitolo a parte — tra i più intensi — è dedicato all’autoritratto nudo, in cui il corpo dell’artista viene esposto senza mediazioni. Questo gesto, che può apparire narcisistico o esibizionista, rivela invece una profondissima riflessione sul corpo come veicolo di verità, ma anche come terreno vulnerabile. L’iconografia del nudo artistico maschile, in particolare, è qui trattata con rara cura, evitando tanto l’estetizzazione quanto il moralismo. L’autoritratto nudo di Egon Schiele o quello immerso nell’acqua di Félix Vallotton non sono esercizi di stile, ma affermazioni radicali di fragilità, di esistenza. Non diversamente, il corpo imbellettato e sovraesposto nei ritratti queer del Novecento sfida le norme della rappresentabilità e restituisce all’autoritratto una valenza anche politica, identitaria, sovversiva.
In conclusione, la mostra forlivese dimostra come l’autoritratto sia un genere tutt’altro che statico: esso si evolve, muta, si contamina con altri linguaggi, diventa diario, performance, specchio, documento, sogno. Attraverso una selezione ricchissima e interdisciplinare, la curatela restituisce al pubblico non solo la storia dell’autoritratto, ma il suo potenziale ermeneutico: ogni opera è un tassello di quella storia interminabile che è il volto umano che guarda sé stesso. E che, nel farlo, ci interroga ancora.