sabato 28 giugno 2025

“A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar” — Storia di un titolo, di una dedica, di un'epifania drag

Per molti, è solo un titolo bizzarro. Una frase che sembra uscita da un biglietto d’auguri trovato in fondo a una valigia rosa shocking. E in un certo senso è proprio così. Ma chiunque abbia visto A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar sa che quel titolo non è solo un orpello stilistico, non è un gioco. È un talismano.

Il film esce nel 1995. In Italia arriva con lo stesso titolo, coraggiosamente non tradotto, a conferma del suo statuto cult già in nuce. Tre drag queen – Noxeema Jackson (Wesley Snipes), Vida Boheme (Patrick Swayze) e Chi Chi Rodriguez (John Leguizamo) – vincono una tappa del concorso “Miss Drag Queen of America” e si imbarcano in un viaggio attraverso l’America rurale, a bordo di una Cadillac decappottabile. Sulla plancia della macchina, incorniciata come un’icona sacra, viaggia con loro una fotografia in bianco e nero. Un’immagine che le accompagna e le protegge: Julie Newmar, l’originale Catwoman, sorridente e regale, con una dedica scritta a mano: “To Wong Foo, thanks for everything! Julie Newmar.”

È da quella foto, reale e misteriosa, che nasce tutto.

Negli anni ’80 a Hollywood, in un angolo che oggi è stato inghiottito dalla gentrificazione e dai locali vegani con nomi in minuscolo, c’era un ristorante cinese chiamato China Bowl. Nulla di eccezionale all’apparenza. Tovaglie sintetiche, menù plastificato, zuppa agropiccante servita in ciotole che avevano conosciuto tempi migliori. Ma chi lo frequentava sapeva che il vero tesoro non era nel piatto: erano le pareti.

Il proprietario, un uomo cordiale e riservato di nome Wong Foo, aveva tappezzato il suo ristorante di fotografie. Erano scatti di celebrità passate a cena lì, sorridenti, a volte un po’ brillanti, tutte firmate con dediche affettuose. C’erano attori, cantanti, comici, ballerine di varietà, perfino un ex campione di bowling. E poi c’era lei: Julie Newmar. Alta, eterea, un corpo allungato come una nota jazz. Nella sua foto, si leggeva quella frase: “To Wong Foo, thanks for everything! Julie Newmar.”

Era una dedica semplice, quasi automatica, come se Julie avesse firmato senza pensarci troppo. E invece, col tempo, quella frase avrebbe assunto un’aura quasi profetica.

Quando il ristorante China Bowl iniziò a perdere smalto – complice il cambiare dei gusti, dei quartieri e dei destini – Wong Foo sapeva che prima o poi avrebbe dovuto chiudere. Nessuno si accorse del momento esatto in cui le tende si abbassarono per l’ultima volta, ma qualcuno aveva messo gli occhi su una delle sue pareti. Quel qualcuno era Douglas Carter Beane, drammaturgo e sceneggiatore newyorkese, che un giorno, forse per caso o forse perché il destino è bravo a scegliere i suoi attori, vide quella foto e rimase fulminato.

Beane, all’epoca, stava scrivendo una sceneggiatura ispirata al mondo delle drag queen americane, ma voleva farne qualcosa di diverso dai soliti stereotipi. Non solo paillettes e battute da cabaret: un racconto epico, malinconico e trasgressivamente tenero. Vide nella dedica di Julie Newmar qualcosa di profondamente queer, benché la parola non fosse ancora entrata nel linguaggio corrente. Una frase che sembrava dire tutto e nulla, come un mantra da appendere al cruscotto dell’anima.

Così chiese al proprietario del locale se poteva usare quella fotografia, quella dedica, come chiave d’accesso per il suo film. Wong Foo, si racconta, sorrise e annuì. E così, in un gesto semplice, quasi invisibile, fu consegnato alla storia uno dei titoli più assurdi e poetici del cinema americano.

Il titolo era deciso, ma mancava ancora il permesso. Julie Newmar – classe 1933, figlia di un inventore e di una ballerina, attrice dalle linee perfette e dallo sguardo di porcellana – doveva dare il consenso all’uso della sua immagine. Le alternative non mancavano. Si era pensato, tra le altre, a Carol Lynley, attrice bionda dallo charme più dimesso, meno esplosivo, più dolce che selvaggio. Ma sarebbe stato un film diverso. Sarebbe mancata quella nota surreale, quella regalità rétro, quel senso di eternità che solo Julie sapeva trasmettere anche con una sola foto.

