Essere lgbtq+ hiv+ nel 2025 significa anche fare esperienza del corpo come campo di battaglia, ma anche come luogo di rivelazione. Non un corpo ferito, ma un corpo riscritto. Un corpo che ha conosciuto lo stigma, ma che lo ha attraversato senza lasciarsi ridurre a esso. Un corpo che continua a generare desiderio, piacere, cura, e che a volte sorprende proprio per la forza con cui rinasce dalle narrazioni che volevano renderlo docile, colpevole, invisibile.
Il corpo, nella sua più concreta e carnale presenza, è oggi attraversato da tensioni, ma anche da saperi. Non è solo oggetto di diagnosi, ma soggetto di scelta, di agency, di trasformazione. È corpo queer, corpo desiderante, corpo che rompe le categorie binarie e le ricompone in forme nuove. La sieropositività, in questo contesto, diventa una soglia: da una parte, l’ombra del pregiudizio e della patologizzazione; dall’altra, l’opportunità di ridefinirsi attraverso la cura e la relazione.
La relazione con l’altro — che sia amore, amicizia, sesso, compagnia — cambia profondamente quando si vive con l’HIV. Cambia non in senso negativo, ma in senso radicale. Nulla è più dato per scontato. Ogni incontro richiede una verità in più, una parola in più, una sospensione del giudizio. Chi si dichiara sieropositivə apre uno spazio di fiducia: offre all’altrə non solo un’informazione medica, ma un frammento della propria storia, una ferita, una forza. E in quel gesto, spesso, si misura la qualità della relazione. C’è chi fugge. C’è chi ascolta. C’è chi si sente inadeguato. C’è chi si innamora proprio di quella trasparenza, come fosse una forma di grazia.
C’è qualcosa di profondamente poetico nella possibilità di disvelarsi. Non come confessione, ma come dichiarazione di esistenza. Dire "sono sieropositivə" nel 2025 non è più, per tuttə, una sentenza. È, in molti casi, un inizio. Un modo per affermare la propria presenza, la propria voce, la propria storia. È un atto politico, ma anche un atto intimo. Un gesto che dice: "ti lascio entrare, ma sappi dove stai entrando". E proprio per questo, chi resta, chi accoglie, chi ascolta, entra in uno spazio nuovo di reciprocità.
Perché oggi, nel 2025, è anche tempo di riabilitare l’idea di intimità. Non quella idealizzata, igienizzata, ma quella reale: fatta di imperfezioni, di corpi che si raccontano, di limiti che diventano confini da abitare insieme. Le nuove generazioni queer stanno riscrivendo i codici dell’affettività, mescolando le categorie, inventando nuove grammatica relazionale. In questo orizzonte, l’HIV non è più l’interruzione del desiderio, ma una delle sue pieghe. Una verità in più che chiede di essere compresa, non giudicata.
C’è qualcosa di rivoluzionario nel dire: "nonostante tutto, desidero ancora". Desidero vivere, desidero amare, desidero toccare e lasciarmi toccare. L’HIV non ha cancellato il desiderio. Lo ha complicato, certo, ma anche arricchito. Ha aperto domande, ha messo in crisi le certezze, ha costretto a immaginare nuove forme di intimità, nuove modalità di protezione reciproca, nuovi linguaggi del corpo. E in questo riscrivere continuo, molti trovano una forma nuova di autenticità.
Eppure, questa possibilità non è uguale per tuttə. Essere hiv+ significa anche trovarsi espostə a una rete di ingiustizie strutturali che non si cancellano con un farmaco. Le persone trans — soprattutto le donne trans nere, migranti, precarizzate — vivono una doppia marginalità. In molti casi, l’accesso alle cure è ostacolato da ostilità mediche, transfobia, esclusione economica. E lo stesso vale per i sex workers, i rifugiati, le persone detenute.
Le barriere non sono solo materiali, ma simboliche. L’idea stessa di chi "merita" di essere curato è ancora filtrata da pregiudizi. Chi è ritenuto "promiscuo", chi non rientra nei canoni della rispettabilità borghese, spesso viene trattato con sospetto o addirittura colpevolizzato. Questo rende ogni gesto di cura un atto di resistenza. Ogni pastiglia presa, ogni visita medica fatta, ogni test condiviso diventa una dichiarazione controcorrente, un gesto che dice: "io valgo, io merito salute, io esisto".
