"La collina di Montmartre con la cava" è un dipinto realizzato da Vincent van Gogh nel 1886, durante il suo soggiorno parigino. Attualmente è conservato al Museo Van Gogh di Amsterdam, nei Paesi Bassi.
Quest’opera rappresenta un momento particolare nella vita dell’artista: il periodo in cui, trasferitosi a Parigi, entra in contatto con gli impressionisti e i post-impressionisti, assorbendone rapidamente le influenze cromatiche e compositive. Tuttavia, in questo dipinto si avverte ancora la transizione dal suo stile olandese più cupo a quello più vibrante che svilupperà poco dopo.
La scena raffigura una veduta della collina di Montmartre, all’epoca ancora semi-rurale, con orti, mulini e cave. In primo piano si nota la cava che dà il titolo all’opera, con la terra scavata che crea un senso di profondità e movimento. Sullo sfondo, le casette e i mulini a vento di Montmartre testimoniano la fusione tra paesaggio urbano e natura, tema caro a Van Gogh in quel periodo. La tavolozza è ancora sobria, dominata da verdi, marroni e grigi, ma già si intravede la sintesi poetica e luminosa che caratterizzerà le sue opere successive.
Tecnica pittorica di "La collina di Montmartre con la cava" (1886)
Nel dipinto La collina di Montmartre con la cava, Van Gogh impiega olio su tela, ma lo fa in un momento di transizione estetica, in bilico tra la sua prima maniera olandese – dominata da toni scuri, terre e pennellate dense – e la nuova sensibilità luminosa assorbita dai pittori impressionisti e neoimpressionisti parigini.
Il trattamento della materia pittorica è ancora compatto e terroso: Van Gogh costruisce le forme con pennellate corte e parallele, che delineano la conformazione del terreno scavato e l’irregolarità del paesaggio. Non siamo ancora di fronte alla sua celebre pennellata a spirale o ai colpi vibranti e impetuosi dei campi provenzali, ma già si nota un ritmo interno, una tensione tra descrizione e espressività.
I colori sono smorzati, ma l’accostamento di verdi freddi, ocra e grigi segnala l’abbandono dei neri assoluti della fase precedente. La luce filtra con discrezione, non si impone, ma accende alcune zone del paesaggio, suggerendo un’atmosfera serena eppure viva. Il cielo è trattato con pennellate orizzontali e leggere, quasi a dare respiro alla composizione.
Van Gogh non cerca tanto una rappresentazione realistica della cava, quanto una visione empatica del luogo: la cava, con il suo vuoto scavato, può leggersi anche come metafora di un’interiorità fragile, disadorna, esposta.
Storia del dipinto e ritrovamento
Questa tela, realizzata nel 1886, è parte di un gruppo di opere parigine rimaste a lungo meno conosciute rispetto ai lavori successivi di Arles, Saint-Rémy e Auvers. Van Gogh, giunto a Parigi nella primavera del 1886, visse con il fratello Theo e dipinse moltissimo, pur vendendo poco. La fase parigina fu un momento di assimilazione visiva e culturale, più che di affermazione.
"La collina di Montmartre con la cava" raffigura un luogo realmente frequentato da Van Gogh: l’area di Montmartre era all’epoca ai margini della città, un quartiere ancora semi-rurale e frequentato da artisti in cerca di affitti bassi e soggetti naturali. Van Gogh lo percorreva a piedi, ne osservava le variazioni stagionali, e vi trovava una certa quiete.
La tela entrò nella collezione del fratello Theo, e alla morte di quest’ultimo nel 1891, passò alla moglie Johanna van Gogh-Bonger, che fu determinante nella diffusione dell’opera di Vincent. Tuttavia, questo dipinto non fu subito esposto né acquistato: rimase per anni nei depositi, e solo nel Novecento, con la creazione del Museo Van Gogh ad Amsterdam (fondato nel 1973), venne attribuito con certezza e inserito nel corpus delle opere autografe dell'artista.
Nel 2021, ha avuto nuova notorietà grazie a una campagna di studio scientifico e restaurativo promossa dal museo stesso: le analisi ai raggi X hanno confermato la mano di Van Gogh e rivelato pentimenti e modifiche sotto la superficie pittorica, segno di un’elaborazione in fieri, non meccanica.
Una collina scavata nella luce: la tecnica e la storia di un paesaggio in bilico
C’è qualcosa di profondamente umano nella tela La collina di Montmartre con la cava, dipinta da Vincent van Gogh nel 1886. È una scena semplice, all’apparenza: una salita, qualche cespuglio, il terreno brullo e scavato, un cielo sottile. Eppure, dietro questa sobrietà si nasconde un momento cruciale. Vincent è appena arrivato a Parigi. Lascia alle spalle i toni cupi della sua pittura olandese, ma non ha ancora abbracciato davvero la luce esplosa nei campi del sud. È in una specie di transizione, e questo dipinto lo testimonia con una sincerità disarmante.