Quando le fu proposto di partecipare al film, Julie non solo accettò con entusiasmo, ma volle interpretare se stessa. Apparve nel finale del film, come una visione, una dea numinosa che incorona Chi Chi Rodriguez con uno sguardo che è insieme benedizione e incoraggiamento. È un momento quasi mistico: la Newmar non è solo un personaggio, ma una presenza sacra che sancisce la legittimità del viaggio, la sua necessità, la sua bellezza.

Non è un caso se nel film non si spiega mai chi sia veramente Wong Foo. Il suo nome resta avvolto nel mistero. Non si vede mai, non si parla mai con lui. Eppure è lì, ovunque. Come un’energia benefica. Come un’ombra leggera dietro le azioni delle protagoniste. Come un benefattore invisibile.

Ma cosa racconta davvero A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar? Non è solo un road movie. È un pellegrinaggio queer, un’odissea drag nel cuore dell’America più profonda, quella dei benzinai coi baffi e delle camicie a quadri. È un film che sceglie di non parlare apertamente di omosessualità, eppure la porta ovunque – nei gesti, nei vestiti, nei sorrisi delle tre protagoniste.

Vida Boheme (Patrick Swayze) è la madre nobile, composta, quasi vittoriana nel portamento. Noxeema Jackson (Wesley Snipes) è l’ironia fatta persona, tutta occhi roteanti e battute affilate. Chi Chi Rodriguez (John Leguizamo) è la più giovane, l’anima ancora ferita che cerca approvazione e riscatto. Insieme rappresentano non solo archetipi, ma variazioni sull’identità.

La loro Cadillac rossa – sgangherata, glitterata, improbabile – diventa la nave Argo delle drag queen. Sulla plancia, quella foto continua a brillare come un’icona. Non è solo decorazione: è un oracolo silenzioso. Una promessa. Un obiettivo da raggiungere. O forse una benedizione già ricevuta.

Il film prende il via da New York, attraversa il Kansas e finisce in un paesino inventato, Snydersville, dove il trio cambia per sempre la vita degli abitanti. Non c’è nulla di realistico nella trama, eppure tutto è profondamente vero: la paura del diverso, il potere trasformativo del travestimento, la possibilità di riscrivere la propria storia attraverso la gentilezza, la bellezza, e un tocco di eyeliner.

Man mano che il film avanza, la fotografia di Julie Newmar diventa una presenza sempre più simbolica. È la Madonna nera sul cruscotto di un camionista. È la bandiera sulla luna. È la Polaroid nella tasca di un fuggiasco. Il suo valore non è solo affettivo: è liturgico. È la prova che anche il mondo glamour – quello delle dive irraggiungibili, delle icone camp, delle donne che hanno fatto del proprio corpo una dichiarazione d’intenti – può diventare alleato, complice, madre spirituale.

Nel finale, quando le tre regine giungono finalmente alla loro destinazione, è Julie stessa a chiudere il cerchio. Appare come un’apparizione in un altro regno, una sorta di Olimpo travestito da backstage. Indossa un abito da dea e incorona Chi Chi, la più fragile, la più insicura, la più umana delle tre. È un passaggio di scettro. È l’atto con cui una regina riconosce un’altra regina.

E quando Julie Newmar dice semplicemente “grazie”, tutto il film si ripiega su se stesso. La dedica del titolo diventa piena, densa, colma di significati. Grazie per tutto, dice. Ma quel tutto, dopo quasi due ore di film, non è più solo un gesto di cortesia: è il viaggio, il coraggio, la sorellanza, l’arte del trasformarsi, la capacità di portare bellezza là dove non si è mai pensato che potesse attecchire.

Uno dei paradossi più curiosi di A Wong Foo è che sia stato prodotto nel cuore degli anni Novanta da una major hollywoodiana, la Universal, con tre attori neri e latini in ruoli da drag queen, in un’America ancora diffidente verso tutto ciò che odorasse di queer, figuriamoci di travestitismo. Eppure, il film riuscì a parlare a un pubblico vastissimo, anche – forse soprattutto – a quello che non aveva mai messo piede in un locale drag.

Lo fece con grazia, con humour e con una malinconia sommessa che si insinua tra le pieghe della commedia. Perché A Wong Foo è un film gentile. Non ha il cinismo di Priscilla – La regina del deserto, a cui spesso viene paragonato. Non ha nemmeno il suo spirito punk. È, piuttosto, una parabola del rispetto. Della dolcezza. Del prendersi cura. Vida che insegna le buone maniere alle donne del paese, Noxeema che difende le ragazze dai mariti violenti, Chi Chi che impara finalmente a volersi bene: ognuna di loro diventa agente di trasformazione. E il paese – che all’inizio le guarda con sospetto – finisce per amarle.

