Nel sistema editoriale contemporaneo, la traduzione letteraria si presenta come un oggetto di attenzione e giudizio spesso ridotto a uno stadio superficiale e parziale: viene infatti valutata quasi esclusivamente in base al risultato testuale finale che arriva nelle mani del lettore, senza che si tenga adeguatamente conto del complesso, stratificato, e spesso poco trasparente processo collaborativo che conduce alla sua pubblicazione. In realtà, dietro ogni libro tradotto si cela un intricato sistema di mediazioni, negoziazioni, interventi incrociati, e passaggi istituzionali che coinvolgono numerosi soggetti con ruoli e responsabilità differenziate, ma questa ricchezza di attori e dinamiche è quasi sempre ignorata o addirittura cancellata dalle narrazioni canoniche che accompagnano la ricezione editoriale e critica.
Questo contributo si propone di rompere con la narrazione dominante e problematizzare la persistente e consolidata tendenza – ormai diffusa e radicata nel discorso editoriale, accademico e critico – di attribuire in via esclusiva e pressoché automatica la responsabilità dell’intero testo tradotto al solo traduttore. Tale meccanismo, come mostrerò, si fonda su una visione antiquata, rigidamente gerarchica e profondamente opaca del lavoro editoriale, che ignora le molteplici sfumature del processo traduttivo e nega la natura collettiva e negoziale che lo caratterizza. Attraverso una riflessione articolata sulle pratiche redazionali, sulle asimmetrie decisionali che regolano la produzione editoriale, e sulla sistematica rimozione o riduzione dell’autorialità traduttiva, questo testo si propone di avanzare una ridefinizione critica, dialettica e innovativa del concetto di “errore” nella traduzione, inteso non più come mancanza o difetto individuale, ma come punto di attrito inevitabile e significativo fra attese culturali, scelte editoriali, vincoli istituzionali e possibilità interpretative.
1. Il paradosso della colpa e il traduttore come capro espiatorio
L’assioma che domina da decenni gran parte della ricezione editoriale, critica e spesso anche accademica delle traduzioni potrebbe essere riassunto in modo schematico e quasi tautologico: una buona traduzione è una traduzione “priva di errori”. Questo principio, all’apparenza semplice e pacifico, è in realtà l’espressione di una concezione profondamente essenzialista e positivista del testo tradotto. In tale orizzonte interpretativo, la traduzione è considerata come un prodotto stabile, atomistico, la cui qualità si valuta esclusivamente attraverso criteri di fedeltà semantica e correttezza formale. Questi criteri vengono presentati come assoluti, misurabili, oggettivi, e dunque suscettibili di una valutazione netta, definitiva, e incontrovertibile.
Questa concezione produce due effetti rilevanti. Da un lato, tende a oscurare e a negare la natura eminentemente interpretativa, plurale, dinamica e dialogica del processo traduttivo, che come ha efficacemente sottolineato il filosofo Paul Ricoeur, è sempre un atto di “ospitalità linguistica”. Tradurre significa aprire uno spazio di incontro e negoziazione fra mondi linguistici, culturali e simbolici differenti, comportando dunque una continua mediazione e un compromesso creativo e vivo fra alterità e riconoscimento reciproco. Dall’altro lato, l’idea di traduzione “senza errori” alimenta un meccanismo di esclusione e punizione, dove il traduttore viene chiamato a rispondere in maniera lineare e esclusiva di tutte le imperfezioni, incoerenze o difficoltà del testo finale.
