1. L’esilio del concetto e la crisi dell’identità disciplinare
Nel panorama filosofico contemporaneo, la riflessione di Carlo Sini si impone come uno dei tentativi più radicali di decostruzione del concetto stesso di “filosofia”. In Filosofia e memoria. La vita come scrittura, pubblicato da Il Saggiatore, Sini avanza una tesi apparentemente paradossale: la filosofia non esiste. Un’affermazione che non va letta come liquidazione iconoclasta, bensì come sintomo di una mutazione epistemologica profonda. Con ciò, egli intende sottolineare la necessità di superare la metafisica della filosofia come disciplina fondata su criteri di stabilità, universalità e autosufficienza razionale.
Nel quadro epistemologico contemporaneo, tale postura si inserisce nella tradizione post-heideggeriana e post-strutturalista, che ha infranto la compattezza dei saperi umanistici riconfigurandoli come pratiche discorsive situate. La filosofia, dunque, lungi dall’essere una scienza prima o una guida per le altre discipline, viene riconfigurata da Sini come ars memorandi, esercizio individuale e plurale, storico e simbolico, irriducibile a una grammatica comune.
2. Genealogia del sapere e performatività della scrittura
Nel pensiero di Sini, il concetto stesso di sapere è inscritto in una dimensione semiotico-pragmatica: non esiste un sapere neutro o assoluto, ma soltanto processi di significazione che attraversano corpi, simboli, linguaggi, miti. La scrittura, in questo senso, non è semplice trascrizione di un contenuto preesistente, ma gesto performativo che crea e trasforma il soggetto stesso del sapere.
È in questa ottica che la memoria viene assunta non come archivio o custodia del passato, bensì come campo di forze in cui il soggetto viene plasmato e ripensato. Ricordare, scrivere, filosofare: sono tutte forme di esposizione dell’io al proprio “fuori”, esperienze in cui il soggetto non domina il contenuto ma ne viene modificato. Da Vico a Peirce, da Nietzsche a Derrida, Sini rielabora l’intera tradizione filosofica occidentale sottolineandone l’inconsistenza fondazionale e promuovendo un pensiero incarnato, instabile, plurale.
3. Contro l’ontologia del dominio: il sapere come esercizio e come perdita
Uno degli assi portanti del pensiero siniàno risiede nella critica dell’ontologia del dominio implicita nella tradizione scientifico-filosofica moderna. L’episteme moderna, secondo Sini, si è fondata sull’assunzione di un soggetto conoscente autosufficiente, capace di cogliere, dominare e rappresentare oggettivamente il mondo. Questo modello, di matrice cartesiana e poi kantiana, ha prodotto l’illusione di una conoscenza universale, astratta e atemporale.
Contro tale paradigma, Sini propone una ontologia dell’eccedenza: ogni sapere è ecceduto dal vissuto, ogni concetto è scosso da un residuo irriducibile, ogni definizione si mostra come un atto simbolico che cela tanto quanto rivela. In questa prospettiva, la conoscenza non è mai completa, bensì eccentrica, sempre dislocata rispetto al proprio oggetto.
Da qui la centralità attribuita da Sini al mito, al rito, al gesto simbolico. Tali dimensioni non sono pre-filosofiche o inferiori alla razionalità, ma espressioni originarie di un sapere corporeo e comunitario che resiste alla riduzione concettuale. Il filosofo, allora, non è il detentore di una verità astratta, ma il soggetto che accoglie la propria finitezza e ne fa spazio di pensiero.
4. Epistemologia mitica e statuto della favola
In netta contrapposizione con il paradigma logico-deduttivo della scienza, Sini rivaluta la funzione conoscitiva della favola e del mito. Queste forme narrative, spesso relegate a un ruolo ancillare nella storia del pensiero occidentale, vengono invece riscoperte come strumenti epistemici di pari dignità, anzi più fedeli all’esperienza umana nella sua irriducibilità al concetto.
Il mito non spiega, ma mostra. Non articola un sapere, ma lo evoca. È un sapere per immersione, non per enunciazione. È qui che Sini si avvicina a un pensiero orfico, in cui la verità è intesa come ciò che si dà solo a chi sa ascoltare senza pretendere di comprendere. La favola, lungi dall’essere una forma pre-logica, diviene così una strategia simbolica per restituire il mistero dell’essere nella sua nudità e nella sua vertigine.