Dal punto di vista tecnico, l’opera è realizzata a olio su tela, ma l’uso del colore e della materia ha qualcosa di esitante e insieme coraggioso. Le pennellate sono corte, parallele, quasi trattenute, come se Vincent stesse ancora cercando di capire se fidarsi della luce nuova che lo circonda. Niente ancora del turbinio dei girasoli o della furia delle notti stellate: qui la pittura è compatta, terrosa, fatta di ocra, verdi smorzati, grigi che virano verso l’azzurro. Il cielo si distende in strisce orizzontali leggere, mentre il terreno è modellato da una gestualità più densa, quasi nervosa. Van Gogh non si limita a descrivere la cava, ma ne sente l’eco interna, come se quel vuoto scavato nella collina fosse uno scavo nella propria inquietudine.
Quando il dipinto è stato sottoposto ad analisi nel 2020, in occasione di una campagna di studi promossa dal Van Gogh Museum di Amsterdam, sono venute alla luce alcune sorprese. I raggi X hanno rivelato un abbozzo a carboncino sotto la pittura, segno che Van Gogh stava ancora costruendo il suo sguardo. È raro trovarlo a disegnare prima di dipingere: spesso procedeva d’istinto, direttamente col pennello. E invece qui, prima di affrontare la tela, sembra quasi che voglia prendere fiato.
Sono emerse anche modifiche in corso d’opera: il profilo della collina era inizialmente più ripido, poi ammorbidito. Alcuni elementi – un tetto, forse una figura – sono stati abbozzati e poi cancellati. Come se il paesaggio stesso non fosse ancora certo della propria forma. Le analisi dei pigmenti hanno rivelato la presenza di colori ancora legati alla sua tavolozza nordica – ocra, terre d’ombra, verde veronese – ma già affacciati verso una maggiore luminosità. Il restauro ha eliminato vernici antiche che ingiallivano la superficie, restituendo un equilibrio più lieve tra cielo e terra, come se la tela avesse finalmente ripreso a respirare.
Ma La collina di Montmartre con la cava non è sola. In quel periodo, Van Gogh ha dipinto più volte Montmartre, quel quartiere parigino che allora era ancora mezzo campagna, mezzo periferia, con le sue cave, i mulini, gli orti. Un luogo che per Vincent era terra di confine, come lui stesso: non più contadino, non ancora pittore pienamente “moderno”.
C’è per esempio La collina di Montmartre con cave e giardini, molto simile, ma più aperta, più luminosa. Oppure Montmartre con carri e case, in cui la luce inizia davvero a penetrare, e il cielo si fa più presente. Poi ci sono i famosi Mulini, quelli di Blute-Fin, che Van Gogh dipinge come presenze sospese nel tempo, simboliche, solitarie, quasi sentinelle di un mondo che scompare.
E ancora: i giardini fioriti di Montmartre in primavera, dove i colori si sciolgono, i rosa e i bianchi sbocciano, e Vincent sembra accarezzare la possibilità di un’esistenza più lieve. Ma anche in queste vedute, che pure si aprono alla bellezza, resta una tensione interna, un brivido sotto la superficie. Van Gogh non guarda mai semplicemente. Guarda attraverso, come se cercasse sempre qualcosa che il paesaggio da solo non può spiegare.
In fondo, anche La collina con la cava è questo: una soglia, tra un mondo e l’altro. Un luogo scavato, ferito, ma in attesa di essere trasformato dalla luce.
Proseguiamo allora con Montmartre, che non fu solo scenario ma vero crocevia dell’arte moderna. Se Vincent ne fece una soglia interiore, gli altri pittori che lo frequentarono negli stessi anni ne trassero letture diverse, eppure in dialogo tra loro.
Montmartre secondo gli altri
Nel 1886, lo stesso anno in cui Van Gogh la dipinge, Émile Bernard la percorre con tratti sintetici, quasi simbolisti, mentre sogna già Pont-Aven e le visioni piatte del cloisonnisme. Ma è Lautrec a restituirne l’anima più notturna: non i pendii né le cave, bensì le salite popolate da ballerine, ubriachi, prostitute e affiches, con un tocco graffiante e mondano. Per lui, Montmartre non è un paesaggio, è un teatro.
Diversissimo è lo sguardo di Camille Pissarro, che qualche anno prima aveva osservato dalla finestra le alture urbane, captandone le variazioni atmosferiche. Nei suoi dipinti la collina si dissolve nella luce, come una vibrazione. E ancora, Paul Signac: in La colline de Montmartre, l’approccio è già puntinista, come se la realtà fosse smontata in atomi di colore.