Ma ciò che più si vuole mettere in luce, e che raramente viene esplicitato nel dibattito pubblico o critico, è il fatto che la responsabilità autoriale della traduzione viene imputata interamente e unilateralmente al traduttore, anche nei casi in cui il testo definitivo che appare in stampa è il risultato di molteplici e articolati interventi terzi, spesso anonimi, che non solo non sono sempre concordati con il traduttore, ma possono anche contraddire o modificare in modo sostanziale le sue scelte originali. La struttura editoriale contemporanea, infatti, prevede un complesso sistema di mediazioni che coinvolge diverse figure professionali: editor di traduzione, redattori, revisori, correttori di bozze, consulenti linguistici e culturali, e talvolta persino team di marketing o uffici legali, ciascuno dei quali può intervenire – a volte in maniera determinante e decisiva – sulla forma linguistica, sullo stile, sull’ideologia e sulla resa comunicativa del testo.
Eppure, quando un “errore” viene individuato, rilevato o segnalato, è invariabilmente il traduttore a essere chiamato in causa come colpevole unico, soggetto a un meccanismo di attribuzione della colpa che ignora e cancella, come in un atto di necromanzia editoriale, la natura composita, collettiva e stratificata del prodotto finale. Si instaura così un perverso paradosso della colpa, in cui il traduttore diventa un capro espiatorio funzionale a conservare una narrazione semplice e rassicurante, ma profondamente distorta, della traduzione come atto isolato e individuale.
2. Traduzione come testo a responsabilità condivisa
Questo meccanismo di scarico unilaterale della responsabilità non è soltanto moralmente iniquo, ingiusto e disumano: esso è, ancor prima, teoricamente insostenibile e scientificamente infondato. Come ha evidenziato con lucidità e coraggio intellettuale Lawrence Venuti, la traduzione è un “atto culturale situato”, ovvero il prodotto di scelte strategiche, di condizioni materiali e concrete, di vincoli istituzionali e di dinamiche di mercato che ne determinano inevitabilmente la forma finale, la struttura e la ricezione da parte del pubblico. La traduzione, quindi, è sempre inscritta in un contesto storico-sociale e culturale specifico che influenza profondamente il modo in cui viene prodotta, mediata e interpretata.
Il concetto di invisibility del traduttore, spesso evocato e discusso proprio per denunciare la marginalizzazione simbolica e culturale di questa figura professionale, si estende in realtà anche alla sfera delle responsabilità. Il traduttore è invisibile quando il testo tradotto è accolto favorevolmente, quando il suo lavoro passa inosservato come un’operazione “trasparente”, “perfetta” o “senza soluzione di continuità”. Tuttavia, egli diventa invece ipervisibile, sovraesposto e colpevole unico nel caso in cui la ricezione sia negativa, critica, o addirittura punitiva.
La totale mancanza di trasparenza e di visibilità dei processi redazionali – che spesso restano protetti da rigide logiche di riservatezza, gerarchia e segretezza – alimenta così una logica di colpevolizzazione, che si traduce in una vera e propria distorsione percettiva e cognitiva. Si presume infatti, con eccessiva superficialità, che il testo tradotto corrisponda integralmente e fedelmente alla volontà e alle scelte esclusivamente del traduttore, quando invece esso è sovente il frutto di una serie complessa e articolata di negoziazioni, compromessi, tagli, inserimenti, sostituzioni e talvolta vere e proprie interferenze e imposizioni di natura editoriale, istituzionale o commerciale.
In questa prospettiva, la mancata trasparenza, l’assenza o scarsità quasi totale di firme e note redazionali che rendano espliciti gli interventi e le modifiche apportate – e spesso persino l’impossibilità materiale o legale di accedere a queste informazioni – producono un effetto di vero e proprio anacronismo epistemologico. Si continua infatti a giudicare la traduzione come un’opera di pura creatività individuale e isolata, di proprietà esclusiva di un unico agente, quando invece, nell’ambito del sistema editoriale contemporaneo, l’autorialità è ormai da tempo dispersa e diffusa lungo un’intera filiera di attori, ciascuno con ruoli, poteri e responsabilità diversi, ma tutti determinanti nel plasmare il prodotto finale.
