Tra le molte riflessioni teoriche sorte nel secondo Novecento sul rapporto tra cinema e altre arti, quella di Peter Wollen si distingue per la sua capacità di ampliare l’orizzonte interpretativo dell’esperienza cinematografica, collocandola in uno spazio concettuale ibrido, al confine tra le arti visive, la letteratura e soprattutto l’architettura. Quando Wollen suggerisce che i film siano, in un certo senso, "pezzi d’architettura", non propone una semplice metafora: apre una prospettiva radicale sull’essenza del cinema come arte spaziale e strutturale, e non soltanto come sequenza narrativa o superficie visuale.
Questo breve testo si propone di esplorare l’affermazione di Wollen, rintracciandone le origini teoriche, i punti di contatto con altri studiosi e cineasti (da Ejzenštejn a Godard, da Deleuze a Antonioni), e illustrandone le implicazioni attraverso esempi concreti tratti dalla storia del cinema. Si tenterà inoltre di mostrare come questa idea possa condurre a una riconsiderazione più ampia dell’opera filmica come costruzione esperienziale, capace di plasmare la percezione e l’orientamento dello spettatore nello spazio e nel tempo.
Peter Wollen (1938–2019) è noto soprattutto per il suo saggio "Signs and Meaning in the Cinema" (1969), in cui introduce strumenti strutturalisti e semiotici nell’analisi filmica, segnando un punto di svolta nella teoria cinematografica anglofona. Il suo approccio è fortemente influenzato dalle scienze umane francesi (Barthes, Lévi-Strauss, Lacan), e si inserisce in un momento in cui il cinema viene studiato non più solo come mezzo di intrattenimento o narrazione, ma come sistema complesso di segni e costruzioni. Tuttavia, già nei suoi scritti successivi, Wollen si emancipa dallo strutturalismo più rigido e si apre a una riflessione più fluida, in dialogo con l’arte contemporanea, la performance e, appunto, l’architettura.
La proposta di vedere il film come una forma architettonica si inserisce in questa seconda fase. Non è solo una suggestione retorica, ma una vera e propria teoria del cinema come ambiente: un luogo tridimensionale (almeno sul piano percettivo), organizzato secondo logiche di spazialità, attraversabilità, orientamento.
La relazione tra cinema e architettura non è nuova. Fin dai primi decenni del Novecento, architetti e cineasti hanno avvertito una forte affinità tra le due discipline. Basti pensare alla fascinazione del Bauhaus per il movimento filmico, o ai progetti cinematografici visionari di architetti come Le Corbusier, che vedeva il film come uno strumento per trasmettere il senso dello spazio moderno. Ma anche registi come Fritz Lang (in "Metropolis") o Jacques Tati (in "Playtime") hanno utilizzato lo spazio architettonico come materiale espressivo e concettuale, facendone spesso un personaggio autonomo.
Per Wollen, tuttavia, l’analogia va più in profondità. Egli non si limita a notare la presenza dell’architettura nel film, o la sua funzione scenografica. Vuole mostrare come il film stesso – nella sua struttura interna, nel suo modo di costruire relazioni – sia architettonico. Il montaggio non è solo successione temporale, ma articolazione spaziale. La regia non è solo organizzazione narrativa, ma progettazione di percorsi percettivi. La scenografia non è solo decorazione, ma organizzazione simbolica dello spazio.
Uno dei riferimenti teorici fondamentali per questa idea è Sergei Ejzenštejn. Il grande teorico e regista sovietico, nei suoi scritti degli anni '30, parla del montaggio come di una "forma dinamica", capace di modellare lo spazio mentale dello spettatore. In particolare, nel suo saggio sull’architettura del Partenone, Ejzenštejn analizza il modo in cui l’edificio guida il movimento del corpo e dello sguardo: la successione delle colonne, la variazione delle proporzioni, l’invito alla percorrenza. Egli propone di applicare lo stesso principio al cinema: il film come sequenza di volumi, di pieni e di vuoti, di tensioni visive che agiscono sullo spettatore non solo come messaggi, ma come forze.
Wollen riprende implicitamente questa lezione, ma la estende al contesto postmoderno, dove il film non è più solo rappresentazione ideologica (come in Ejzenštejn), ma campo aperto, luogo in cui convivono forme diverse di temporalità e spazialità. Il cinema diventa così non più soltanto arte del tempo, ma anche – e soprattutto – arte dello spazio vissuto.
Quando Wollen parla di cinema come architettura, introduce una dimensione esperienziale. Lo spettatore non è più un semplice osservatore, ma un visitatore di uno spazio complesso, stratificato. Come in un edificio, ci sono direzioni preferenziali, punti di fuga, zone d’ombra, percorsi obbligati o deviazioni possibili. L’esperienza del film somiglia così all’esperienza della città, o di un museo, o di una casa: luoghi da attraversare, abitare, ricordare.
Questa visione si riflette anche nella struttura di alcuni film sperimentali (come quelli di Chantal Akerman, Michael Snow o Peter Greenaway), che costruiscono veri e propri ambienti filmici, in cui lo spettatore si muove idealmente, spesso senza una trama lineare ma seguendo una logica di esplorazione.
Ma l’analogia con l’architettura non si ferma al livello percettivo. Come l’architettura, anche il cinema costruisce significati attraverso l’organizzazione dello spazio. Gli ambienti filmici non sono mai neutrali: riflettono, esprimono, trasmettono tensioni ideologiche, desideri, paure. La casa borghese nei film di Hitchcock, i corridoi labirintici in Kubrick, i non-luoghi in Antonioni: tutti questi esempi mostrano come lo spazio filmico sia anche spazio mentale, sociale, psichico.
Wollen è interessato proprio a questo: al modo in cui il film costruisce una geografia dell’inconscio collettivo. La macchina da presa diventa così un architetto simbolico, capace di rendere visibili – attraverso la forma – le strutture nascoste del potere, del desiderio, della memoria.
L’idea del film come architettura ha anche implicazioni politiche. Se accettiamo che ogni spazio è ideologico – come affermano teorici come Henri Lefebvre o Michel Foucault – allora anche lo spazio filmico lo è. I film non mostrano solo ambienti: li costruiscono, li impongono, li rendono familiari o inquietanti. In questo senso, l’atto di fare cinema è anche un atto di progettazione sociale.
Wollen, nel suo lavoro di cineasta con Laura Mulvey ("Riddles of the Sphinx", 1977), mette in pratica questa idea: costruisce un film che è un vero e proprio labirinto visivo, fatto di piani sequenza circolari, di immagini che si avvolgono su sé stesse, in cui lo spettatore perde i punti di riferimento abituali. È un modo per mettere in crisi lo sguardo dominante, per proporre una nuova architettura dello sguardo.
L’idea di Wollen ci invita a ripensare radicalmente l’esperienza del cinema. Non più soltanto narrazione, ma ambiente. Non più successione di immagini, ma costruzione di spazi. Non più spettatori passivi, ma abitanti temporanei di una struttura sensibile.
In questo senso, i film non sono solo rappresentazioni, ma luoghi. Luoghi della mente e del corpo, luoghi che ci trasformano mentre li attraversiamo. Come l’architettura, il cinema costruisce mondi. E come ogni buona architettura, il buon cinema ci invita non solo a guardare, ma ad abitare.
La proposta di Wollen, in definitiva, ci consegna un cinema più complesso, più profondo, più stratificato. Un cinema che non si limita a raccontare, ma che progetta. E che, come ogni architettura significativa, lascia in chi lo attraversa la memoria indelebile di uno spazio vissuto.