Van Gogh, in mezzo a queste tensioni, rimane solo. Non lo attrae né la precisione scientifica né l’ironia bohémien. La cava che dipinge è silenziosa, lontana da ogni aneddoto, e sembra vibrare di qualcosa che non si vede.
Montmartre trasfigurata ad Arles
Eppure – ed è qui che il cerchio si stringe – quelle colline parigine tornano, più tardi, nelle tele di Arles, mutate, trasfigurate. Basta guardare Campi di grano con cipressi, La vigna rossa, I mietitori: la linea dell’orizzonte collinare, così essenziale nei quadri di Montmartre, ricompare nei paesaggi del sud, ma si curva, si infiamma, si tende in spirali visive. Le cave spoglie diventano campi d’oro, i cespugli si fanno girasoli, le baracche ortive si trasformano in case bianche abbacinanti.
Van Gogh ha assimilato la collina urbana e ne ha fatto una metafora più ampia: la fatica di salire, il senso di vuoto e scavo, la ricerca della luce come riscatto. A Montmartre imparava a sporcarsi i piedi nella polvere, ad Arles finalmente impara a volare sopra di essa.
Perfino la cava, quel vuoto, torna. Si pensi alla Notte stellata: anche lì, in basso, c’è un’ombra, un’assenza di terra, uno squarcio – come se il cielo potesse risucchiarla. Montmartre non l’ha mai abbandonato davvero: ha solo cambiato forma.
È proprio qui che il paesaggio di Van Gogh – da Montmartre ad Arles – si rivela non come semplice esercizio en plein air, ma come trama di sguardi stratificati, dove convivono il Nord e l’Estremo Oriente, Rembrandt e l’Ukiyo-e. Un paesaggio, insomma, che non si limita a essere visto, ma è letto e amato come si legge una pagina sacra.
L’eredità di Rembrandt: la luce come redenzione
Van Gogh aveva una venerazione quasi mistica per Rembrandt. Lo considerava un profeta della luce interiore, capace di far brillare l’anima umana nel buio della materia. Questo sguardo lo influenzò non tanto nella costruzione realistica del paesaggio, quanto nel suo valore simbolico.
Nei disegni giovanili olandesi, già si avverte il tentativo di scavare la terra come Rembrandt scavava i volti: col tratto, non con la superficie. La cava di Montmartre – con quel suo vuoto brullo – è Rembrandtiana nella misura in cui non descrive, ma interroga. È un vuoto pieno di destino, quasi una tomba preparata per qualcosa che deve ancora accadere.
Rembrandt insegnò a Vincent che la luce più vera non viene da fuori, ma da dentro. E questo si vede bene ad Arles, dove anche nei paesaggi più accesi (si pensi al Campo di grano con volo di corvi), la luce sembra venire dalla tela stessa, irradiarsi dal cuore della materia, non dal sole. È una luce psichica, come quella che Rembrandt proiettava sul volto del figlio prodigo o sul corpo del Cristo deposto.
Il paesaggio giapponese: la linea che danza, la natura che consola
Ma l’altra grande matrice che trasfigura Montmartre in Provenza è l’arte giapponese, che Van Gogh scopre proprio a Parigi, nello stesso periodo in cui dipinge la cava. Quando si imbatte nelle stampe di Hokusai, Hiroshige, Utamaro, ne resta folgorato: gli sembra che finalmente qualcuno abbia colto il paesaggio come energia, come moto, come respiro.
Dalle stampe giapponesi impara a semplificare, a usare la linea non per descrivere ma per far vibrare. Le colline non sono più masse, ma onde, movimenti. La vegetazione non è più fatta di singole foglie, ma di ritmi, di alternanze, come una calligrafia naturale. L’orizzonte si sposta, si curva, diventa un flusso continuo, come nei Paesaggi della Tōkaidō.
A Montmartre, Vincent comincia a introdurre questa danza sottile: i sentieri si fanno curve, i cespugli accennano spirali. Ma è solo ad Arles che il suo stile diventa davvero “giapponese” nel senso più profondo: non come imitazione, ma come assimilazione spirituale. La natura non è più oggetto, ma soggetto. E la collina, che un tempo era cava e scavata, ora è un movimento dell’anima.
Una sintesi impossibile: tra Amsterdam, Edo e Arles
In fondo, la grandezza di Van Gogh sta qui: nel riuscire a fondere due visioni opposte del mondo. Da un lato, Rembrandt con la sua luce che lotta contro il buio, colma di pietà e di tormento. Dall’altro, Hokusai, che accetta il fluire delle cose, che danza con la vita senza cercare redenzione.