3. Revisione, interferenza e controllo istituzionale
Numerosi traduttori professionisti, sia nel mondo anglosassone che in altri contesti linguistici, potrebbero fornire esempi concreti – spesso drammatici, a volte paradossali – che documentano in modo inequivocabile come si articoli e si manifesti nella pratica quotidiana questo processo. Testi tradotti modificati, alterati o ritoccati in modo arbitrario e non sempre giustificabile da redattori o revisori che non sono necessariamente formati o esperti nella lingua di partenza; interventi stilistici effettuati sulla base di criteri vaghi, soggettivi e spesso ideologici come “suona meglio”, “è più fluido”, “è più vendibile”; fino a vere e proprie riscritture parziali o totali operate per rispondere a esigenze di mercato, a strategie di posizionamento commerciale, o a una presunta “leggibilità” destinata a un pubblico target ipotetico e stereotipato, in questo caso quello italiano.
In questi casi, la funzione originaria della revisione editoriale – che dovrebbe essere quella di garantire la qualità, la correttezza, la coerenza e la fruibilità del testo – viene progressivamente erosa e travisata, fino a trasformarsi in un dispositivo di controllo ideologico, normativo e culturale. Si instaura così una forma pervasiva e pericolosa di “editing normativo” che impone al testo tradotto uno standard stilistico rigido, preconfezionato e omologante, con la conseguenza di annullare o comprimere drasticamente la libertà, la creatività e l’originalità del traduttore, e insieme di ridurre a una mera superficie omogenea l’alterità culturale, linguistica e simbolica del testo di partenza.
Il risultato finale è la produzione di una sorta di “neolingua editoriale”, per parafrasare in modo esplicito e consapevole la celebre definizione di George Orwell, in cui la ricchezza del plurilinguismo culturale e la molteplicità delle differenze linguistiche vengono sistematicamente cancellate e sostituite da un monolinguismo funzionale, piatto, omologato e adattato a un lettore modello immaginario e artificiale. Questo lettore ideale, tuttavia, non è che una proiezione idealizzata, astratta e spesso paternalistica delle aspettative di mercato, delle strategie di vendita e delle logiche editoriali, più che una realtà concreta e complessa fatta di lettori reali, con gusti e sensibilità molteplici e differenziate.
Le conseguenze di questa omologazione sono rilevanti e di vasta portata: si produce infatti un livellamento ideologico, estetico e stilistico della letteratura tradotta, con un danno sistematico, irreparabile e in alcuni casi irreversibile alla diversità linguistica, alla vitalità stilistica e alla ricchezza culturale che la traduzione dovrebbe invece tutelare, promuovere e diffondere come uno dei suoi valori fondanti.
4. L'invisibilità contrattuale e l’illusione dell’autorialità
Sul piano contrattuale e giuridico, la posizione del traduttore resta troppo spesso marginale, subordinata e svantaggiata. Egli è costretto a cedere tutti i diritti sul testo tradotto, frequentemente senza che vi siano garanzie formali o contrattuali che gli permettano di visionare, controllare o approvare le bozze finali prima della pubblicazione, e con tempi di consegna e revisione molto ristretti e incompatibili con un controllo accurato, approfondito e sereno del prodotto. La possibilità reale e concreta di opporsi a modifiche editoriali, revisioni o riscritture è, nella maggior parte dei casi, minima o addirittura inesistente.
L’asimmetria di potere tra traduttore e casa editrice, editor, o committente è spesso così sbilanciata da rendere del tutto illusorio ogni discorso su una responsabilità piena, reale, autonoma e autentica del traduttore. Si configura, piuttosto, una forma di “responsabilità fantasma”: il traduttore è chiamato a rispondere, anche pubblicamente, di un testo che non sempre gli appartiene più, che può essere stato modificato, ritoccato o riscritto da altri soggetti, e su cui non ha esercitato alcun controllo effettivo.