La realtà è che la narrazione mainstream sull’HIV, quella rassicurante, quella "positiva", vale soprattutto per chi ha i mezzi per accedere ai circuiti di cura — e spesso lascia fuori chi vive ai margini. Per questo, chi è lgbtq+ hiv+ nel 2025 è spesso anche un soggetto politico. Non perché lo abbia scelto, ma perché è costrettə a esserlo. A difendere la propria esistenza da chi vorrebbe ancora legarla alla colpa, al peccato, alla devianza.
Essere visibili, parlare, raccontare, diventare testimoni: tutto questo ha un costo. Ma ha anche un valore enorme. Perché ogni testimonianza rompe il silenzio. Ogni parola condivisa diventa un’arma contro lo stigma. Ogni gesto di visibilità diventa un invito alla trasformazione collettiva. E questa trasformazione non è solo medica, ma anche culturale, sociale, emotiva.
La battaglia più urgente è quella per l’uguaglianza nell’accesso alla prevenzione e alle terapie. La PrEP (profilassi pre-esposizione) ha cambiato il volto della prevenzione, ma resta inaccessibile in molti Paesi o riservata a pochi gruppi privilegiati. La criminalizzazione dell’HIV è ancora realtà in decine di Paesi: ci sono persone incarcerate solo per non aver rivelato il proprio stato sierologico, anche se non hanno trasmesso il virus.
Questo avviene oggi, nel 2025. Sotto la superficie liscia delle campagne pubblicitarie, sotto il mantra della "fine dell’AIDS", sotto la patina medica di una patologia che sembrava scomparsa. E invece no. C’è. Vive. E parla. Parla nei corpi che ogni giorno assumono la terapia, parlano nelle mani che si stringono al buio, parlano nei gruppi di supporto che si riuniscono online, nei centri lgbtq+ che organizzano incontri, nei racconti che ancora oggi fanno tremare la voce.
Una parte di chi vive con l’HIV nel 2025 non aveva mai conosciuto la paura. Era cresciutə con l’idea che fosse "una cosa del passato". Per loro, la diagnosi è stata un cortocircuito improvviso, una ferita nel tessuto della fiducia. Per altri, più adulti, la diagnosi ha invece riaperto una ferita antica: quella lasciata dai corpi amici scomparsi, dagli amori spezzati troppo presto. Per loro, convivere con il virus è anche convivere con il ricordo.
Ma in entrambi i casi, la diagnosi porta con sé una riflessione sul tempo: su come lo si vive, su cosa si fa con ciò che resta, su come si trasforma la propria presenza nel mondo. Per alcune persone, questa riflessione apre a una nuova spiritualità, a una nuova etica della responsabilità, a un nuovo modo di sentire l’esistenza. È una sorta di rivelazione: non più "sono malatə", ma "sono attraversatə da una verità".
Molte persone lgbtq+ hiv+ oggi parlano della diagnosi come di un momento di chiarimento. Qualcosa che spoglia, che obbliga a guardarsi con maggiore lucidità, e che — sorprendentemente — può anche aprire a una nuova pienezza. Non è una narrazione trionfale, non è “positività tossica”. È consapevolezza. È dire: sono vulnerabile, eppure sono interə. Nonostante tutto. Grazie a tutto.
Perché c’è anche gioia. C’è la gioia di chi ha incontrato una persona che ha detto “non importa”. La gioia di chi ha fondato una rete di aiuto per chi si è appena scoperto sieropositivə. La gioia di chi balla, ride, fa l’amore, parla, scrive, senza doversi più giustificare. La gioia politica di chi, invece di nascondersi, ha deciso di testimoniare.
Essere lgbtq+ hiv+ nel 2025 significa vivere una soglia permanente tra ciò che si è e ciò che si teme ancora di essere. Ma significa anche aver imparato a danzare su quella soglia. A non averne più paura. A farne, anzi, il proprio palcoscenico. E dal fondo della scena, dire al mondo: guarda, io esisto — e questo è solo l’inizio.