La Collina di Montmartre con la cava è il momento in cui queste due visioni si incontrano prima della loro esplosione ad Arles. È ancora un paesaggio europeo, scavato, opaco. Ma già si percepisce che Vincent sta ascoltando un altro ritmo, un altro respiro. Come un samurai del Nord, ancora vestito di nero, ma con il sogno del ciliegio già fiorito in fondo agli occhi.
Entriamo adesso nella vita segreta delle lettere, dove Van Gogh, più che altrove, si mostra nel suo essere non solo pittore, ma teorico e poeta della visione. Le lettere – soprattutto al fratello Theo – non sono solo cronache di giornate e fatiche, ma veri laboratori di pensiero, in cui la pittura si forma prima sulla carta che sulla tela.
Rembrandt nelle lettere: la luce del cuore
Van Gogh parla di Rembrandt con una reverenza che sfiora il religioso. In una lettera del 1885, ancora nei Paesi Bassi, scrive:
“Rembrandt è così profondamente umile nella sua grandezza. Nella sua opera senti l’anima della gente… la luce in Rembrandt non è mai solo luce, è tenerezza che vince l’oscurità.”
È una frase chiave. Per Van Gogh, Rembrandt non è un maestro di tecnica, ma un guaritore dell’anima, un esempio di come l’arte possa toccare l’invisibile. Questa concezione si riflette anche nel modo in cui lui stesso comincia a trattare la materia pittorica: non per imitare la realtà, ma per dare corpo al dolore, alla speranza, alla redenzione.
A più riprese, soprattutto nel periodo di Arles, scrive che vorrebbe fare “paesaggi come Rembrandt ha fatto ritratti”: non per raccontare, ma per rivelare.
Il Giappone nelle lettere: un sogno di armonia
Ma l’altro fuoco che lo anima – e che trasforma il paesaggio – è il Giappone. Van Gogh ne parla con entusiasmo crescente, specie tra il 1886 e il 1888, quando scrive:
“Tutto il mio lavoro si basa su un certo sentimento di armonia che ho trovato nelle stampe giapponesi. Il Giappone mi fa pensare alla serenità.”
E ancora:
“Mi sento come un esiliato che cerca di ritornare in patria: la mia patria è il Giappone.”
Lì, nel mito del Giappone che circolava nella Parigi del tempo – tra le botteghe del Boulevard Montmartre e la Galerie Bing – Van Gogh proietta un sogno di purezza, una pittura liberata dalla retorica europea, capace di cogliere l’istante, il mutamento, la vita come respiro.
Una stampa giapponese ispiratrice: Il ponte sotto la pioggia di Hiroshige
Uno degli esempi più espliciti del suo dialogo con l’arte giapponese è la copia che Vincent fa di una stampa di Hiroshige: Il ponte Ohashi sotto un improvviso acquazzone, tratta dalla celebre serie Cento vedute famose di Edo.
La stampa originale mostra un ponte di legno arcuato sul fiume Sumida, con figure curve sotto gli ombrelli, sorprese dalla pioggia obliqua che taglia la scena con linee nette. È un’immagine di transitorietà, di movimento, di silenzio sospeso.
Van Gogh la ricopia nel 1887, a Parigi, e la trasforma: il tratto si ispessisce, i colori si fanno più vibranti, quasi ossessivi. Le linee della pioggia diventano segni espressivi, pulsanti. La composizione resta fedele, ma lo spirito è mutato: non più distacco lirico, ma emozione intensa.
Questa stampa – e il modo in cui la trascrive – è una chiave per leggere anche le sue colline. Perché il paesaggio giapponese gli insegna che non c’è bisogno di dettagli superflui: una linea basta per dire un pendio, un tratto obliquo può dire una tempesta interiore. Ad Arles, nei cipressi come nei campi, l’impronta di Hiroshige e Hokusai è ormai fusa con la sua voce.
Lettere, stampe e paesaggi: una sinfonia interiore
Così, tra una lettera a Theo, una stampa incollata sul muro e una tela gialla che urla dal cavalletto, Van Gogh costruisce il suo paesaggio interiore. Fatto di colline che ricordano cave parigine, ma anche i crinali dell’anima. Fatto di luci rembrandtiane che lottano contro il buio, ma anche di cieli giapponesi che accettano la pioggia senza paura.
Ogni tela, da Montmartre ad Arles, è una lettera non scritta. E ogni lettera, a modo suo, una pittura silenziosa.
E allora scendiamo con lui, su quel treno del febbraio 1888, quando da Parigi si dirige a sud, verso Arles. Vincent ha appena lasciato la città con l’ansia e l’euforia di chi sta facendo qualcosa di irreversibile, e scrive a Theo:
“Non posso farci niente se a Parigi mi sentivo un esiliato. […] Ho una grande voglia di vedere un altro clima, un’altra luce. Il sud ha qualcosa del Giappone.”
