lunedì 30 giugno 2025

L’arte è morta? No, si è fatta algoritmo

Nel momento in cui una nuova tecnologia si affaccia sul panorama della produzione artistica, la storia registra una reazione che si ripete con una regolarità quasi rituale: il sentimento di allarme, la percezione di un confine violato, la dichiarazione di una fine — quella dell’arte, dell’artista, dell’autenticità. L’arrivo del dagherrotipo nella prima metà dell’Ottocento ne è un esempio emblematico: la possibilità di catturare la realtà visiva attraverso un processo meccanico fu percepita da molti come un attacco frontale alla pittura, e in particolare alla sua funzione mimetica. Per alcuni teorici e artisti dell’epoca, la fotografia minacciava di svuotare l’arte della sua funzione più nobile, quella di essere specchio del mondo, e al tempo stesso di indicare una via interpretativa, una rielaborazione individuale. Ma, come dimostra l’evoluzione della storia dell’arte stessa, quella che appariva come una cesura irrimediabile si è rivelata, invece, un punto di svolta: la pittura si è liberata dalla necessità di rappresentare fedelmente il visibile e ha potuto esplorare nuove dimensioni — simboliche, concettuali, astratte.

Ogni transizione tecnica viene dunque accompagnata da un lutto simbolico, da una tensione tra ciò che viene percepito come umano e ciò che, al contrario, sembra disumanizzare. Eppure, se osserviamo con attenzione le dinamiche profonde di queste crisi, ci accorgiamo che esse non riguardano tanto la tecnica in sé, quanto piuttosto la ridefinizione dei parametri attraverso cui attribuiamo valore estetico. Più precisamente, esse mettono in questione l’idea di aura, quel concetto problematico e affascinante che Walter Benjamin, nel suo celebre saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, aveva definito come “l’apparizione unica di una lontananza, per quanto essa possa essere vicina”. Benjamin sosteneva che la possibilità di riprodurre tecnicamente un’opera d’arte — e quindi di sottrarla al qui e ora della fruizione originale — ne minasse l’aura, cioè la sua irripetibilità, la sua singolarità irriducibile. Tuttavia, già all’interno dello stesso saggio, si può leggere un’ambivalenza che non condanna la tecnica in assoluto, ma apre alla possibilità che essa inauguri nuove modalità di relazione estetica, nuove forme di esperienza.

Se trasponiamo questo quadro interpretativo ai nostri giorni, ci troviamo di fronte a una nuova soglia critica: quella delle intelligenze artificiali generative, dei modelli linguistici, delle reti neurali che creano testi, immagini, suoni. Anche in questo caso, la reazione iniziale è spesso allarmata, se non apertamente ostile. Si teme che la creatività venga automatizzata, che la funzione autoriale si dissolva in un algoritmo, che l’arte venga ridotta a simulacro. Ma questa visione presuppone un’idea di creatività come monopolio esclusivo dell’intenzionalità umana, un’idea che, per quanto radicata, merita di essere problematizzata. La creatività, infatti, non è un attributo fisso, ma una relazione: emerge nel dialogo, nella collisione, nell’ibridazione tra linguaggi, soggettività, media. Non è un’essenza, ma un processo. In questa prospettiva, anche il “testo” generato da un’intelligenza artificiale può divenire opera, se produce senso, se genera emozione, se stimola riflessione o disorientamento.

L’aura, dunque, non scompare con la tecnica, ma si ridefinisce attraverso di essa. Non è più soltanto l’alone che circonda l’oggetto d’arte nella sua unicità fisica — come un’icona, una reliquia o una tela esposta in un museo — bensì l’effetto di una relazione tra fruitore e opera, tra contesto e percezione. Nel mondo digitale, l’aura può consistere nella singolarità di un’esperienza interattiva, nell’unicità irripetibile di una conversazione generativa, nella sospensione temporale di un flusso audiovisivo. Può trovarsi nel glitch, nell’errore che interrompe la perfezione dell’algoritmo, o nell’intuizione che nasce dall’imprevisto. In altre parole, l’aura non è il contrario della tecnica, ma il suo doppio fantasmatico: si manifesta proprio dove la tecnica diventa opaca, dove perde la sua trasparenza e mostra le sue pieghe.

La questione, allora, non è se l’arte possa sopravvivere all’intelligenza artificiale, ma in che modo possa mutare insieme ad essa. Così come la pittura ha tratto forza dalla sfida della fotografia e ha trovato nuovi orizzonti nella non-mimesi, allo stesso modo la scrittura, la composizione musicale, la creazione visiva possono trovare una linfa rinnovata nella collaborazione, e non nella competizione, con i dispositivi intelligenti. Più che una sostituzione, si tratta di un allargamento del campo, di una riconfigurazione degli attori in gioco. L’artista del futuro potrebbe essere anche colui che sa orchestrare interazioni complesse tra agenti umani e non umani, che sa leggere negli output algoritmici ciò che ancora sfugge al codice, che sa cogliere l’inatteso come forma di verità estetica.

In conclusione, ogni rivoluzione tecnica mette alla prova la nostra concezione dell’arte, ma non la annienta. Piuttosto, la costringe a interrogarsi, a spostare i confini del senso, a reinventare la propria aura. E se ogni nuova invenzione sembra, inizialmente, riaccendere il rogo della presunta autenticità perduta, non dobbiamo dimenticare che proprio in quelle fiamme, spesso, l’arte ha saputo rigenerarsi. Non si tratta di difendere un’idea nostalgica di purezza, ma di accogliere la metamorfosi: l’aura non brucia — si trasfigura.