Poi, un giorno, consegnò tutto a Tony Ingrassia. “Ecco qua,” gli disse. “Vedi se riesci a tirarne fuori un’opera teatrale.” Tony, regista dell’underground teatrale, guru del camp senza freni, accolse la sfida come un atto iniziatico. Lo affiancarono Jaime DeCarlo Lotts, Tony Zanetta e un ragazzo dai tratti morbidi e dalla voce già scorticata: Harvey Fierstein, sedici anni, già drag queen, già consapevole che travestirsi era meno una maschera che un’esposizione integrale. “Andy pensava che Tony fosse perfetto per questo progetto,” avrebbe raccontato poi Fierstein in un’intervista. “Gli diede tutti quei nastri, veri e propri relitti galleggianti della coscienza della Factory, e gli disse: fanne qualcosa. Lui non li trascrisse. Li ascoltò come si ascoltano le voci degli spiriti. E ne fece Pork.”
Lo spettacolo debuttò nel 1971 e fu subito scandalo, incanto, fastidio. Non si trattava di una pièce nel senso canonico del termine. Non c’era una trama lineare, né un arco narrativo. Era più simile a un delirio registrato e ricalcato su corpi vivi, carne che parlava, urlava, si truccava, si spogliava. Un catalogo esasperato di tic, ossessioni, meschinità e splendori marginali. Ogni personaggio era il riflesso distorto di qualcuno che esisteva davvero, e che magari stava seduto in platea a vedersi interpretato.
Brigid Polk, ad esempio, diventò Amanda Pork — caricatura teatrale della sua vera identità di "tape artist", regina delle iniezioni subcutanee e delle confessioni registrate. Il ruolo fu affidato a Cleve Roller, uomo, attore, performance vivente. La sua Amanda era una matrona eccessiva, isterica, carnale eppure spettrale, quasi un’eco della madre di Norman Bates riplasmata in chiave glam-punk. Viva, musa problematica di mille film di Warhol, apparve sotto mentite spoglie come Vulva Lips. Il nome — geniale, assurdo, pornograficamente poetico — non piacque affatto all’originale. Quando lo seppe, chiamò la Factory furibonda. Gridò al tradimento. Disse a Warhol e Morrissey: “Almeno Brigid è interpretata da una donna!”. Ma nessuno l’ascoltò. Nessuno si aspettava che la realtà avesse ancora diritto di parola.
Lo spettacolo fu un’apoteosi di corpi queer, identità che si contorcevano tra il detto e il non detto. Tra i personaggi più iconici, i “Gemelli Pepsodent” — due ragazzi nudi, impomatati, con i genitali spolverati di cipria pastello, come bambole di zucchero pronte a sciogliersi. Jayne County, che aveva fiuto per i dettagli scabrosi, dichiarò che si trattava di Jed Johnson, compagno silenzioso e devoto di Warhol, e del suo gemello Jay. La critica londinese ne fu affascinata e schifata insieme. “Sono identici solo nella loro nudità e nei loro attributi cipriati,” scrisse qualcuno. Ed era vero. Il punto, però, non era l’identità, ma l’eco deformata di un’identità che diventava farsa, costume, riflesso.
Lo spettacolo durava un’ora e mezza. O forse due. Nessuno lo sa con precisione, perché tutto si confondeva: il palco e la platea, la recitazione e la vita. Alcuni spettatori se ne andavano disgustati. Altri tornavano ogni sera, ipnotizzati da quell’orgia di parole e silenzi, da quell’eccesso diventato forma d’arte. Alcuni capirono subito che Pork non era solo uno scherzo, ma una liturgia del trauma contemporaneo, la prima vera celebrazione dell’identità come finzione consapevole. Uno spettacolo premonitore. In tempi in cui ancora la parola “queer” non era stata riabilitata, Pork mostrava corpi fluidi, maschi che erano madri, drag che erano bambini, adulti che si confessavano come adolescenti davanti a uno specchio.
E Harvey Fierstein? Rimase lì, in mezzo al caos, a osservare e assorbire. Era ancora troppo giovane per capire tutto, ma abbastanza lucido da intuire che quello era l’inizio. L’inizio di una carriera, ma anche di un modo nuovo di raccontare il mondo: a partire da sé, dalla voce rotta, dal trucco colato, dal desiderio inascoltato. Eppure vivo.
Pork oggi è ricordato come un episodio marginale, un esperimento. Ma la verità è che fu molto di più: un sismografo sociale, un rituale trash-sacrale che anticipò tutto — il teatro post-drammatico, la performance queer, il reality come forma narrativa, il culto della celebrità come pornografia dell’intimità. Warhol non inventò nulla. Ma vide tutto. E, con Pork, lo mise in scena.
Quando Fierstein salì sul palco in Pork, aveva appena sedici anni e nessuna intenzione di essere “discreto”. Era, come avrebbe detto più tardi con la sua voce cavernosa e strascicata, already all in drag and in trouble. La sua presenza nello spettacolo non fu un accidente, ma una necessità. Harvey non recitava una parte: era lui stesso un personaggio che il teatro ancora non sapeva come chiamare. Femmina? Maschio? Mostro? Diva? Bambino? Pork fu il primo spazio in cui quella confusione non era un errore da correggere, ma una verità da gridare — e da ridere.
Nel vortice della Factory, tra siringhe vuote, parrucche lucide e nastri magnetici, Fierstein imparò una lezione che avrebbe portato per tutta la vita: la marginalità non si subisce, si recita. E non si recita per fuggire: si recita per affermarsi. Il suo corpo, troppo basso, troppo grasso, troppo “non conforme” per il glamour dell’epoca, divenne un manifesto. E quel manifesto camminava, cantava, urlava battute infuocate, e soprattutto scriveva.
Dopo Pork, Fierstein cominciò a forgiare la sua lingua: un idioma teatrale ruvido, tenero, spudorato e profondamente politico. Torch Song Trilogy, che debuttò un decennio dopo, fu l’erede diretto di quel primo scossone. Non solo per il tema — l’omosessualità vissuta con orgoglio e dolore nel cuore dell’America reaganiana — ma per il tono: tragicomico, sopra le righe, “larger than life” ma capace di parlare con precisione chirurgica alla solitudine di chi guarda.
Pork gli aveva insegnato a non nascondersi dietro personaggi rassicuranti. Aveva già visto cosa significava essere interpretato da qualcun altro. Aveva assistito alla crudele allegria di Andy Warhol che dava a Viva il nome di Vulva Lips, che spogliava Brigid Polk e la trasformava in Amanda Pork, come in un sogno incestuoso di farsa e verità. Per questo, Fierstein — pur conservando l’ironia camp e lo spirito warholiano — scelse, nei suoi testi, di non deformare mai la verità interiore dei personaggi queer: li rese eccessivi, sì, ma non caricature. Li rese eroici nella loro quotidiana esposizione.
Eppure, Pork fu anche la sua palestra più estrema. Dove altro avrebbe potuto imparare così giovane che la nudità sul palco è più che fisica? Che il ridicolo può diventare potere, se usato con precisione? Che il travestimento non è negazione, ma affermazione moltiplicata? Pork gli offrì un battesimo del fuoco queer, molto prima che il teatro americano avesse parole o premi per descriverlo. Era ancora troppo presto per l’off-Broadway inclusivo, per la GLAAD, per RuPaul.
Lì, nell’ombra rosa del palco e nei corridoi luridi del Teatro La MaMa, Fierstein imparò che l’identità queer si scrive anche nella carne stanca, nel trucco che sbava, nella battuta che scivola sul silenzio ostile del pubblico. Imparò che ogni uscita di scena è una resurrezione.
Harvey Fierstein scrive Torch Song Trilogy tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80, in un’America ancora completamente disarmata davanti all’esplosione dell’identità gay come forza artistica e sociale. È l’epoca della disco, del Village, dei primi bagliori del movimento gay che si sta strutturando in lotta politica. Ma è anche, soprattutto, l’epoca del silenzio istituzionale e della vergogna diffusa.
Fierstein osa l’inaudito: non solo mettere in scena un protagonista apertamente gay, ma farlo vivere con la stessa complessità, lo stesso diritto al dolore e alla felicità, degli eroi etero di Broadway. Il suo Arnold Beckoff — drag queen ebrea, irriverente, malinconica e assolutamente umana — è una figura rivoluzionaria perché normale nella sua straordinarietà.
Torch Song Trilogy è strutturato in tre atti lunghi, che si susseguono come movimenti di un’opera lirica intima. Non c’è tragedia greca, non c’è camp eccessivo (anche se Fierstein non rinuncia mai al guizzo ironico e al tocco di piuma). Quello che c’è è un cuore queer esposto, vibrante, eppure saldo. Arnold ama, perde, desidera una famiglia, adotta un figlio, si scontra con la madre — una donna iperprotettiva e perplessa, interpretata dallo stesso Fierstein con una feroce tenerezza.