5. Filosofia come pratica individuale: il singolare contro il sistema
Un altro nodo teorico centrale in Sini è la destituzione del sistema filosofico in favore di una pratica singolare e autobiografica del pensiero. Scrivere filosofia, per Sini, è un atto di responsabilità soggettiva, una decisione esistenziale, non la costruzione di un edificio teorico valido per tutti. In questo senso, l’intero percorso di Sini si oppone tanto al modello scolastico della filosofia quanto alla sua istituzionalizzazione accademica.
Sini non propone né una nuova “scuola”, né un nuovo paradigma. Proclama invece l’urgenza di tornare a un sapere incarnato, situato, attraversato da affetti, memorie, fallimenti. In questo senso, la filosofia è ascesi, esercizio spirituale e corporeo, simile alle pratiche della sapienza antica: la filosofia come “stile di vita”, secondo la lezione di Pierre Hadot.
6. La crisi del testimone e la dissoluzione del presente
In uno dei passaggi più intensi del volume, Sini si interroga sulla possibilità stessa di testimoniare il passato: chi può dire, oggi, di sapere cosa accadeva nel corpo di una Baccante? Chi può, senza proiettare le proprie categorie, comprendere la coscienza di un rapsodo? Questa crisi del testimone è emblematica della condizione postmoderna: non possiamo più collocarci fuori dal testo, fuori dalla rappresentazione, fuori dalla memoria.
Ogni nostro sapere è una costruzione, una proiezione, un tentativo di raccontare ciò che ci eccede. In tal senso, anche il presente è sempre già un'interpretazione. La filosofia di Sini rifiuta ogni illusione di neutralità e si radica in una fenomenologia della finzione: pensare significa narrare, costruire mondi simbolici, tessere memorie condivise.
7. Oltre la metafisica: verso una semiotica della vita
Il progetto di Sini si può definire come un tentativo di semiotizzare radicalmente la filosofia, liberandola dall’ossessione della verità intesa come corrispondenza. Ogni sapere è segno, e ogni segno è effetto di un corpo, di una cultura, di una temporalità. Pensare significa allora abitare la rete dei segni, orientarsi senza fondamento, accettare l’impossibilità del punto archimedeo.
Questa postura si colloca nel solco della semiotica pragmatista di Peirce, ma anche nella linea decostruttiva di Derrida, per cui ogni scrittura è sempre già differita. Eppure, Sini vi aggiunge una nota personale, quasi lirica: la scrittura non è solo teoria, ma gesto, carne, memoria incarnata.
8. Filosofia come etica del limite
In definitiva, l’opera di Carlo Sini non è un sistema, ma un esercizio: un’etica del limite, un’ermeneutica della finitezza. Egli ci ricorda che non pensiamo mai da un luogo neutro, che ogni concetto è una maschera, che ogni verità è situata. In un tempo in cui il sapere tende a farsi algoritmo e l’identità a farsi merce, il suo invito è a riscoprire la filosofia come gesto radicale di attenzione, memoria e responsabilità.
Non per costruire nuovi templi, ma per restare umani nel rumore dei linguaggi che si moltiplicano. Là dove la filosofia “non esiste”, ci ricorda Sini, inizia finalmente a parlarsi il pensiero.
9. La filosofia come epokhḗ occidentale: Sini, Cacciari e il pensiero tragico
L’invocazione di Sini a una filosofia della memoria e della perdita trova un’evidente affinità con la riflessione di Massimo Cacciari, specialmente in testi come Dell’inizio e Icone della legge. In entrambi i filosofi, assistiamo a una sospensione dell’ontologia classica e a un ritorno dell’origine non come fondamento stabile, bensì come abisso, come scena tragica in cui logos e mito si confondono.
Cacciari, nel recuperare la dimensione aporetica della metafisica, si avvicina al Sini che rifiuta la concettualizzazione assoluta del sapere, affermando che la filosofia è “memoria incarnata” piuttosto che teoresi astratta. Entrambi convergono in una figura del pensiero che non domina, ma esita, che non cerca di chiudere il cerchio ma lo tiene aperto nell’esperienza dell’oscuro.
10. Pensiero debole e dissoluzione del fondamento: da Vattimo a Sini
Più direttamente contigua al progetto siniàno è la filosofia del “pensiero debole” elaborata da Gianni Vattimo, specie a partire da Il pensiero debole (1983) e Credere di credere. Vattimo, partendo da Nietzsche e Heidegger, decostruisce la nozione di verità come adeguazione e assume la verità come evento ermeneutico. Il sapere non è più rivelazione ma interpretazione, non fondazione ma storicizzazione.