Siamo già nel cuore del sogno: l’Atelier del Sud. Un progetto che è insieme artistico, umano e spirituale. Non un semplice studio condiviso, ma una nuova forma di vita: un luogo in cui l’arte possa rifiorire fuori dalle convenzioni parigine, fuori dalle nevrosi del mondo moderno, in una comunione quasi monastica. E l’immagine che tiene come modello non è una comunità d’artisti bohémien, ma un’utopia giapponese.
Il sogno giapponese nel cuore della Provenza
Per Van Gogh, Arles non è solo una città del sud: è il Giappone che si può raggiungere in treno, una trasposizione spirituale. Scrive con stupore:
“Il cielo è di un azzurro che non ho mai visto, il sole ha la luminosità di uno smalto giapponese. È il vero oriente.”
E in un’altra lettera:
“Non riesco a smettere di pensare al Giappone, da quando sono qui. Tutto è più limpido, più netto, più essenziale. È come se potessi finalmente dipingere con il respiro.”
Il paesaggio della Camargue, i campi di grano, i cipressi, le vigne, gli alberi contorti: tutto viene filtrato da quell’immaginario orientale che lo ha incantato a Parigi, attraverso le stampe ukiyo-e. Ma ad Arles quelle visioni si incarnano, diventano natura viva.
La linea si fa più curva, le composizioni si semplificano, il colore si libera. Il paesaggio diventa simbolo, e la tela un luogo di trasfigurazione.
L’utopia dell’Atelier del Sud
Ma il sogno non è solo paesaggistico. Vincent vuole che ad Arles nasca una confraternita di pittori, una nuova scuola, libera dalle accademie. Scrive a Theo, con entusiasmo febbrile:
“Pensa a un gruppo di artisti che vivano insieme come i monaci zen, ognuno con il suo stile ma con un’unica fede: la verità del colore.”
Il primo a cui pensa è Paul Gauguin, che riesce a convincere a raggiungerlo a ottobre 1888. Gli scrive lettere come fossero inviti a un monastero:
“Qui è il paradiso, ti dico. Abbiamo la luce, il silenzio, la calma. Abbiamo i cieli di Hokusai e le pianure di Millet. Vieni!”
Nel suo ideale, l’Atelier del Sud non avrebbe un direttore, ma un’energia collettiva, una sorta di Zen della pittura, dove ogni gesto fosse parte di un’intesa spirituale più grande. Non è un caso che appendesse nel suo studio copie delle stampe giapponesi, come fossero icone.
Il sogno infranto
Ma la realtà, come spesso accade con le utopie, si incrina. Il rapporto con Gauguin si deteriora, la convivenza si fa tesa, e culmina nel drammatico episodio del dicembre 1888, quando Vincent, in una crisi allucinatoria, si taglia parte dell’orecchio.
L’Atelier del Sud, quel “tempio del colore”, implode. Ma il suo spirito – quella tensione verso un’arte come armonia interiore – continua a vibrare nelle tele. I “Campi di grano con cipressi”, “La casa gialla”, “Il seminatore al tramonto”, tutti i capolavori arlesiani, sono figli diretti di quel sogno giapponese, radicato nel sud della Francia.
Durante il periodo tra il 1888 e il 1889, Vincent van Gogh scrisse alcune delle sue lettere più toccanti e significative, nelle quali esplorava il suo rapporto con l'arte, il sogno di un "Atelier del Sud" a Arles e, più tardi, la sua esperienza a Saint-Rémy. Confrontando le sue opere di quel periodo con quelle di Paul Gauguin, possiamo osservare non solo le differenze stilistiche, ma anche le tensioni che segnarono la loro collaborazione.
Le lettere più intense di Van Gogh (1888–1889)
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Lettera a Theo, 17 settembre 1888: In questa lettera, Van Gogh esprime la sua convinzione che l’arte possa essere il mezzo per rappresentare e trasmettere emozioni profonde. Scrive con entusiasmo riguardo al suo lavoro a Arles, sperando che il suo impegno nella pittura possa portare a una forma di purificazione e salvezza. È una visione quasi mistica, che riflette la sua tensione tra il desiderio di bellezza e la lotta contro i suoi demoni interiori.
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Lettera a Theo, 23 ottobre 1888: Questa lettera segna un momento di speranza per Van Gogh, quando scrive delle sue aspettative sull’arrivo di Gauguin. Il pittore olandese immagina che la loro collaborazione possa essere l'inizio di una nuova era per l'arte. Esprime il sogno di costruire insieme un "Atelier del Sud", un luogo di lavoro artistico collettivo e creativo, lontano dalle convenzioni della pittura accademica.