È uno dei primi esempi in cui il conflitto genitore-figlio nel mondo queer non viene liquidato con la fuga o con la tragedia, ma viene fatto vivere con lenti sfreganti: con dialoghi lunghi, spesso dolorosi, in cui il coming out non è una liberazione netta, ma un processo, una lacerazione che però può diventare ponte.
Il teatro americano — bianco, etero, dominante — si trova a dover accogliere qualcosa che non aveva previsto: un pubblico gay che vuole vedersi rappresentato non solo nei bar, nei locali, nei musical travestiti da allegria, ma in casa. Vuole una lingua per parlare d’amore, di perdita, di paternità e di lutto.
Fierstein offre tutto questo senza mai abdicare alla specificità queer. Non “normalizza” per piacere agli altri: rivendica la sua eccentricità come piena espressione umana. E il pubblico risponde: Torch Song Trilogy resta in scena per anni, viene poi portato sul grande schermo (con Fierstein stesso nel ruolo di Arnold) e diventa uno degli atti fondanti del nuovo teatro queer americano.
Insieme a opere come The Normal Heart di Larry Kramer e Angels in America di Tony Kushner, Torch Song Trilogy inaugura un nuovo modo di intendere il teatro queer: non più solo gesto scandaloso o estetica da avanguardia, ma atto di cura, di sopravvivenza, di affermazione familiare e civile.
Ma la vera eredità di Fierstein, e di Arnold, non sta solo nelle repliche e nei premi. Sta nella consapevolezza che la voce queer non deve più gridare per farsi sentire. Può anche sussurrare. Può restare seduta a tavola, accanto a una madre dubbiosa, a spiegare — una volta di più — perché amare un uomo non è una colpa.
Perché anche quella, oggi più che mai, è rivoluzione.
Quando Torch Song Trilogy debutta a New York nel 1982, in una versione estesa rispetto alle prove off-off-Broadway, la critica è spiazzata. Alcuni commentatori lodano l’onestà e l’ironia tagliente dell’opera, la sua capacità di parlare a chiunque abbia mai amato. Altri, pur riconoscendone il valore teatrale, faticano ad accettare il cuore esplicitamente gay del racconto come materia “seria”. Ma Fierstein — che interpreta Arnold sera dopo sera con una voce roca, impastata d’umanità e di glamour stanco — non chiede permessi. La sua scrittura è affilata, ma intima; graffia, ma consola.
Vinse due Tony Awards nel 1983: Miglior opera teatrale e Miglior attore protagonista. Ed è fondamentale sottolinearlo: in un’epoca in cui la sola presenza queer veniva tollerata solo se velata, camuffata o ridicolizzata, Fierstein trionfa senza maschere. È un drag performer, è apertamente omosessuale, e il suo personaggio — Arnold — non è né vittima né martire, ma un uomo che cerca amore e dignità.
L'adattamento cinematografico arriva nel 1988, diretto da Paul Bogart, con Fierstein ancora una volta nel ruolo di Arnold. Il film mantiene quasi intatta la struttura teatrale, dividendosi in tre segmenti: “International Stud”, “Fugue in a Nursery”, e “Widows and Children First!”. Il rischio era alto — trasformare un testo profondamente teatrale in un'opera cinematografica richiedeva delicatezza — ma l’intensità emotiva sopravvive alla trasposizione. Fierstein è affiancato da Anne Bancroft nel ruolo della madre, una presenza magnetica che regge lo scontro finale come un duello di anime.
La critica accolse il film in modo più tiepido rispetto all'opera teatrale: alcuni lo ritennero statico, troppo “parlato”, incapace di svincolarsi dalla sua origine scenica. Ma per la comunità queer il film fu un faro. In un momento in cui l’epidemia di AIDS stava devastando intere generazioni e la rappresentazione gay sullo schermo era ridotta a stereotipi o tragedie senza scampo, Torch Song Trilogy offriva qualcosa di rarissimo: una storia d'amore, di adozione, di tenerezza, e persino di riconciliazione familiare.
Dopo Torch Song Trilogy, Fierstein non si ritira. Anzi. Si moltiplica. La sua carriera si espande come voce politica e culturale. Scrive La Cage aux Folles per Broadway, adattando il film francese e creando un musical esplosivo, divertente, ma anche profondamente politico nel suo ritornello: “I am what I am” diventa un manifesto.
Negli anni successivi presta la sua voce roca e indimenticabile a personaggi iconici come Yao in Mulan, o Edna Turnblad in Hairspray (prima a Broadway, poi anche in una produzione televisiva). Ogni volta, Fierstein inserisce in quei ruoli la sua etica queer fatta di ironia e accoglienza, vulnerabilità e disobbedienza.
Nel 2003 è ancora protagonista assoluto con Hairspray, vincendo un altro Tony Award. Eppure, non smette mai di essere anche un testimone. Interviene pubblicamente nei dibattiti su matrimonio egualitario, diritti civili, visibilità queer nei media. La sua autobiografia I Was Better Last Night (2022) rivela un lato ancora più profondo: non solo l’attivista e l’artista, ma anche il bambino ebreo del Bronx, il giovane solitario che cercava un linguaggio in cui esistere, e l’adulto che ha trasformato quel bisogno in teatro.
L’eredità di Torch Song Trilogy e di Harvey Fierstein non sta solo nella forza pionieristica dell’opera, ma nella sua capacità di evolversi senza tradirsi. L’opera è stata riscritta, rivista, accorciata da Fierstein stesso nel 2017, per una nuova produzione diretta da Moisés Kaufman. E ancora una volta, il personaggio di Arnold è lì: testardo, dolente, pieno di humour, ma anche più maturo. L’opera, come il suo autore, si adatta al tempo — non per addolcirsi, ma per continuare a farsi specchio.
Fierstein ha sempre detto: “Io non volevo solo essere visibile. Volevo essere credibile. Volevo che credessero a noi”.
Con Torch Song Trilogy, ci è riuscito. E ci riesce ancora.
Parliamo ora del teatro queer americano attraverso un trittico essenziale, quasi liturgico: Torch Song Trilogy di Harvey Fierstein, Angels in America di Tony Kushner, e The Normal Heart di Larry Kramer. Tre opere diversissime per tono, struttura e poetica, eppure unite da un’urgenza comune: la necessità di narrare, in scena, l’esistenza queer come realtà concreta, politica, amorosa — e sopravvivente.
Torch Song Trilogy (1982): la resistenza dell’intimità
Fierstein scrive in un momento in cui la visibilità è già un atto di rottura. Torch Song Trilogy è il primo segmento del trittico e agisce come un canto di confidenza: la voce di Arnold è quella di chi chiede amore, ma anche diritto. Ambientato in un’epoca pre-AIDS, parla già di perdita, di affetti difficili da legittimare, di famiglie da ricostruire. Non è un’opera ideologica: è confessione, invocazione, cabaret e testamento. La sua rivoluzione è intima — ci fa sedere sul divano di un uomo gay che vuole amare con la stessa serietà con cui altri fanno la guerra. Non chiede pietà, ma comprensione. E la ottiene. Non per slogan, ma per umanità.
The Normal Heart (1985): la furia della denuncia
Tre anni dopo, Larry Kramer porta in scena The Normal Heart, lacerando il silenzio attorno all’AIDS con un urlo straziante. Qui la rabbia è al centro. Il protagonista Ned Weeks è un alter ego di Kramer: un intellettuale e attivista che si scontra con istituzioni, amici, amanti, persino con la propria comunità per far sentire la voce dei morenti. L’opera è febbrile, documentaria, e spesso volutamente scomoda. Dove Fierstein cerca abbracci, Kramer accende incendi. La sua è un’opera che denuncia l’omertà mediatica, l’omofobia politica, l’indifferenza sanitaria — e lo fa senza garbo, senza estetica, senza diplomazia. È una pietra scagliata contro il pubblico. E nel farlo, diventa indimenticabile.
Angels in America (1991-92): l’apocalisse poetica
E infine, con Tony Kushner, si entra nel sacrario. Angels in America è un’opera-mondo in due parti, un affresco teatrale che fonde realismo, sogno, storia e teologia in un’unica visione queer del mondo. Ambientata nel pieno dell’epidemia di AIDS, mescola vite private e collassi politici: Roy Cohn, personaggio storico e avvocato reazionario, convive sulla scena con un angelo caduto dal cielo, una donna mormone depressa e Prior Walter, l’uomo gay condannato alla malattia ma scelto come profeta.