Questa condizione richiama alla mente e si avvicina in modo inquietante alla figura del ghostwriter, ma con una differenza radicale e paradossale: mentre il ghostwriter opera nell’ombra e rimane anonimo, spesso senza alcuna visibilità, il traduttore compare invece con il proprio nome in copertina, e dunque si espone pubblicamente alla critica, al giudizio, e perfino alla condanna, senza però disporre degli strumenti, delle tutele, delle garanzie e delle possibilità necessarie per difendere le proprie scelte testuali o per rivendicare la paternità reale del lavoro svolto. In altre parole, la responsabilità è nominale, esposta, visibile, ma l’autorialità, la capacità di controllo e la libertà creativa sono soltanto un’illusione, un velo fragile e spesso ingannevole che nasconde la complessità e la stratificazione del processo.
Di conseguenza, la colpa è concreta, pesante, e ricade interamente sul traduttore, che si trova così ingiustamente esposto e vulnerabile a critiche spesso ingiuste, a giudizi superficiali, e a meccanismi di colpevolizzazione che non hanno alcun fondamento reale.
5. Ripensare l’etica della traduzione editoriale
Alla luce di tutto quanto è stato esposto, appare urgente, necessario e auspicabile una radicale e profonda ridefinizione delle pratiche editoriali relative alla traduzione, orientata verso una maggiore trasparenza, una responsabilità condivisa tra tutti gli attori coinvolti nel processo di produzione, e una valorizzazione autentica e riconosciuta dell’autorialità traduttiva. Tra le proposte concrete e realistiche che potrebbero rappresentare un punto di svolta in questa direzione si possono citare:
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L’introduzione esplicita e obbligatoria di crediti redazionali anche per gli editor, i revisori e gli altri operatori che intervengano in modo sostanziale e determinante sulla forma linguistica, stilistica e contenutistica del testo tradotto, affinché la paternità e la responsabilità possano essere effettivamente distribuite e riconosciute;
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La possibilità, per il traduttore, di pubblicare note di commento, prefazioni o motivazioni relative alle proprie scelte terminologiche, stilistiche e interpretative, sul modello consolidato delle “Translator’s Prefaces” anglosassoni, che rappresentano da sempre un’importante occasione di dialogo e confronto con il lettore, ma anche di trasparenza intellettuale e culturale;
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L’adozione di contratti editoriali che garantiscano al traduttore un diritto di veto motivato sulle modifiche strutturali non condivise, impedendo così che la sua opera venga trasformata arbitrariamente e senza consenso in fase di editing, e tutelando così la sua libertà creativa e la paternità intellettuale;
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La promozione e la diffusione di una cultura editoriale e di una prassi professionale che riconosca il traduttore come un vero e proprio co-autore del testo tradotto, e non come un mero “fornitore” linguistico, un artigiano anonimo o una figura subalterna.
In questa prospettiva, diventa dunque indispensabile e urgente spostare radicalmente l’asse della riflessione critica, teorica e culturale sulla traduzione: non più un giudizio rigido, lineare e definitivo basato esclusivamente sul prodotto finito, ma un’indagine sensibile, plurale, aperta e approfondita sul processo relazionale, dialogico, collettivo e istituzionale che ha portato a quel testo. Il concetto stesso di “errore” nella traduzione va ripensato e reinterpretato come un punto di attrito dinamico e complesso fra attese culturali molteplici, scelte editoriali differenziate, vincoli istituzionali, possibilità interpretative e creative, e tensioni politiche ed estetiche.
Solo a partire da questa ridefinizione sarà possibile restituire piena dignità teorica, professionale, culturale ed etica a chi svolge ogni giorno un lavoro tanto invisibile quanto imprescindibile e fondamentale, a chi si confronta quotidianamente con le sfide, le ambiguità, le contraddizioni e le potenzialità infinite del tradurre, e che rappresenta una delle figure chiave nella costruzione di ponti culturali e di dialogo fra lingue, mondi e culture.