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Lettera a Theo, 23 dicembre 1888: Dopo l'incidente in cui si taglia l'orecchio, Van Gogh scrive con un tono più malinconico, riconoscendo le difficoltà della sua mente e il fallimento del suo sogno di comunità artistica. Il suo idealismo inizia a cedere il passo alla realtà, mentre riflette su quanto il lavoro artistico possa, in alcuni momenti, non bastare a placare il tormento interiore.
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Lettera a Theo, 22 maggio 1889: Dopo essersi fatto ricoverare nel manicomio di Saint-Rémy, Van Gogh scrive con una rinnovata dedizione alla pittura, che per lui diventa una fonte di conforto. Sebbene la sua realtà sia cambiata, la pittura rimane l’unica via per mantenere un senso di salvezza e serenità, anche in mezzo alla sofferenza.
Le opere di Van Gogh e Gauguin a confronto
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Van Gogh ad Arles (1888):
- La casa gialla: Questa è forse una delle opere più emblematiche del periodo ad Arles. Raffigura la casa che Van Gogh aveva affittato nella speranza di realizzare il suo progetto di atelier collettivo. La scena, con i suoi colori vividi e accesi, riflette il sogno di un luogo di lavoro che potesse ospitare altri pittori, come Gauguin. La casa è un simbolo di speranza, ma anche di una solitudine sottesa.
- Notte stellata sul Rodano: Dipinta nella stessa città, questa opera cattura la bellezza della notte, con il cielo brillante di stelle e la riflessione nel fiume. L’atmosfera che crea è intensa, emotiva, quasi onirica. Van Gogh usa il paesaggio per esprimere il suo stato interiore, una continua ricerca di qualcosa di infinito e inarrivabile.
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Van Gogh a Saint-Rémy (1889):
- La notte stellata: Durante il suo soggiorno a Saint-Rémy, Van Gogh crea una delle sue opere più iconiche, che rappresenta un cielo notturno tormentato, con vortici che sembrano rispecchiare il suo stato mentale. È un capolavoro di intensità emotiva, che rivela la sua capacità di esprimere l'inquietudine dell'anima attraverso il colore.
- Campo di grano con cipressi: Un'altra opera che dimostra la sua relazione profonda con la natura. I cipressi, simboli di solitudine e morte, sono avvolti da un cielo dinamico e in movimento. La pennellata decisa e vigorosa mostra un’energia che sfida l'immobilità della realtà.
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Gauguin ad Arles (1888):
- Les Alyscamps: Questo dipinto è uno dei tanti esempi della capacità di Gauguin di sintetizzare il paesaggio in forme più stilizzate e simboliche. Mentre Van Gogh catturava la verità emotiva del paesaggio, Gauguin preferiva giocare con la forma e il colore per dare una sensazione di distacco e riflessione più intellettuale. In "Les Alyscamps", la necropoli romana è rappresentata con un’interpretazione che fa il parallelo tra la morte e la solitudine.
- Caffè di notte ad Arles (Madame Ginoux): Qui, Gauguin interpreta la scena di vita quotidiana con un’atmosfera più introspettiva rispetto a Van Gogh. Il contrasto tra i colori è meno brillante, meno energico, e crea una sensazione di distacco emotivo. Questo approccio più razionale alla composizione riflette il suo desiderio di separarsi dalla visione espressionista di Van Gogh.
Il contrasto tra le visioni artistiche
Seppure entrambi i pittori si trovassero nella stessa città, il loro approccio alla pittura e alla vita era profondamente diverso. Van Gogh cercava un arte emotiva e autentica, capace di esprimere la sua tensione interiore, mentre Gauguin, pur riconoscendo il talento di Van Gogh, prediligeva un'arte più simbolica e distaccata.
Questa divergenza di visioni portò alla rottura tra i due, ma le loro opere di quel periodo riflettono l'interazione tra le loro idee e la tensione creativa che ha segnato il loro breve periodo di collaborazione. Nonostante le differenze, entrambi hanno lasciato un'impronta indelebile sulla storia dell'arte, e il confronto tra le loro opere di Arles offre uno spunto di riflessione sulle diverse possibilità espressive della pittura.
Il legame tra le influenze giapponesi e il lavoro di Van Gogh e Gauguin è uno degli aspetti più affascinanti e significativi dell’arte post-impressionista, poiché entrambi gli artisti furono profondamente colpiti dall’arte giapponese, che aveva iniziato a influenzare l’Europa nel corso della seconda metà del XIX secolo, in un fenomeno che prese il nome di Japonisme. La passione per il Giappone non solo arricchì il loro linguaggio visivo, ma li spinse a riconsiderare le convenzioni artistiche dell’epoca e ad adottare nuovi modi di rappresentare il mondo.