Kushner scrive un’opera che, pur parlando di AIDS, non è solo sull’AIDS. È sul collasso delle certezze, sul fallimento dell’America reaganiana, sulla necessità di nuove forme di giustizia. La lingua è barocca, teatrale, dilatata — è Shakespeare con l’ACT UP in sottofondo. Dove Fierstein piange e Kramer urla, Kushner evoca e compone. Angels non consola, non accusa: trasfigura.
Tre modelli, tre linguaggi, una genealogia comune
Ciò che unisce queste opere non è solo il loro oggetto — l’esperienza queer americana — ma il loro coraggio di non ridursi. Nessuna di queste pièce chiede scusa per la propria voce. Ognuna elabora la tragedia a modo suo: Torch Song con la dolcezza, The Normal Heart con la furia, Angels in America con la visione profetica. E insieme, raccontano tre stagioni: la pre-AIDS e la ricerca di normalità (Torch Song), la crisi acuta e l’urgenza politica (Normal Heart), e infine la rielaborazione simbolica e metafisica (Angels). Come una trilogia sacra della coscienza queer.
Tutte e tre, infine, hanno avuto una seconda vita cinematografica o televisiva. Ma è in teatro che vibrano più forti. Perché lì si compie il loro miracolo: rendere il corpo queer non più invisibile, ma irriducibile.
Adesso proseguiamo, come se seguissimo il filo di una genealogia teatrale non interrotta ma trasformata, che da Fierstein, Kramer e Kushner si estende, mutando voce e pelle, fino alle provocazioni di Jeremy O. Harris, ai rituali spettacolari di Taylor Mac, e oltre. Se Torch Song Trilogy, The Normal Heart e Angels in America sono il cuore costitutivo del teatro queer statunitense, le opere dei loro eredi non ne sono la copia, ma la metamorfosi. Non più solo rappresentazione dell’identità: ma dissacrazione, performance, orgia semantica, liturgia queer.
Jeremy O. Harris: la pelle queer come palcoscenico
Con Slave Play (2018), Jeremy O. Harris irrompe come un corpo nero, queer e post-strutturalista nella scena teatrale americana, e lo fa con una violenza concettuale degna di Roy Cohn e una sensibilità ferita da Prior Walter. L'opera si svolge in un centro di terapia di coppia per persone interrazziali, in cui i personaggi inscenano fantasie sessuali basate sulla schiavitù. Il risultato è uno scardinamento teatrale dove sesso, potere, trauma e razza esplodono in un discorso vertiginoso — e la scena diventa spazio di scontro e confessione, mai di comfort.
Harris non vuole semplicemente raccontare un’identità queer: vuole decostruirla pubblicamente. Il suo teatro è figlio di Kushner nella sua ambizione intellettuale, e nipote di Kramer nella sua spietata urgenza di dire ciò che fa male. Ma in più, Harris aggiunge la consapevolezza post-internet, l’ironia colta, e una radicale apertura all’osceno come grammatica critica.
Taylor Mac: la drag come liturgia epica
Se Fierstein era il drag queen adolescente di Pork e Kushner faceva scendere un angelo sul malato, Taylor Mac fa di sé stesso un angelo queer, una sacerdotessa di un rituale laico e teatrale che celebra 246 anni di canzoni americane. Il suo progetto più monumentale, A 24-Decade History of Popular Music, è un’esperienza di 24 ore consecutive in cui il performer — in drag, glitter e ferite — ripercorre la storia dell’America dal punto di vista degli emarginati: schiavi, donne, queer, migranti.
Mac non rappresenta il queer: è queer, nel senso più radicale. Ogni gesto è performance, ogni canzone un atto politico, ogni ora trascorsa con il pubblico un sacramento queer. Come Fierstein, rivendica l’emotività. Come Kushner, trasfigura. Come Kramer, chiama alla mobilitazione. Ma a differenza di tutti, usa la durata come corpo stesso della lotta: resistere 24 ore insieme, nel canto e nel dolore, diventa rivoluzionario.
Una nuova grammatica queer per il teatro del futuro
Questi autori non stanno scrivendo una continuazione del teatro queer: ne stanno sabotando la grammatica per trovarne una nuova. Se i padri fondatori cercavano ancora legittimità e ascolto, le voci contemporanee vogliono disintegrare le cornici, confondere il pubblico, sciogliere le identità nella performance stessa. Il queer non è più solo tematica, ma linguaggio, forma, procedura.
In questa linea evolutiva, possiamo anche inserire opere ibride come A Strange Loop di Michael R. Jackson, che fa del musical un labirinto psicologico metanarrativo, o i testi poetici e performativi di Danez Smith e Alok Vaid-Menon, dove il teatro incontra la spoken word e il gender diventa flusso.
Ma tutte queste esperienze conservano nel loro DNA le tre madri/padri queer della scena americana: Arnold, Ned, Prior. I loro fantasmi, le loro paure, il loro amore non normato continuano a vivere — mutati, amplificati, riscritti. E ogni volta che una drag queen sale sul palco non per intrattenere ma per evocare, ogni volta che una relazione gay o trans o non-binaria viene messa in scena non per spiegarsi ma per esistere, la loro eredità si compie.
Procediamo con ordine: prima l’analisi approfondita di Slave Play e dell’universo rituale di Taylor Mac, poi il confronto trasatlantico con il teatro queer europeo, dalla mistica barocca di Olivier Py al disincanto politico di Milo Rau, fino alla drammaturgia affettiva di Falk Richter.
Jeremy O. Harris – Slave Play: il trauma come pornografia sociale
Slave Play è un testo che non può essere letto senza sentire il rumore dello schiaffo. È teatro scritto per ferire. Tre coppie interrazziali partecipano a un seminario di terapia sperimentale chiamato “Antebellum Sexual Performance Therapy”, in cui si mettono in scena fantasie sessuali ambientate nel Sud schiavista americano. L’ambientazione iniziale sembra quella di un dramma storico — un campo di cotone, una padrona bianca e il suo schiavo nero — ma ben presto il meccanismo narrativo si frantuma, e il pubblico scopre di trovarsi in una clinica contemporanea, dove la messa in scena della schiavitù è diventata metodo per indagare i traumi interiorizzati dalla cultura bianca e nera.
Il linguaggio di Harris è un mix tra pornografia e teoria postcoloniale. I dialoghi contengono riferimenti a Fanon, Judith Butler, Lacan, ma anche slang da app di incontri e pornografia interrazziale. L’effetto è vertiginoso: il pubblico è costretto a oscillare continuamente tra identificazione e repulsione. Non c’è spazio per la “tolleranza”, perché Slave Play non chiede comprensione: chiede resa. Chiede che i privilegi vengano messi a nudo e guardati come corpi.
L’identità queer in Slave Play non è mai idealizzata: è contraddittoria, ferita, attraversata da desideri “sbagliati”. Ma proprio per questo è autentica. Harris fa del sesso un campo di battaglia politico, e del teatro uno specchio deformante in cui nessuno può salvarsi dietro la neutralità.
Taylor Mac – A 24-Decade History of Popular Music: il teatro come trans-rituale queer
Se Harris affonda la lama nel trauma, Taylor Mac costruisce una cattedrale glitterata per cantarlo. In A 24-Decade History of Popular Music, Mac interpreta 246 anni di musica americana, una decade per ogni ora di spettacolo, da George Washington a Lady Gaga. Ma non è un jukebox storico: è una vera e propria performance liturgica queer, in cui la narrazione lineare viene distrutta e riassemblata attraverso costumi barocchi, interazioni col pubblico, confessioni personali, e una messa in scena che mescola teatro, drag, musica, storia e azione politica.
Il progetto è dichiaratamente utopico: creare una “nazione queer temporanea” attraverso il teatro. L’esperienza collettiva — stare insieme per 24 ore, cantare, ridere, piangere — diventa il cuore dell’opera. Mac usa la drag non come maschera, ma come forma di verità aumentata: ogni eccesso, ogni trucco colato, ogni stonatura volontaria è un atto di trasparenza emotiva.
Il tempo stesso viene queernizzato: non più lineare, ma ciclico, ritmico, corporeo. Le canzoni diventano strumenti di resistenza; i costumi, corazze e reliquie; il palco, un altare pagano e politicissimo. Se Fierstein chiedeva amore e accettazione, e Kushner la redenzione attraverso l’Angelo, Mac chiede partecipazione sacrificale. Il teatro non è rappresentazione, ma esperienza trasformativa.
