lunedì 23 giugno 2025

“Un desiderio che cammina al buio”: l’omosessualità in Kafka come enigma, sintomo e metafora

I. Prologo: La traccia assente

Nel multiforme e inquieto universo della letteratura mitteleuropea, Franz Kafka si staglia come figura liminale e paradigmatica: non tanto per ciò che dice, ma per come lo tace. Parlare di omosessualità in Kafka significa affrontare un campo magnetico fatto di omissioni, deviazioni, allegorie e sintomi, più che di affermazioni, azioni o ammissioni. Il suo rapporto con la sessualità in generale, e con l’identità sessuale in particolare, si colloca fuori da ogni paradigma normativo, ma anche fuori dalle retoriche dell’orgoglio: è un rapporto che si manifesta come sintomo, non come scelta; come sconfitta, non come rivendicazione.

Kafka non fu un autore omosessuale in senso moderno, e tuttavia è stato letto e vissuto come tale da generazioni di lettori queer, proprio in virtù della sua straordinaria capacità di nominare l’innominabile, di rendere visibile l’ombra, di fare della rinuncia una forma radicale di poetica e di politica del corpo. In Kafka, il desiderio è sempre contorto, ambiguo, impacciato, frustrato, irrisolto: e proprio per questo ci riguarda da vicino, oggi più che mai, in un tempo in cui il desiderio stesso è oggetto di controllo, disciplina, estetizzazione e marketing.

II. Il corpo negato: trasfigurazioni e simboli

La prima evidenza che emerge dalla lettura integrale di Kafka è il rapporto ossessivo e disturbato con il corpo. È come se il corpo fosse una trappola, un ostacolo tra l’Io e il mondo. Non c’è narrazione kafkiana in cui il corpo non venga messo alla prova: rinchiuso, trasformato, punito, separato da sé stesso. Gregor Samsa, ne La metamorfosi, si sveglia trasformato in un gigantesco insetto: la repulsione che suscita non è solo quella dei familiari, ma anche e soprattutto la sua. È il corpo di un desiderio non conforme che irrompe, si mostra e viene espulso.

Questa mutazione può essere letta come metafora del coming out fallito: non c'è affermazione, non c'è dichiarazione, ma solo esclusione. Il corpo mostruoso è la punizione simbolica per chi non riesce a rientrare nell'ordine simbolico. L'omosessualità — che non viene mai nominata direttamente — si insinua come significato eccedente, come energia che distorce l'ordine delle cose.

Ancora più evidente è questo processo ne Nella colonia penale, dove il corpo del condannato viene inciso da una macchina di tortura con la sentenza del suo crimine. La scrittura sulla carne è una delle immagini più potenti dell'intera letteratura occidentale, e può essere letta come l'allegoria di quella vergogna interna che ogni soggetto non conforme ha sentito almeno una volta nella vita. Il peccato non è qualcosa che si fa, ma qualcosa che si è. E la macchina della giustizia — che è anche quella della famiglia, della medicina, della religione — incide questa differenza sulla pelle.

III. La paura della carne: bordelli, fidanzamenti, astinenze

Le lettere di Kafka a Felice Bauer e a Milena Jesenská offrono un ulteriore accesso al suo abisso privato: vi si legge una continua oscillazione tra desiderio e repulsione, tra bisogno d'amore e bisogno di fuga. Kafka sembra incapace di sostenere la vicinanza fisica, soprattutto con le donne: visita bordelli, ma ne esce con un senso di annientamento, di colpa, di nausea. Vive il corpo femminile come qualcosa di alieno, invadente, devastante.

Il suo rapporto con le donne è ossessivo e intellettuale: le idealizza, ma al tempo stesso le teme, come se la sessualità femminile fosse una sfida insormontabile. Scrive lettere per ore, ma al momento di sposarsi fugge. In questa contraddizione si intravede una possibile verità: Kafka non desidera ciò che crede di dover desiderare. Eppure, non può confessare altro. Il desiderio stesso è patologizzato, medicalizzato, spiritualizzato. Non è mai un atto, ma sempre un rimorso.

IV. Trapezisti, soldati, giovani: le figure dell’altro maschile

Diversi studiosi, tra cui Saul Friedländer, Marthe Robert, Didier Eribon, si sono interrogati sul significato delle frequenti apparizioni di giovani uomini forti, belli, muti, nei racconti e nei diari di Kafka. C'è una fissazione quasi mistica verso il corpo maschile, ma sempre osservato a distanza, come un oggetto sacro, mai toccato.