Van Gogh e il Giappone
Van Gogh scoprì l'arte giapponese grazie alla seria diffusione delle stampe ukiyo-e (stampe a blocchi di legno giapponesi) che arrivarono in Europa attraverso il commercio e che ebbero un enorme impatto sugli artisti francesi del periodo, in particolare a partire dagli anni 1870. Durante il suo soggiorno a Parigi, Vincent entrò in contatto con queste opere e ne fu immediatamente affascinato, tanto che iniziò a collezionarle. La sua passione per l’arte giapponese si riflette non solo nei suoi dipinti, ma anche nelle sue lettere, in cui spesso parlava con entusiasmo della sua ammirazione per gli artisti giapponesi come Hokusai e Hiroshige.
Una delle influenze più evidenti è il lato decorativo della pittura giapponese, con il suo uso piatto dei colori, l'assenza di prospettiva tradizionale e la raffigurazione di scene quotidiane o di paesaggi. In particolare, la sua celebre serie di paesaggi di grano, come Campo di grano con cipressi o Notte stellata, mostra un interesse per la semplificazione delle forme e per la resa pittorica del cielo e degli elementi naturali con pennellate fluide e forti contrasti cromatici, molto simili ai paesaggi giapponesi.
Anche l'uso di linee nette e stilizzate, che rimuovono l’effetto tridimensionale tipico della pittura europea, si ispira direttamente alle tecniche giapponesi. La serie di girasoli è forse l’esempio più emblematico dell’influenza giapponese nella sua opera: la forma e la composizione, con i fiori che sembrano "emergere" dal fondo piatto, sono simili alla composizione visiva delle stampe giapponesi. Inoltre, l’uso di colori brillanti come il giallo intenso nei girasoli richiama la gamma cromatica vibrante delle stampe giapponesi.
Gauguin e il Giappone
Gauguin, pur essendo influenzato dal Giappone come Van Gogh, affrontò il tema in modo diverso. Durante il suo soggiorno in Bretagna e, successivamente, a Tahiti, Gauguin cercò di sintetizzare le influenze giapponesi con la sua ricerca di un'arte primitiva, lontana dalle convenzioni europee. La sua interpretazione del Giappone era più legata al concetto di esotismo e al desiderio di un ritorno alla purezza primitiva, che lo spinse ad avvicinarsi a una visione del mondo più simbolica e spirituale.
In particolare, le stampe giapponesi esercitarono su Gauguin un'attrazione unica, spingendolo a sperimentare con composizioni semplificate e con una gamma cromatica più audace. Il suo dipinto "Maternità" (1899), per esempio, mostra una semplificazione delle forme che si rifà direttamente alle figure stilizzate delle stampe giapponesi. La figura materna, con la sua silhouette semplice, esprime un senso di serenità che ricorda le figure tranquille e delicate degli ukiyo-e.
Gauguin usò il linguaggio visivo giapponese per esplorare temi più esotici e spirituali. Per esempio, la forza simbolica dei colori nelle sue opere, come nel dipinto "Il visionario" (1889), può essere vista come un tentativo di avvicinarsi alla spiritualità orientale, una ricerca che lo portò a interpretare il Giappone non come un mero stile, ma come una cultura intrisa di significati profondi e misteriosi.
Inoltre, la sua visione del Giappone non si limitò solo alla pittura, ma si rifletteva anche nella sua scultura, dove Gauguin cercò di adottare l'idea di "arte totale" tipica delle culture asiatiche. La sua fascinazione per il Giappone si concretizzò anche nell'uso di motivi orientali nelle sue opere decorative, spesso caratterizzate da un'eleganza quasi "orientale" e da un simbolismo che ricordava l'arte giapponese.
La stampa giapponese che ispirò Van Gogh
Una delle stampe giapponesi più influenti per Van Gogh è "La grande onda di Kanagawa" di Hokusai, una delle immagini più iconiche della stampa giapponese. L’opera è famosa per la sua grandiosità e per il modo in cui l'artista giapponese ha rappresentato la forza della natura con l'acqua che si infrange su una montagna lontana. Van Gogh fu ispirato da questa composizione dinamica e divenne affascinato dall’idea di "rappresentare" la potenza della natura, non solo come un'istantanea, ma come qualcosa che è in continua evoluzione, qualcosa che può essere catturato attraverso un movimento energetico. La "Notte stellata", ad esempio, può essere letta come una risposta alla grande onda, una rappresentazione dinamica, quasi turbolenta, del cielo.