Olivier Py, Falk Richter, Milo Rau – Il queer europeo tra mistica e disincanto
Olivier Py, regista, drammaturgo e poeta francese, rappresenta l’anima mistica e barocca del teatro queer europeo. Le sue opere, da Miss Knife ai grandi testi religiosi come Les Vainqueurs o Les Enfants de Saturne, fondono cristianesimo e travestitismo, fede e desiderio, con uno stile liturgico e flamboyant. Il suo queer è intriso di classicismo decadente e teologia profanata: la drag diventa preghiera, l’amore gay un cammino espiatorio. È un teatro visionario, dove l’estetica rimane profondamente teatrale, artificiale, eppure animata da una tensione assoluta verso la salvezza o la dannazione.
Falk Richter, tedesco, è invece l’anima analitica del queer europeo. Con testi come Small Town Boy o Fear, mette in scena corpi LGBTQ+ dislocati, fragili, sempre osservati, mai integrati. Il suo teatro è spesso accompagnato da danza e video: una drammaturgia post-identitaria, dove il queer è anche ansia, isolamento, fuga. Richter esplora il trauma queer contemporaneo: non più quello dell’epidemia, ma quello della precarietà affettiva, della performatività tossica, della sorveglianza sociale.
Milo Rau, infine, svizzero, è l’apice del documentarismo radicale. In opere come Five Easy Pieces o The Reenactment, porta sulla scena fatti realmente accaduti — abusi, crimini, genocidi — e li filtra attraverso corpi queer o marginali. La sua estetica è fredda, spietata, ma eticamente incendiaria. Il queer in Rau non è solo una forma sessuale, ma una posizione politica: mettere in crisi la norma, svelare l’ipocrisia dell’apparato teatrale, rivelare le ferite aperte della storia.
America vs Europa: due grammatiche queer a confronto
Il teatro queer americano è epico, affettivo, comunitario. Usa il palcoscenico come luogo di guarigione o di battaglia. Le emozioni sono dichiarate, le ferite mostrate, le identità celebrate o smascherate. Esiste ancora un’eco di confessione, una tensione verso il pubblico come interlocutore da conquistare o convertire.
Il teatro queer europeo è più concettuale, astratto, simbolico. Il queer diventa spesso filtro per esplorare altri temi: religione, capitalismo, trauma collettivo. C’è un maggiore uso della metateatralità e una tendenza al distacco brechtiano. L’identità non è mai fissa: è un vettore che attraversa lo spettacolo ma non ne è mai il fine.
In entrambi i casi, però, il queer non è più solo “contenuto”. È una forma. Un modo di scrivere, di recitare, di allestire, di entrare in relazione con lo spettatore. Il teatro queer del XXI secolo — che sia scritto a Brooklyn o a Berlino — è ormai una pratica poetico-politica che rifiuta di essere riassunta in etichette identitarie. Non rappresenta, ma disordina.
Entriamo nel punto più vulnerabile e politicissimo del queer performativo: da una parte il teatro documentario di Milo Rau, dove il queer agisce come detonatore etico nel corpo del reale; dall’altra la danza contemporanea europea, dove il corpo queer diventa spazio di metamorfosi, fantasma erotico, archivio somatico e rivoluzione sensuale. Procediamo con ordine.
Milo Rau: il queer come posizione etica nel teatro del reale
L'opera di Milo Rau si fonda su un paradosso: mettere in scena ciò che dovrebbe restare invisibile, ciò che fa male, ciò che l’arte spesso ignora per pudore o paura. E proprio nel rendere visibile l’osceno sociale — i traumi collettivi, gli abusi, i genocidi, l’infanzia violata — il queer emerge come lente critica e postura radicale.
Rau non mette mai al centro l’identità sessuale in senso stretto, ma le sue messe in scena sono intrinsecamente queer nel modo in cui sovvertono le gerarchie, disinnescano la narrazione patriarcale, e smantellano il rapporto canonico tra attore e ruolo, tra autore e spettatore, tra documento e finzione.
In Five Easy Pieces (2016), ad esempio, prende il caso Marc Dutroux — pedofilo e assassino seriale belga — e lo fa interpretare da attori bambini. È un dispositivo violentissimo, ma anche estremamente controllato: i bambini non recitano “il trauma” ma la struttura della rappresentazione del trauma. La loro innocenza agisce come strumento di analisi, e la messa in scena diventa un laboratorio etico. Qui il queer si manifesta nella rottura del codice binario innocenza/esperienza, proprio come nella pedagogia queer o nell’estetica camp: chi è spettatore e chi performer? Chi è vittima e chi autore?
In The Reenactment (2021), Rau porta sul palco un processo giudiziario legato al massacro di Bucha, facendone una performance dal vivo. Ma chi interpreta chi? Gli attori diventano testimoni, i testimoni diventano attori. L’identità diventa funzione, la funzione si sdoppia: è il cuore stesso della teoria performativa queer, incarnata nel documento vivo.
Nel teatro di Rau, quindi, il queer non è solo una categoria sessuale o estetica, ma una strategia politica dell’empatia instabile. Una forza che scardina, che disturba, che rifiuta la coerenza narrativa per restituire la verità come lacerazione.
Il corpo queer nella danza contemporanea europea: archivio, spettro, rituale
La danza contemporanea queer in Europa si è liberata ormai da tempo dalla rappresentazione mimetica della sessualità. Non si tratta più di mostrare corpi gay, trans, non binari, ma di ripensare il corpo stesso come zona fluida, relazionale, architettonica e temporale.
Xavier Le Roy, ex biologo molecolare, lavora su una “danza senza danza”: in opere come Self Unfinished o Product of Circumstances, il suo corpo maschile si deforma, si disarticola, si rifrange. A volte cammina come un animale, altre si piega come una macchina. È un corpo mutante, inclassificabile, che rifiuta ogni segno di genere. Il queer qui non è dichiarato, è inscritto nella performatività del non-umano: il corpo che non si lascia leggere, che sfugge alla riconoscibilità. La sua è una coreografia dell’ambiguità, un’ecologia queer del gesto.
François Chaignaud, invece, porta il corpo queer nel centro di una sensualità barocca e dissacrante. Insieme a Cecilia Bengolea ha creato opere in cui danza classica, voguing, danza giamaicana, canto liturgico e club culture si fondono in un unico flusso iper-erotico e iper-erudito. In Dumy Moyi o Romances Inciertos, Chaignaud appare spesso truccato, cantando dal vivo in falsetto, seminudo, con costumi tra il sacro e il fetish. Il corpo queer è qui icona e reliquia, un archivio vivente che incorpora e riscrive le genealogie della danza e della sessualità.
Gisèle Vienne, infine, lavora sul corpo come spettro. Le sue coreografie, spesso popolate da manichini e performer androgini, sono rituali sospesi, in cui il tempo è rallentato fino all’ipnosi. In Crowd (2017), ventiquattro giovani danzano come in un rave rallentato, attraversando emozioni impossibili da codificare: desiderio, panico, estasi, angoscia. Il queer qui è atmosferico: una nebbia di corpi che non vogliono essere decifrati, ma sentiti. Le pulsioni si muovono come onde, e la sessualità non ha forma ma pressione. Il corpo queer, in Vienne, è un territorio liminale, tra il virtuale e il sacro, tra l’intimo e il demoniaco.
Il corpo come campo queer
Milo Rau e la danza contemporanea europea condividono un'intuizione: che il queer oggi non si gioca tanto sulla rappresentazione, quanto sulla materialità del corpo e del gesto. Il queer non è più (solo) chi si ama, ma come ci si muove, come si abita il palco, come si destabilizza il linguaggio visivo.
Nel teatro documentario, il queer agisce come metodo critico, come linguaggio per dire il trauma e il potere senza addomesticarli. Nella danza, diventa strategia incarnata, un modo di rendere visibile ciò che è stato cancellato: il corpo come testo palinsesto, riscrittura, fantasma erotico.
Qui entriamo in un territorio intimo e sovversivo: la voce e il respiro, quegli elementi impalpabili eppure potentissimi che definiscono presenza, identità, vulnerabilità. E poi ci sposteremo nel digitale, là dove il corpo queer si reinventa tra pixel, filtri e streaming, divenendo avatar, glitch, cyborg desiderante. Procediamo con dolcezza e radicalità.
La voce e il respiro: il queer come presenza acustica
Nel teatro e nella danza queer, la voce è molto più di uno strumento espressivo: è un campo di tensione tra visibile e invisibile, tra ciò che il corpo mostra e ciò che il corpo dice, tra la carne e l’eco. La voce queer è spesso disallineata — troppo acuta, troppo grave, troppo spezzata — rispetto al genere attribuito. Proprio questa frizione produce un effetto di scarto, un corto circuito sensibile.
