lunedì 23 giugno 2025

Resta la ferita che luccica

Se ne va l’uomo che ha dato forma all’enigma. L’uomo che ha preso la perfezione sferica del mondo e l’ha trafitta con l’unghia dell’invisibile. Arnaldo Pomodoro non è più tra noi, ma resta ovunque: nei tagli che si aprono sul bronzo, negli abissi d’oro che si spalancano al centro delle sue opere, come se l’arte dovesse sempre sanguinare un po’ per dire la verità.

Non ha costruito statue, ma cicatrici eterne.
Non ha celebrato la bellezza, l’ha interrogata con violenza e dolcezza insieme, come si interroga un Dio che non risponde.
Ha inciso la materia come fosse carne, con lo scalpello della visione, e da ogni fenditura sgorgava silenzio.
Ha forgiato una liturgia di spaccature, di fratture, di geometrie infrante che continuano a respirare anche ora, anche adesso che lui è scomparso.

Pomodoro ha parlato il linguaggio del metallo, ma il suo lessico era quello dei vulcani e delle costellazioni.
Ha fatto esplodere l’interno delle cose — come se ogni forma fosse solo una scorza, una crosta, una trappola da scardinare per arrivare al nucleo.
E quel nucleo, sempre, era luce. Una luce che brucia.
Una luce che non consola, che non pacifica, ma che scava, interroga, spoglia.
Ha attraversato il secolo senza seguire il tempo, ma scavandolo: come un geologo dello spirito, come un archeologo dell’avvenire.

La sua opera non era superficie.
Era taglio. Era varco. Era fenditura in cui cade lo sguardo e da cui risale il pensiero.
Ogni scultura, ogni colonna spezzata, ogni sfera lacerata era una domanda lanciata nell’aria con il peso della pietra.
E nel vuoto che si apre dentro la forma, nella ferita che non si chiude, c’era un’eco, un battito lento, un respiro.
Pomodoro ha fatto del bronzo un corpo vivo. Ha fatto dell’oro una piaga.
Ha fatto dell’arte un luogo in cui si poteva finalmente stare nudi, vulnerabili, attraversati.

Non c’era nulla di decorativo nel suo gesto, nulla di accomodante.
Solo una tensione febbrile verso l’assoluto.
Una liturgia fatta di equilibri infranti, di armonie sfregiate, di geometrie come reliquie di un pensiero ferito ma ancora vivo.
Ha saputo portare nella materia il terremoto dell’interiorità.
E non ha mai chiesto all’opera di rassicurare: l’ha voluta come sfida, come impatto, come rivelazione che non si può ignorare.
C’erano in lui l’ombra degli astri, il peso dei miti, la voce antica del fuoco.
Scalpellava come se stesse scrivendo con la punta delle dita il testamento di un mondo in bilico tra rovina e resurrezione.

Ora che se ne è andato, resta il metallo a parlare per lui.
Le sue opere non sono tombe, sono bocche.
Dicono l’inesprimibile.
Raccontano ciò che sta dentro le cose prima che vengano dette.
Prima che vengano amate.
Prima che vengano perdute.
Sono monumenti al vuoto che pulsa.
Macchine del mistero.
Fessure da cui trapela una voce antica come la terra, eppure ancora tutta da decifrare.

Arnaldo Pomodoro è morto.
Ma la sua arte continua a spaccare il tempo.
A rivelare il cuore segreto della materia.
A gridare, da dentro la forma, che ogni creazione è una ferita che non si rimargina.
E che proprio per questo, splende.
Splende come una stella rotta.
Come un sole spaccato a metà che continua, nonostante tutto, a darci luce.
Non resta che ascoltare le sue sculture come si ascolta un canto che non finisce, un fuoco che non muore, un addio che ha il suono muto dell’eternità.