La foto di Julie Newmar, in questo contesto, non è solo un pezzo di carta autografato: è un segno di benedizione. È come se dicesse: “Avete il mio permesso. Andate. Infiltratevi. Portate luce”. E loro lo fanno. Con i loro abiti esagerati, le piume, le parrucche, le scarpe inadatte alla polvere del Midwest. Ma soprattutto con la loro capacità di essere specchio: perché ogni donna di Snydersville si riconosce in loro.

Julie Newmar, nel frattempo, osserva tutto con quel sorriso tra il sornione e l’etereo. Anche fuori dal set. È come se sapesse, fin dall’inizio, di essere più di un cammeo. Lei – che aveva già attraversato i decenni della Hollywood più carnale, che era stata Catwoman nella serie di Batman, che si muoveva come un felino addestrato nei teatri e nei salotti – era l’incarnazione stessa della femminilità scenica.

Accettare di prestare la propria immagine a un film così significava fare coming out come icona queer. Non che le importasse. Julie è sempre stata avanti. Quando parlava di sé, lo faceva come una figura mitica. Diceva cose tipo: “Le mie gambe non sono state assicurate. Perché? Perché non si possono assicurare le sculture”. E lo diceva con serietà.

Nel film, quando appare, è vestita d’oro. Un vestito aderente, futurista, con una forma che sfida la biologia. Si muove a rallentatore, come se venisse da un’altra dimensione. E probabilmente è così. È la Musa. È la stella polare. È la promessa che esiste un luogo dove essere se stesse è non solo possibile, ma glorioso.

Ripensando a quella dedica – “A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar” – si coglie la sua assurdità sublime. È una frase fuori dal tempo, come incisa su una reliquia di un culto sconosciuto. Perché mai Julie Newmar avrebbe dovuto ringraziare Wong Foo, un ristoratore cinese di Hollywood? Cosa le aveva dato? Un piatto di noodles? Un sorriso? Un tavolo d’angolo con vista sulla Sunset Boulevard?

Eppure, quella frase – secca, lapidaria, non spiegata – è diventata titolo, mantra, sigillo. È la chiave del film: un grazie lanciato nel vento, come si ringrazia un dio laico per aver acceso una scintilla. È quel tipo di “grazie” che si dice solo quando si è molto giovani, molto innamorati o molto saggi.

Il produttore del film, Steven Tisch, avrebbe potuto scegliere qualsiasi altra frase, qualsiasi altro nome. Ma fu quella fotografia appesa nel ristorante ormai in disarmo a suggerirgli tutto. Il ristorante si chiamava China Bowl, e Wong Foo era il proprietario – uno di quei personaggi silenziosi che popolano il sottobosco delle celebrità, sempre un passo indietro, ma fondamentali nel tessuto mitologico di una città come Los Angeles.

Quando Tisch entrò nel locale, forse cercava solo un pasto veloce. Ma se ne uscì con un’idea. Vide la foto, lesse la dedica, e intuì che c’era lì dentro qualcosa che nessuno avrebbe potuto inventare. Non fiction, ma favola. E come ogni favola, aveva bisogno di una regina da salvare, di una missione da compiere e di un finale con abiti scintillanti.

Julie Newmar, da parte sua, non esitò un istante. Disse sì. Non solo con grazia, ma con entusiasmo. Come se stesse aspettando da anni di vedersi trasformata in talismano.

Cosa resta oggi, trent’anni dopo, di quel film così improbabile e necessario?

Resta una lezione semplice ma incandescente: non si cambia il mondo con le prediche, ma con il trucco ben steso, con la parola gentile, con il coraggio di sedersi a un tavolo dove nessuno ti vuole. Le tre regine di A Wong Foo non sono eroine perché combattono: lo sono perché amano. E amare, in certi contesti, è l’atto più rivoluzionario di tutti.

Resta anche il ricordo di un’America che sapeva sorprendere. Un’America dove tre drag queen nere e latine potevano viaggiare su una Cadillac rossa, distribuire bellezza e ricevere in cambio qualcosa di preziosissimo: ascolto. In quel viaggio c’era tutta la forza della queer culture, non più marginale ma centrale, capace di penetrare nella fibra della narrazione popolare senza perdere la sua verità.

E infine, resta lei. Julie. La statua vivente. La musa inconsapevole. L’immagine sulla foto, incorniciata da una calligrafia elegante e un punto esclamativo: Grazie di tutto!
E noi, a distanza di anni, possiamo solo rispondere: Grazie a te.