Penso a Taylor Mac, che usa la voce come una lama: canta con estensioni vocali che attraversano maschile e femminile, produce ronzii, sospiri, acuti stridenti, canta cabaret e lamenti. La sua voce non è mai "pura": è una carne sonora, fatta di sfregi e carezze. E quando prende il microfono, il corpo si dilata, l’identità diventa vibrazione.Nella danza contemporanea, François Chaignaud canta in latino medievale mentre balla semi-nudo, e la sua voce rompe la temporalità della scena: non è né uomo né donna, né monaco né drag queen, ma traccia sonora di un corpo degenere. Anche Gisèle Vienne lavora sul respiro come strumento di trance: in Crowd, i respiri amplificati diventano colonna sonora. Il respiro è testimone muto di un desiderio che non ha nome: gemito, tremore, apnea.Il queer vocale, dunque, è ciò che destabilizza l’identità attraverso il suono. Una voce trans, ad esempio, può usare il passaggio tra registri vocali non per mimetizzarsi, ma per abitare la frattura tra maschile e femminile, tra aspettativa e dissonanza. Il respiro, invece, è il ritmo della sopravvivenza: in scena, è il segnale che il corpo è vivo, che c'è, che resiste.
Cyberdrag, live streaming, avatar: il queer nell’era digitale
Se il corpo queer ha sempre abitato il margine, il glitch, il fuori norma, allora il digitale è il suo habitat naturale. Ma attenzione: il cyberspazio non è un’utopia neutra, è un campo di battaglia. E in questo campo, il queer ha trovato nuovi strumenti per sfidare la normatività e moltiplicare le possibilità identitarie.
Cyberdrag è una delle espressioni più audaci. Artisti come Sasha Velour o Dorian Electra usano il digitale per creare identità performative che non esistono nel mondo fisico. Il trucco è esagerato, i corpi post-prodotti, le identità fluide e moltiplicate. Nei loro videoclip o performance online, il corpo è alterato, aumentato, rifatto. Non è un travestimento, ma un’esplosione estetica dell’io. È drag come hackeraggio del reale.Nel mondo del live streaming, performer queer trovano uno spazio di intimità pubblica: dirette in cui si truccano, parlano, cantano, leggono, piangono. È un teatro dell’autenticità filtrata, dove l’artificio e la vulnerabilità convivono. Pensa a Alok Vaid-Menon, che usa Instagram e TikTok per monologhi poetici, sfilate improvvisate, confessioni intime: non è spettacolo, è esistenza incarnata. La tecnologia diventa protesi dell’anima queer.Gli avatar queer, infine, aprono il campo alla sperimentazione post-umana. Performer come Lu Yang o LaTurbo Avedon creano identità digitali non binarie, incorporee, fluttuanti. Sono icone post-gender, fantasmi glitchati, dee sintetiche. Nei videogiochi, nei mondi virtuali, negli NFT performativi, l’avatar queer è un desiderio che si codifica, un’identità che si progetta, un corpo impossibile che vive.
La voce, il respiro e il pixel come corpo queer esteso
Dal respiro amplificato di Gisèle Vienne al falsetto da sirena di Taylor Mac, dalla pelle sintetica di un avatar non binario fino al filtro drag di Instagram, il queer oggi si estende ben oltre il corpo biologico. La voce è già carne, il respiro è già coreografia, il pixel è già pelle.
La performatività queer non è una rappresentazione, è un processo di incarnazione continua. Una vibrazione tra l’essere e il voler essere. Una zona liminale dove la voce si fa dissonanza, il respiro si fa danza, e il corpo digitale diventa un rituale di autodeterminazione.
Entriamo allora in un territorio sacro e sanguinante: la figura dell’angelo queer, che nel teatro contemporaneo non è più messaggero divino, ma corpo ferito, androgino, testimone della catastrofe, presenza sovrannaturale e scandalosa. Dal cielo teatrale di Tony Kushner alle chiese post-industriali di Ron Athey, l’angelo queer non porta salvezza, ma rivela la verità incandescente del desiderio.
L’angelo queer in “Angels in America” di Tony Kushner
Nel capolavoro di Kushner, Angels in America (1991-1993), l’angelo è una creatura ibrida, al tempo stesso sublime e terrificante, che si manifesta a Prior Walter — un giovane gay malato di AIDS — come messaggera celeste e come corpo mostruoso. Non ha sesso, o meglio, li ha tutti. È una figura stanca, teatrale, esagerata: parla in versi, si manifesta in pose neoclassiche e barocche, e si schianta letteralmente sul letto del protagonista in un orgasmo di piume e apocalisse.
Questo angelo, però, non salva: chiede di smettere di cambiare. È una divinità conservatrice, che teme il moto della storia e invoca lo stallo. Prior, invece, la rifiuta. Vuole vivere, vuole desiderare, vuole che la storia continui. Ecco l’operazione queer di Kushner: dissacrare l’angelo, trasformarlo in un’icona kitsch e minacciosa, e infine superarlo. L’angelo è una soglia: si attraversa, si sfida, si lascia indietro per tornare più umani, più vivi, più queer.
Ron Athey: angeli queer tra dolore e rituale
Se l’angelo di Kushner è parola e visione, quello di Ron Athey è carne e sangue. Performer estremo, sopravvissuto all’AIDS, Athey mette in scena riti sacrificali dove il suo corpo diventa reliquia, stigmate, altare vivente. In lavori come Four Scenes in a Harsh Life o Deliverance, i suoi performer — spesso queer, sieropositivi, tatuati, androgini — appaiono come angeli dolorosi, trafitti, incoronati di spine, nudi e splendenti sotto luci sacre. Sono apparizioni.
L’angelo in Athey è queer perché non può essere incasellato: è maschile e femminile, santo e perverso, vittima e carnefice. Spesso sospeso, legato, penetrato, è un corpo offerto alla visione del pubblico in un atto che mescola catarsi e violenza. Il sangue è reale. La nudità non è erotica, ma liturgica. È un corpo che chiede di essere guardato con occhi nuovi, non per desiderarlo, ma per riconoscerlo come sacro.
Iconografia e spiritualità: il queer come rivelazione
In entrambi i casi — Kushner e Athey — l’angelo queer è una figura di rivelazione. Ma ciò che rivela non è la volontà di Dio: è la verità della carne. In scena, l’angelo smette di essere un simbolo teologico e diventa una domanda incarnata: cosa significa sopravvivere? desiderare? cambiare?.
Nel teatro queer contemporaneo, l’angelo è spesso attraversato da una tensione tra spiritualità e sessualità, tra sacro e profano. È una creatura che non chiede di essere capita, ma solo di essere vista. Un’apparizione che spaventa e commuove. Un ibrido che contesta l’ordine del mondo.
Verso un nuovo tipo di presenza: l’angelo come performer queer
Oggi, la figura dell’angelo queer ritorna in molte esperienze performative ibride: nei lavori di Taylor Mac, nei tableaux di Cassils, nelle apparizioni digitali di ORLAN o Sasha Velour. Le piume ci sono ancora, ma sono sintetiche. Le ali sono protesi, travestimenti, filtri AR. L’angelo è uno spazio transitorio, una proiezione collettiva, una memoria del trauma e una promessa di mutazione.
In fondo, l’angelo queer dice questo: non sono di questo mondo, ma porto con me la possibilità di un altro. Non uno superiore, ma uno più fragile, più sensibile, più radicalmente umano.
Entriamo adesso in un territorio dove il teatro queer si fa liturgia sovversiva, messa nera e rosario spezzato, e dove santi, diavoli e madonne non sono più entità spirituali trascendenti, ma manifestazioni incarnate del desiderio, del dolore e della rivolta. In questo spazio scenico, la religione non è un dogma, ma un vocabolario da profanare e riscrivere con corpi queer, in bilico tra l'estasi e la carne lacerata.
Santi queer: martiri del desiderio
Nel teatro queer contemporaneo, la figura del santo viene rivisitata come emblema di sofferenza, purezza sovversiva e resistenza del corpo. I santi queer non hanno aureole, ma cicatrici; non vengono adorati, ma guardati con desiderio e paura. Pensiamo alle messinscene di Justin Vivian Bond, dove il corpo transgender si offre come reliquia pop e al tempo stesso come san Sebastiano glitterato, trafitto da occhi giudicanti eppure glorioso nella propria nudità.
In Taylor Mac, la santità è carne carnevalesca: c'è qualcosa di sacrale nelle sue epifanie sceniche, dove ogni costume, ogni nota cantata è un atto d'amore e dissacrazione. La santità queer è non conforme, barocca, eccessiva, e proprio per questo ci interroga su quali corpi siamo disposti a venerare.
Diavoli queer: metamorfosi e potere
Il diavolo, nel teatro queer, non è tanto il male quanto la possibilità di un’alterità radicale. È il queer come alter ego demoniaco del patriarcato religioso. Nelle performance di Reza Abdoh, i diavoli non sono mostri: sono figure erotiche e anarchiche, sfuggenti e potentemente teatrali, che incarnano il lato oscuro della liberazione.