Le influenze giapponesi hanno avuto un impatto profondo e duraturo su Van Gogh e Gauguin, ma la maniera in cui ciascuno di loro ha assimilato queste influenze riflette la loro personalità e la loro visione dell’arte. Van Gogh, con il suo spirito appassionato e l’uso del colore e della pennellata, ha fatto del Giappone una fonte di ispirazione per la sua ricerca espressiva della natura e della realtà emotiva. Gauguin, più distaccato e simbolico, ha trasformato la visione giapponese in una via per esplorare temi spirituali e primordiali, che si mescolano con il suo desiderio di evadere dalla modernità europea.
In entrambi i casi, il Giappone ha offerto una via di fuga dalle convenzioni artistiche occidentali, permettendo ai due artisti di sviluppare un linguaggio visivo unico e profondamente innovativo.
Tornando al quadro di Van Gogh, "La collina di Montmartre con la cava", il legame tra l’arte giapponese e le sue vedute di Parigi, così come il confronto con le sue opere successive ad Arles e Saint-Rémy, si fa ancora più interessante. Il dipinto, realizzato nel 1886 durante il suo soggiorno a Parigi, incarna un momento di passaggio nell’evoluzione di Van Gogh, un periodo in cui cominciava a sperimentare con il colore e la composizione in modo radicalmente nuovo, influenzato dalle stampe giapponesi e dalle teorie dei contemporanei come Seurat e Signac. La collinetta di Montmartre, con la cava che sembra quasi emergere dalla terra, sembra quasi una metafora del processo che stava avvenendo nella mente dell'artista: la costruzione di una nuova visione del mondo attraverso una semplificazione delle forme e un uso più libero e vibrante del colore.
Il paesaggio, più che un semplice "vedere", è l'atto di trascrivere una visione interiore, e qui entrano in gioco le influenze giapponesi. Le linee nette e le forme stilizzate si riflettono nell'uso di un tratto deciso che evoca la precisione e l’immediatezza delle stampe giapponesi. Anche la luce, che nei paesaggi precedenti era filtrata da un senso di chiarore impressionista, qui diventa quasi una presenza visibile, come nei dipinti giapponesi in cui il contrasto tra luce e ombra è più netto e meno atmosferico.
A Montmartre, in particolare, Van Gogh si trovò a confrontarsi con una Parigi vivace e dinamica, dove gli artisti si scambiavano idee nuove e sguardi diversi sulla realtà. La colina di Montmartre, luogo di fermento artistico, venne per lui anche una sorta di “atelier all’aperto”: l’artista, pur mantenendo il suo stile personale, si confrontò con la realtà della città e delle sue contraddizioni. La cava, simbolo di un paesaggio che stava lentamente cambiando sotto la spinta dell’industrializzazione, è ritratta con pennellate che rivelano sia la bellezza che la durezza della terra, con un colore che diventa vibrante e onirico.
Anche in questo quadro, come nelle opere giapponesi che tanto ammirava, la separazione tra primo piano e sfondo si dissolve in un ritmo visivo che unisce la superficie al fondo. Il movimento della natura, delle rocce e dei colori, si fa quasi una danza visiva, come un'onda che travolge l'osservatore. Non sorprende quindi che il tema della transitorietà del paesaggio, molto caro alla filosofia giapponese, entri in gioco anche in queste opere parigine, dove ogni pennellata, pur nella sua apparente semplicità, nasconde una riflessione profonda sull’effimero della realtà.
E da Montmartre, il passo verso Arles e Saint-Rémy appare naturale, come se queste colline parigine avessero già cominciato a trasformarsi nella visione che Van Gogh avrebbe poi esplorato nel sud della Francia. Le colline che dipinse a Parigi non sono poi così lontane dalle colline dorate e turbinose di Arles, che, pur mantenendo una forza intrinseca, diventeranno il luogo dell’espressione pittorica pura, dove Van Gogh potrà finalmente esprimere, liberamente e senza più remore, la sua anima travagliata e la sua ricerca di bellezza.
In questo passaggio, la forza della natura che vediamo nel dipinto di Montmartre si trasforma: i campi di grano e le spirali di "Notte stellata" continuano a rivelare la stessa passione per il mondo che ci circonda, ma con una prospettiva sempre più intensa e personale. Il contrasto tra il paesaggio naturale e la psiche dell'artista diventa più drammatico, ma anche più pieno di significato, proprio come l’influenza giapponese, che trasforma ogni elemento della natura in un’eco interiore.
Questa è l’evoluzione che Van Gogh vive e narra nel suo epistolario, dove la ricerca della bellezza e della purezza artistica si trasforma in un processo di auto-esplorazione: dalla Parigi vivace e influenzata dalla modernità alla quiete di Arles e Saint-Rémy, dove l'arte giapponese e la visione interiore si fondono in un linguaggio universale, capace di esprimere non solo il mondo esterno, ma anche l’anima tormentata dell’artista.