Sini, pur muovendosi con strumenti semiotici e un’attenzione più radicale alla dimensione pragmatica e performativa del segno, condivide questo indebolimento dell’ontologia e la sua traduzione in pratiche situate. Dove Vattimo parla di “secolarizzazione del logos”, Sini parla di “scrittura della vita”, ma entrambi colgono l’impossibilità di una verità originaria accessibile all’intelletto puro.
11. L’eccedenza dell’umano in Agamben e Sini
Il punto d’intersezione più profondo fra Giorgio Agamben e Carlo Sini si trova nella riflessione sull’antropogenesi e sulla lingua come evento originario. Se in Infanzia e storia e Il linguaggio e la morte Agamben sostiene che l’uomo non nasce in quanto tale, ma si costituisce nell’evento della parola, Sini porta questa idea oltre, mostrando che ogni forma di soggettività è già segnica, già performata da una rete semiotica che lo precede.
Entrambi, dunque, denunciano la fallacia dell’identità naturale dell’umano, e propongono al suo posto una visione antropogenetica e non ontogenetica dell’essere umano. La figura del rapsodo, o della Baccante, in Sini, trova un parallelo nella figura agambeniana dell’homo sacer: colui che abita un confine, un’interruzione del diritto, dell’identità e della parola.
12. Sini e il pensiero francese: mito, scrittura e decostruzione
Il legame con Jacques Derrida è centrale, anche se Sini non aderisce mai del tutto al modello decostruzionista. Entrambi, tuttavia, condividono la convinzione che la scrittura preceda il pensiero, che ogni fondamento sia già un segno, che la metafisica dell’origine sia un effetto retorico. Quando Sini insiste sulla “favola” come oltre-verità, recupera proprio quell’“altra scena” del senso a cui Derrida aveva dato il nome di différance.
La distinzione tra segno e significato, la sospensione della presenza, la critica al logocentrismo trovano in Sini un’elaborazione originale in chiave fenomenologica e semiotica, grazie anche alla sua frequentazione del pensiero di Peirce. Come Derrida, anche Sini rifiuta la rappresentazione come trasparenza e vi oppone la scrittura come traccia, come residuo, come forza che ci attraversa.
Inoltre, Sini condivide con Michel Foucault l’idea che ogni sapere sia anche una pratica di potere, una tecnica del sé. Se Foucault ha parlato di tecnologie dell’io, Sini ne sviluppa una genealogia attraverso il gesto, il simbolo, la scrittura: non siamo soggetti che scrivono, ma scritture che ci fanno soggetti.
13. La via pragmatista e il pensiero nordamericano
Sini si distingue nel panorama filosofico europeo anche per il suo dialogo profondo con la semiotica pragmatista americana, in particolare con Charles Sanders Peirce. In Peirce, il segno non è solo mediazione, ma evento in cui si dà la realtà stessa. Questa visione del segno come ontogenesi del mondo è ciò che consente a Sini di pensare la filosofia non come commento, ma come azione performativa: non rappresentazione del reale, ma sua reinvenzione simbolica.
In questo, Sini anticipa in parte la posizione di Richard Rorty, il quale ha negato ogni fondamento epistemico alla filosofia, proponendo invece una visione “conversazionale” del sapere, fondata sul linguaggio e sulla comunità interpretante. Ma a differenza di Rorty, Sini non cade mai in un pragmatismo banalmente relativista: la sua è una pragmatica delle soglie, dei corpi, delle storie non dette.
Con William James, infine, Sini condivide la radicale messa in discussione della coscienza come centro stabile dell’esperienza: ogni atto di pensiero è già passaggio, è già attraversamento, è già scrittura della vita. In questo senso, Sini propone una fenomenologia delle pratiche, piuttosto che delle intenzionalità: è il gesto che precede il pensiero, non viceversa.
14. Conclusione aperta: per una filosofia come arte vivente
Alla luce di questo ampio confronto, è possibile riconoscere in Carlo Sini una delle figure più importanti e al tempo stesso più anomale della filosofia europea contemporanea. Ancorato alla tradizione, ma radicalmente innovativo nel suo metodo, Sini ci invita a ripensare la filosofia come arte vivente, come scrittura incarnata, come esercizio simbolico che non cerca il vero, ma lo fa emergere nel gesto.
Il suo pensiero non solo dialoga, ma sfida tanto la filosofia italiana quanto quella internazionale: la sua filosofia che non esiste è un punto di arrivo e un punto di inizio, una soglia da cui guardare, finalmente, ciò che si trova al di là della metafisica.