Il diavolo queer è anche corpo desiderante senza colpa, travestito, contaminato, liberato. Nelle opere di Milo Rau, la figura del male si dissolve nell’umano, in scene che non temono il sacrilego — anzi, lo usano come scandalo necessario per riattivare l’etica.
Madonne trasfigurate: sacro femminile queer
Nessuna figura è stata più riscritta dal teatro queer della Madonna. Dalla Virgin Mary di Ron Athey che allatta sangue, fino ai tableaux vivants di Joey Arias che evocano la pietà pop post-HIV, la madre di Dio è spogliata e rivestita, scomposta e glorificata in un gioco visivo che mescola porno, icone bizantine e moda haute couture.
Nel queer, la Madonna non consola: irrompe. È madre trans, donna queer, padrona del dolore. E come tale, è potente. La sua immagine viene usata per parlare di perdita, di generazioni che non hanno avuto una madre, o che sono state costrette a diventarlo per gli altri.
Trauma e memoria: l’archivio vivente del corpo queer
Da queste apparizioni sovrannaturali discendiamo nel corpo stesso del performer, che nella performance queer è archivio, cicatrice, mappa sensibile. Il trauma non è più raccontato: è agito. Nelle opere di Cassils, il corpo transgender è colpito, scolpito, messo alla prova in performance fisicamente estenuanti che parlano di violenza sistemica e resilienza senza eroismo.Nel teatro di Penny Arcade, la memoria queer è voce orale, racconto tagliente e feroce, spesso autobiografico, dove il trauma non è mai isolato, ma collettivo. Si piange e si ride, nello stesso tempo, di una memoria che ci attraversa tutti.
In Split Britches o Miguel Gutierrez, il trauma è anche linguaggio interrotto, gesto che si spezza, danza che non si compie mai fino in fondo. Il corpo queer è memoria del non detto, del proibito, dell’amato perduto, della comunità disgregata.
Corpi come reliquie vive
In tutto questo, il corpo queer è reliquia vivente, archivio che non può essere conservato in musei ma solo evocato nella presenza. Ogni performance è una veglia, una messa laica, una chiamata. Il teatro queer è dunque un luogo dove il trauma si fa presente, la memoria fisica, la divinità carne.
Ancora, allora, attraversando quel lutto che non è mai finito, ma che il teatro queer ha saputo trasformare in strategia di sopravvivenza, in rito collettivo, in resistenza incarnata. Nel teatro post-AIDS, il lutto non è mai solo dolore: è architettura dell’amore, militanza del corpo, liturgia della presenza. È memoria che non si lascia chiudere in un necrologio o in una commemorazione annuale, ma vaga viva sul palco, negli occhi di chi c’era, nella voce di chi racconta, nelle assenze che pesano più delle scenografie.
Lutto come forma performativa
Il teatro queer post-AIDS ha saputo rendere il lutto una grammatica scenica. Nei lavori di David Wojnarowicz, il dolore si fa urlo, collasso, collage verbale e visivo. In quelli di Karen Finley, la perdita viene rovesciata in eccesso, in una teatralità dove il corpo si fa contenitore rotto di memoria e disperazione. Il palco diventa altare, confessionale, camera ardente: lo spettatore è chiamato non a guardare, ma a vegliare.
L’opera seminale in questo senso è naturalmente The Normal Heart di Larry Kramer, con la sua furia instancabile, il suo bisogno di nominare, di accusare, di tenere vivi i morti. Ma è in The Inheritance di Matthew López che il lutto queer diventa eredità viva, filo genealogico interrotto e ricucito, lettera d’amore postuma a un’intera generazione di scomparsi.
La sopravvivenza queer come atto poetico
Sopravvivere, per il corpo queer, non è mai stato un fatto scontato. È un atto politico e poetico, una performance quotidiana che il teatro ha saputo assumere con forza e delicatezza. In Let the Record Show di Sarah Schulman (e prima ancora nell’attività di ACT UP, Gran Fury, Collective Silence=Death), la sopravvivenza diventa archivio vivo, testimonianza in movimento, bacio dato a chi non è più lì per riceverlo.
Nel lavoro di Tim Miller, l’amore gay sopravvissuto all’AIDS è un corpo che si ostina a ballare, raccontare, amare. Ogni gesto, ogni carezza scenica, ogni ricordo diventa restituzione simbolica, tentativo di rendere presente ciò che è stato rimosso.
Fantasmatico queer: i morti ci guardano
Il lutto queer nel teatro post-AIDS genera un fantasmatico politico e sentimentale. I morti non se ne sono andati davvero. Nelle parole di Tony Kushner, gli angeli non scendono solo dal cielo: sono i ragazzi amati che non ci sono più, gli amici perduti, i partner scomparsi. Sono ancora con noi, ci guardano dagli spalti del teatro invisibile, ci giudicano, ci proteggono, ci chiedono di non dimenticarli.
La scena queer, allora, è anche seduta spiritica, chorus dei trapassati, danza delle assenze. In Last Address di Ira Sachs, i luoghi dove gli artisti queer morti di AIDS hanno vissuto diventano punti di invocazione, mappe del desiderio e del ricordo.
Una pratica di comunità
Il teatro post-AIDS è anche il luogo dove si ricostruisce la comunità queer come organismo sopravvissuto. Non più identità individuali, ma corpi in ascolto, corpi in lutto che si riconoscono, che si portano l’un l’altro, che dicono “noi” là dove era stato imposto il silenzio. Le performance di Jack Ferver, María José Arjona, Dan Fishback esistono come spazi di cordoglio condiviso, ma anche di rigenerazione.
Oltre il lutto, la possibilità della gioia
E infine, la sopravvivenza queer si afferma come diritto alla gioia. Non come rimozione, ma come risposta affermativa al dolore. In molti artisti contemporanei — da Jesse Darling a Travis Alabanza, da Mika Rottenberg a La JohnJoseph — il lutto diventa materia da cui fiorisce un’estetica sfacciata, tenera, caotica e vitale. La gioia queer è lutto metabolizzato in ballo, silenzio convertito in canto, ferita che ride, ma non dimentica.
Affondiamo ora nel ventre di una delle strategie più sovversive e irresistibili del teatro queer: la comicità come arma contro la morte, la parodia come disinnesco della norma, il kitsch come estetica del riscatto. È un arsenale scintillante, impudico, colto e volgare insieme, che ha saputo ridere sul ciglio del baratro, trasformando il trauma in barzelletta col coltello, la vergogna in sberleffo sontuoso, la marginalità in teatro della gioia disarmante.
Il riso queer: risata che morde, che cura, che disfa
Nel teatro queer, la risata non è mai neutra. È risata contaminata, ridere con le lacrime agli occhi, ghigno e liberazione. L’umorismo queer è quello di chi conosce l’esclusione, ma si rifiuta di rimanerne prigioniero. È quello di Charles Ludlam e del suo Ridiculous Theatrical Company, dove le convenzioni del teatro classico vengono smontate a colpi di travestimenti, travisamenti, esagerazioni barocche e giochi identitari infiniti. Come diceva lo stesso Ludlam: "La tragedia è faticosa. La farsa è più onesta."
Lì dove l’AIDS falciava, la comicità diventava ancora più feroce e necessaria. Leigh Bowery, Jackie Curtis, Ethyl Eichelberger: performer che hanno saputo far ridere con il corpo che cadeva a pezzi, trasformando la decadenza in opera lirica, il dolore in macchietta, la morte in paillettes e vomito sacro.
La parodia come sabotaggio
Nel teatro queer, la parodia è uno strumento di disidentificazione. Si mima il potere per smascherarlo, si imitano le icone per devastarne la facciata, si prende la cultura dominante e la si rivolta come un guanto di lattice nero. Pensiamo al lavoro di Taylor Mac, che nei suoi 24 Decade History of Popular Music rifà la storia americana in drag, canto e sudore, trasformando ogni decade in orgia filopolitica e post-patriottica.
Oppure a Split Britches di Lois Weaver e Peggy Shaw, dove la parodia è lesbica, vulnerabile, genitale e intellettuale insieme. O ancora, agli spettacoli di Paul Preciado, dove il dispositivo teatrale si fa lezione performativa che deride le architetture dell’identità.
Il kitsch come arsenale queer
Il kitsch, per il teatro queer, è un atto d’amore verso l’eccesso. È l’abito sbagliato nel corpo giusto, l’emozione fuori scala, la decorazione come dichiarazione d’esistenza. Dove l’estetica dominante chiede sobrietà, ordine, controllo, il kitsch queer risponde con accumulazione, irriverenza, spettacolarità indecente. È lo stile di Ron Athey, dove sangue e broccati convivono; è l’universo di Gisèle Vienne, dove i corpi plastici e pupazzeschi diventano figure angeliche o demoniache, sempre queer.