Il più emblematico di questi è il trapezista: figura eterea, sospesa, che vive nel circo ma si sottrae al mondo. Non tocca terra, dorme appeso. E quando chiede una seconda altalena, è perché sente arrivare la "fine della sua perfezione". In lui è impossibile non leggere un simbolo queer: un angelo laico, un corpo maschile idealizzato, negato, protetto. Forse Kafka proiettava nel trapezista ciò che desiderava essere: incorporeo, non sessuale, ammirato ma inaccessibile.

Non meno importante è la presenza di soldati, ginnasti, ragazzi nudi nei bagni pubblici. Non c'è mai erotismo diretto, ma sempre una reverenza, una fascinazione visiva. Come scrive Guy Hocquenghem, il desiderio omosessuale represso si manifesta nello sguardo, nella fissazione, nell'interruzione del flusso narrativo. È una lubrificazione dell'immaginazione. Kafka guarda, registra, tace. E intanto scrive.

V. La psicanalisi del desiderio assente

Freud ci ha insegnato che il desiderio represso non scompare, ma ritorna travestito, sintomatico, linguistico. E in questo senso, Kafka è il paziente perfetto: la sua scrittura è una macchina di difesa, una sublimazione continua. I suoi personaggi non compiono mai l'atto: attendono, si nascondono, si giustificano. Josef K. nel Processo non sa mai quale sia la sua colpa. Il Castello resta inaccessibile. L'America di Karl Rossmann è un miraggio.

In tutti questi casi, l'azione è bloccata, rinviata. L'accesso è vietato. È una dinamica erotica in senso profondo: il desiderio esiste solo come differenza, come ritardo, come impossibilità. L'oggetto desiderato è sempre maschile, ma reso innocuo: è legge, è gerarchia, è potere. In questo senso, Kafka ha anticipato molte delle strutture teoriche del pensiero queer: non l'identità, ma l'impossibilità dell'identità.

VI. Kafka come icona queer: oltre l'etichetta

Negli ultimi decenni, il pensiero queer ha riconosciuto in Kafka una figura fondativa: non come modello di condotta, ma come esempio di resistenza simbolica. Judith Butler ha mostrato come le norme di genere si reggano sulla ripetizione forzata di gesti: Kafka, da questo punto di vista, è l'autore che inceppa il meccanismo. I suoi personaggi falliscono nel compiere i rituali sociali, i suoi racconti disinnescano ogni aspettativa. La sua stessa sintassi — ipotattica, labirintica, fatta di frasi interminabili — è un atto di sabotaggio.

Scrittori come Thomas Mann, Marcel Proust, Jean Genet, Pier Paolo Pasolini hanno elaborato in modi diversi la tensione tra desiderio maschile e società normativa. Ma Kafka è l'unico a fare del fallimento stesso una forma di ascesi, di resistenza mistica. Non è l'orgoglio, ma la ferita a parlare. Non la visibilità, ma l'interdizione. In questo senso, è un autore profondamente queer: perché la sua opera è una teoria vivente della performatività negata.

VII. Epilogo: L’ombra che resta

In ultima analisi, parlare di omosessualità in Kafka significa leggere contro il testo, ma anche attraverso il testo. Significa non cercare prove, ma sintomi. Non dichiarazioni, ma eco. L'omosessualità in Kafka è una chiave ermeneutica, non una verità biografica. È il modo in cui si scrive quando non si può essere. Il modo in cui si desidera quando non si è autorizzati. Il modo in cui si vive quando si è sempre già colpevoli.

Kafka non ci lascia coming out, ma ci lascia una grammatica della fuga, un alfabeto del desiderio interrotto. E forse è proprio questo che lo rende così nostro, oggi: perché in un mondo che ci impone identità come etichette, Kafka ci insegna a vivere nel guasto, nel fraintendimento, nell’attesa. A scrivere l’amore senza oggetto, a desiderare senza nome, a esistere senza autorizzazione.

Ed è in questa tensione continua, in questo linguaggio scomposto, in questa assenza che brucia, che Kafka continua a parlare a tutti coloro che non si sentono a casa, nemmeno dentro il proprio corpo.