sabato 21 giugno 2025

L’illusione della presenza: tra ostentazione digitale e crisi dell’autenticità

Nella modernità digitale, l’esperienza dell’esistenza è stata progressivamente dislocata: dall’essere al sembrare, dalla sostanza alla superficie. È in questo slittamento che si manifesta una mutazione antropologica radicale, come già aveva intuito Guy Debord, quando descriveva la società dello spettacolo come una forma di alienazione generalizzata in cui « tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione ». L’essere umano contemporaneo non vive più la propria vita, ma la osserva nel momento stesso in cui la trasmette — è insieme soggetto e pubblico, autore e spettatore della propria messinscena. Egli non agisce più per costruire un senso, ma per essere accolto dentro un codice, un algoritmo, un flusso.

La formula insinuante del “puoi essere come loro” non è soltanto una strategia di mercato: è il mantra ideologico del nostro tempo. Non indica una possibilità, ma prescrive una direzione obbligata. Secondo Byung-Chul Han, la società odierna non reprime più: seduce. Non impone il silenzio: moltiplica le voci fino a renderle indistinguibili. L’individuo è così condotto a una prestazione continua di sé, in cui la libertà è paradossalmente esercitata nella forma dell’autosfruttamento. L’imperativo dell’esibizione si traveste da scelta, ma è un ricatto mascherato da desiderio. Chiunque non voglia mostrarsi, non esiste.

Il culto dell’apparenza, che si manifesta nella cultura dell’ostentazione, è divenuto una sorta di liturgia secolare. Ogni gesto, ogni oggetto, ogni esperienza deve essere documentata, filtrata, elevata a contenuto. Walter Benjamin scriveva che « l’aura » dell’opera d’arte si dissolve nella riproducibilità tecnica. Oggi, è la vita stessa a dissolversi: ogni frammento esperienziale è replicato, condiviso, venduto, consumato. Ciò che si perde, nel processo, è la possibilità di un’autenticità non strategica, di una presenza non performativa. Anche il dolore, la solitudine, il lutto diventano share, visualizzazioni, storytelling.

Baudrillard avrebbe parlato di iperrealtà: quel regime in cui i segni non rimandano più a nulla di reale, ma solo ad altri segni, in una catena che si autoalimenta. I corpi che vediamo, le vite che seguiamo, i successi che desideriamo, non sono copie della realtà: sono più reali del reale. Sono modelli senza originale. E chi osserva non è un passivo recettore, ma un devoto. La fede che nutriamo in queste immagini è più cieca e totalizzante di qualsiasi credo religioso, perché non ha dogmi espliciti da contestare: ha solo un desiderio diffuso da inseguire. Si tratta di una religione senza trascendenza, il cui unico paradiso è l’immagine di un’altra vita a cui non si parteciperà mai.

Il paradosso tragico è che, mentre l’economia reale si sgretola per molti, l’immaginario collettivo si gonfia di promesse irrealizzabili. L’individuo che “segue” queste figure di successo non è un illuso, ma un escluso che ancora non sa di esserlo. Hannah Arendt ci ha insegnato che la condizione totalitaria nasce non solo dalla repressione, ma dalla solitudine strutturale dell’individuo isolato dalla realtà e dagli altri. Anche qui la solitudine è fondamentale: si è soli davanti allo schermo, soli nel desiderio, soli nella frustrazione. Ma questa solitudine è camuffata da connessione, da interazione, da community: è una solitudine che si maschera da festa.

La mendicanza contemporanea non è più fisica, ma simbolica. Non si manifesta più nel gesto di tendere la mano, ma nell’offrire la propria immagine, la propria intimità, nella speranza di ricevere in cambio un riconoscimento. Si cerca uno sguardo, ma si riceve un algoritmo. Non c’è reciprocità, non c’è scambio umano: solo iterazione meccanica di bisogni, valutazioni, metriche. La solitudine si fa partecipata, la fame si fa intrattenimento. Il like, in questo senso, non è un segno d’affetto, ma l’equivalente di una moneta lanciata a un mendicante digitale. Ma il mendicante non sa di esserlo: crede di essere protagonista.

E tuttavia, come ha sottolineato Theodor Adorno, il compito del pensiero critico è quello di non cedere al cinismo né alla disperazione. Bisogna saper nominare l’alienazione, per non esserne del tutto assorbiti. Nella frattura tra ciò che si è e ciò che si è costretti a sembrare, sopravvive un margine di disobbedienza silenziosa. Un’ombra che non si lascia catturare. È nella consapevolezza di questa faglia che può sorgere una nuova forma di attenzione: non più quella che cerca lo spettacolo, ma quella che sopporta l’opacità dell’altro. Che accetta il limite, la mancanza, il non detto. La verità come imperfezione, non come performance.

Questa è forse la resistenza più radicale oggi possibile: non sottrarsi al mondo, ma rifiutare di coincidere con l’immagine che il mondo impone. Coltivare uno spazio interiore non monetizzabile, una zona franca dell’essere. Come suggerisce Foucault, non è necessario immaginare nuovi poteri, ma nuove forme di soggettività. Nuovi modi di essere che non si lascino ridurre a profili, trend, prestazioni. Nuovi corpi che non siano soltanto superfici da illuminare, ma soglie da abitare.

Solo allora, forse, si potrà tornare a guardare senza desiderare di essere altro. Solo allora sarà possibile non mostrarsi per esistere, ma esistere anche nel nascondimento. Solo allora, nella notte della trasparenza, tornerà a brillare — timida, fragile, ma reale — una scintilla di libertà.