Il kitsch è anche sopravvivenza povera e sontuosa: chi non ha accesso al lusso vero, se lo costruisce con tulle e tappi di bottiglia, con trucchi da discount e lustrini spirituali.
La scena drag teatrale contemporanea: tra club e militanza
E arriviamo alla scena drag teatrale, oggi più che mai intersezione di spettacolo, politica e comunità. Lungi dall’essere confinata alle luci dei club o agli show televisivi, la drag performance contemporanea si è fatta teatro maturo, forma d’arte complessa, spazio militante e decoloniale.
The Divine David, La JohnJoseph, Jinkx Monsoon, Bourgeois & Maurice, Christeene: sono solo alcune delle voci che portano la drag fuori dalla sola estetica, facendone linguaggio teatrale che riflette su genere, classe, trauma, desiderio, identità non binarie. In molti casi, si tratta di autobiografie posticce, drammaturgie del margine, comizi travestiti, messe nere dell’identità.
Nel contesto clubbing — basti pensare al Sink the Pink londinese o al lavoro italiano del Collettivo Drag Queen Story Hour — la drag diventa pedagogia queer, racconto ai bambini, rito queer di trasmissione simbolica. Il club è il palcoscenico, ma anche la piazza, il tempio, la scuola pubblica della devianza poetica.
La drag torna anche nelle accademie e nei musei: il corpo travestito ora si muove tra installazioni, coreografie e archivi, dialogando con la storia dell’arte, con il post-umano, con la performatività politica. Pensiamo a Victoria Sin o Liv Wynter, che esplorano genere, colonialismo e futuri trans in chiave teatrale e visiva.
Nel teatro queer contemporaneo, la spiritualità non è più dominio esclusivo del sacro tradizionale, ma diventa terreno di riappropriazione, eresia, invenzione. Laddove religione e norma si erano spesso strette in un’alleanza repressiva, il teatro queer spalanca le porte a nuove forme di trascendenza, di comunione, di miracolo incarnato — sovente effimero, sempre carnale, inesorabilmente performativo.
Esorcismi performativi e riti pagani queer
Parlare di “esorcismo” nel teatro queer è nominare la possibilità di scacciare i demoni del patriarcato, dell’omofobia, della vergogna imposta. In artisti come Ron Athey, Cassils, Niv Acosta, il corpo si fa altare e arma, la performance un rituale di purificazione nudo, scandaloso, sacrale. Athey stesso, sieropositivo, martire e sacerdote laico, ha costruito intere liturgie sul sangue, sulla cicatrice, sulla santificazione del corpo queer malato, sfidando le narrazioni biomediche e moraliste dell’AIDS.
Nel lavoro di Maciej Nowak, Milo Rau, Pippo Delbono, il teatro si avvicina al rito, alla funzione quasi chiesastica, dove lo spettatore è testimone ma anche credente, fedelissimo dell’umano queer. Spettacoli come The Gospel According to Jesus, Queen of Heaven (dove Cristo è una donna trans interpretata da Jo Clifford) o Messa in scena dell’Apocalisse di Milo Rau mettono in atto rituali apocrifi, vangeli invertiti, messe queer dove la comunità si riconosce nella devianza come forma di salvezza.
Ma la spiritualità queer non si ferma all’iconoclastia: si nutre di paganesimo riscoperto, di corpi che danzano la luna, che invocano genealogie ancestrali trans, che trasformano il palcoscenico in un bosco sacro, dove ogni entità è mutante. Pensiamo alle performance di Ernesto Tomasini, ai corpi fluido-androgini di François Chaignaud, alle creature post-gender evocate da Gisèle Vienne: sono divinità queer, santi apocrifi, folletti e oracoli, angeli trans e dee col fallo.
Nuove liturgie artistiche: chiese teatrali, comunità trans-spirituali
In alcune esperienze, la spiritualità queer si organizza in vere e proprie “liturgie artistiche”. Alok Vaid-Menon e Travis Alabanza, nei loro monologhi, offrono benedizioni queer, confessioni poetiche, prediche post-genere. Taylor Mac, nei suoi spettacoli di ore e ore, conduce cerimonie totalizzanti, dove l’arte si fonde alla comunità e al rito: una festa queer che è anche pellegrinaggio interiore.
Alcuni collettivi, come House of Living Colors a Berlino o QTPoC Church a Londra, propongono eventi teatrali che sono anche riti di passaggio, incontri spirituali, momenti di guarigione collettiva. Il teatro diventa così tempio inclusivo, dove la performance è preghiera, la voce è lamento sacro, e ogni lacrima ha la forza di una reliquia.
Corpi aumentati, AI e teatro queer postumano
E arriviamo ora al presente più acuto: l’era dei corpi aumentati, dell’intelligenza artificiale, della performatività postumana. Il teatro queer abbraccia questa trasformazione con un misto di seduzione e sfida, curioso e critico, consapevole che il corpo queer è già, da sempre, un corpo “aumentato”: da protesi, da desiderio, da segni, da ferite e metamorfosi.
Artisti come Cassils lavorano sul confine tra body art e bio-hacking. Victoria Sin esplora la drag come cyborg futuribile, mentre Zackary Drucker ha costruito narrazioni teatrali con avatar e ologrammi che interrogano il genere nel virtuale. Annie Dorsen, con i suoi spettacoli generati da algoritmi (come Hello Hi There o Yesterday Tomorrow), mette in scena una drammaturgia artificiale dove l’umano e il non-umano si fondono in un teatro dell’incertezza ontologica.
Nel mondo virtuale, nascono avatar queer, drag postumani, identità che si muovono in ambienti digitali performando generi impossibili, sessualità mutate, nuove specie simboliche. Piattaforme come VRChat, Second Life, e i mondi generati da Sora o Unity diventano nuovi teatri dove la queer performance sfugge ai vincoli fisici, oltrepassa la morte, la malattia, la norma binaria.
In questa nuova scena, la spiritualità si fonde alla tecnica: c’è qualcosa di divino in un’intelligenza artificiale che compone poesia trans, qualcosa di sacrale in un corpo-avatar che danza in assenza di gravità, qualcosa di queer in ogni glitch, in ogni errore semantico che apre possibilità. È un’estetica dell’oltre, una teologia del post-organo, un’escatologia drag che vede il futuro come spazio di liberazione radicale.
Proseguire in questa esplorazione significa addentrarsi in un territorio dove la genealogia queer del teatro non è una linea retta, ma una mappa pulsante, disseminata di ferite, eccessi, travestimenti e rivolte. È una storia sotterranea fatta di santi perversi, poeti teatranti, regine dell’abiezione, avatar rivoluzionari e corpi indisciplinati che hanno bruciato i confini tra arte, vita e militanza.
Jean Genet, Reza Abdoh, Jean Cocteau: i progenitori della vertigine queer
Jean Genet è forse il primo teurgo queer del teatro contemporaneo: ladro, prostituto, santo e profanatore, ha scritto testi come Les Bonnes o Le Balcon dove la performance è travestimento metafisico, scandalo sacro, metafora di potere e sottomissione. I suoi personaggi – cameriere che si travestono da padrone, detenuti che inscenano il potere – sono angeli ribelli e mostri sacri, marionette erotiche di un mondo che si sgretola in specchi. Genet non “scrive” teatro: lo confessa, lo espone come una ferita, lo mette a nudo fino a farlo urlare.
Jean Cocteau, invece, disegna una queerness eterea, solare e ombrosa, in bilico tra la classicità e l’allucinazione. In opere come La Voix humaine o Orphée, la voce diventa labirinto, la maschera un portale, l’amante uno spettro. Cocteau non tematizza il queer: lo mitologizza, lo trasfigura, come se ogni desiderio fosse un incantesimo.
Reza Abdoh, poi, è la cometa funebre e furiosa del teatro queer degli anni ’90. Persiano, sieropositivo, profeta e sciamano scenico, ha messo in scena la violenza del corpo e la brutalità del potere con una precisione visionaria. Le sue opere – Bogeyman, The Law of Remains, Tight White Right – sono orgia mediatica e cerimonia funebre, collage sensoriale e linguistico dove l’AIDS, l’America, il trauma, la pornografia, la guerra e il corpo queer esplodono in simultanea. Abdoh porta la trascendenza nel disfacimento, il sacro nella carne straziata, la poesia nel sangue.
Carmelita Tropicana, invece, ha fatto del travestimento una guerriglia estetica. Cubana, performer, drag militante e parodista, ha costruito una scena caribica e postcoloniale dove il kitsch è arsenale politico, l’umorismo è un’arma da combattimento. I suoi spettacoli – come Milk of Amnesia – sono autobiografie dissociate, liturgie tropicali, parodie che mordono e si fanno Vangelo per le latine queer.
Teatro queer latinoamericano e afrodiasporico: corpi coloniali e ribellione incarnata
Se il teatro queer europeo e nordamericano si è spesso nutrito di trauma, religione, decadenza e trasfigurazione, in America Latina e nelle esperienze afrodiasporiche la lotta si fa carne immediata, il palcoscenico è strada, corpo, rito comunitario, corpo politico.
Astrid Hadad, icona messicana, ha fuso cabaret, politica e folclore in un’estetica che ha il potere del barocco azteco postmoderno. I suoi abiti sono altarini ambulanti, manifesti femministi, collage di bandiere, seni, revoluciones. Canta rancheras in playback, si incatena, ride della nazione mentre la partorisce, portando in scena una decolonizzazione queer fatta di piume, tequila e rivolta.
Las Tesis, collettivo cileno femminista, ha reso la performance queer militante un rito globale. Con Un violador en tu camino hanno trasformato la danza in denuncia, la voce in manifestazione, il corpo in atto sovversivo. La loro è una performance rituale anti-patriarcale, che sacralizza la rabbia e la trasforma in eco planetaria. Il queer qui è azione politica, non metafora.
Mx Oops, artista afro-queer non-binario, performer e coreografo, fonde voguing, afrofuturismo, danza postmoderna e glitch digitale. Le sue performance sono rituali da club, apparizioni virtuali, celebrazioni transfuturiste. È la discoteca che diventa cattedrale, la pista da ballo come luogo di resurrezione afro-queer. I suoi avatar danzano nel cyberspazio come antenati di una nuova genealogia diasporica, dove il corpo queer nero è sacro e mutante, alieno e visibile.
Queste genealogie e questi salti non sono digressioni, ma fili rossi di un arazzo che si stende da Parigi a Santiago, da Teheran a Brooklyn, da Lagos a Berlino. Il teatro queer è un tempio nomade, una cattedrale dissacrata, un corpo in rivolta, che non dimentica, non tace, e non muore mai.
Pedagogie queer nella formazione teatrale contemporanea: disimparare, destabilizzare, trasformare
Parlare di pedagogie queer nel teatro significa ribaltare l’idea stessa di formazione: non più un trasferimento lineare di sapere da maestro a discepolo, ma un processo orizzontale, instabile, erotico e collettivo di disapprendimento. La pedagogia queer non insegna a recitare un ruolo, ma a mettere in crisi l’idea di ruolo, a smontare la scena come dispositivo normativo, a vivere il teatro come un laboratorio di possibilità esistenziali.
I metodi tradizionali – da Stanislavskij a Grotowski – presupponevano un sé unitario da penetrare, un’identità da scavare fino all’“autenticità”. La pedagogia queer invece rifiuta l’unità, celebra la maschera, il travestimento, la proliferazione dei sé, e si interroga su chi ha il diritto di parlare, di mostrarsi, di essere ascoltato e creduto sul palco. Non si tratta di “entrare nel personaggio”, ma di scoprirne le ambiguità, decostruirne la genesi, corromperne la stabilità.
Frederic M. Dolan, ad esempio, ha parlato del training queer come di un atto di interruzione nei confronti dell’apprendimento mimetico, una rottura rispetto al “farsi simile” al modello. In questa visione, l’apprendimento è una pratica di seduzione e tradimento, non di ripetizione. L’insegnamento queer è pornografico, corporeo, dissidente: spesso si svolge ai margini delle istituzioni, in residenze temporanee, laboratori comunitari, festival.
Artistə come Taylor Mac, Vaginal Davis, Tim Miller o Cassils, quando conducono workshop, non trasmettono tecniche, ma accendono crisi: sul genere, sulla memoria, sulla presenza, sul linguaggio, sul corpo stesso come soggetto di verità scenica. L’obiettivo è produrre l’instabilità, non la padronanza; far emergere le zone d’ombra, non cancellarle.
Sempre più spesso, la pedagogia queer si intreccia con pratiche somatiche, rituali collettivi, danze non codificate, urla, confessioni, esperimenti vocali e corporei che destrutturano l’idea di “attore” come contenitore di abilità professionali. Il corpo è vulnerabile, sacro, erotico, ferito, ridicolo e incandescente: è materia viva, eccessiva e non addomesticabile.
La figura del bambino queer sulla scena: trauma, metamorfosi, rivendicazione
Il bambino queer nel teatro contemporaneo non è mai solo un personaggio: è un fantasma autobiografico, una figura mitica, un detonatore politico. Si manifesta come soggetto fragile e mostruoso, creatura poetica e sovversiva, specchio di un passato irredento o di una possibilità futura.
Pensiamo a “I Am My Own Wife” di Doug Wright: l’infanzia queer di Charlotte von Mahlsdorf è evocata come uno spettro tra le rovine del nazismo e del comunismo, un’innocenza impossibile che sopravvive travestita, mimetica, brillante. Oppure a Taylor Mac, che nell’“A 24-Decade History of Popular Music” rievoca l’infanzia queer come epifania e campo di battaglia, in cui i giochi, le canzoni e le frustrazioni diventano mito, tragedia e carnevalata.
Il bambino queer è l’essere esiliato dalla norma dell’“infanzia felice”, e per questo diventa portavoce di un’altra memoria: non lineare, non riconciliata, ma radicalmente trasformativa. Piange in playback, ride fuori tempo, sogna travestito, balla senza permesso. È lo spettro del trauma e la promessa della mutazione.
In molti spettacoli recenti, il bambino queer è anche il luogo del non detto familiare, della violenza nascosta e della resilienza performativa. Nelle opere di Penny Arcade, Daniel Hellmann, Mk o Raimund Hoghe, vediamo emergere figure infantili queer che non chiedono pietà, ma spazio scenico, non cercano identificazione, ma potere d’interruzione.
Al tempo stesso, nella pedagogia queer e nella performance, il bambino queer diventa una guida: ci insegna a giocare senza scopo, a desiderare senza nome, a travestirci senza spiegare. È l’angelo felliniano e il demonietto pasoliniano, la creatura transgender del futuro e il sopravvissuto di ogni silenzio imposto.
La pedagogia e la figura del bambino queer si intrecciano in un unico gesto: quello di chi apprende disobbedendo, di chi sopravvive cantando, di chi trasforma la scena in un cortile libero, una cattedrale spezzata, una pista da ballo con le luci ancora accese.
La notte queer come spazio teatrale: club, rave, sogno e apparizione
La notte è il teatro primordiale della queerità. Non solo per l'iconografia del buio come rifugio o zona franca, ma perché la notte dissolve le geometrie normative della realtà diurna, spalancando un campo performativo in cui identità, desideri e corpi possono mutare, apparire, dissolversi, risorgere. È la notte del club, del ballo, del sudore, della visione, ma anche del lutto, della soglia, della metamorfosi.
Nel teatro queer contemporaneo, la notte è palcoscenico e drammaturgia, cornice emotiva e dispositivo politico. Spettacoli come “MDLSX” di Motus, “Rave Lucid” di Enrico Ticconi e Ginevra Panzetti o le creazioni di Marcel·lí Antúnez e Jan Fabre evocano la notte come tempo della trance, del dissenso erotico, della reinvenzione dell’essere. In questi spazi, la danza non è decorazione, ma pratica visionaria, riappropriazione del corpo e dell’estasi.
Il club queer – da Berghain a Los Angeles, da San Paolo a Tbilisi – è una scena teatrale autonoma, con le sue maschere, rituali, architetture effimere. Lì la performance è viva, mutevole, non fissata da un copione, ma generata dal flusso collettivo. In “To Be Real” di Michele Rizzo, la danza techno è liturgia e confessione, mentre in artistə come Juliana Huxtable o Mx Oops, l’identità dissolve i confini tra performer, DJ, sciamano e angelo post-gender.
La notte queer è anche il sogno scenico: territorio di apparizioni, voci interiori, segni dissonanti. Le visioni oniriche in “The Inheritance” di Matthew López o nei testi di Guillermo Calderón e María Irene Fornés offrono spettacoli in cui il sogno è contro-narrazione, fantasma liberatore, fantascienza queer che reimmagina la storia.
Non si può separare la notte queer dalla sua carica politica e rituale: i rave clandestini delle scene trans*, le performance nei cimiteri durante la pandemia, le notti di commemorazione queer nei parchi, nei sottopassaggi, nei locali che diventano chiese temporanee. Il teatro queer di notte non cerca spettatori, cerca complici.
Silenzio queer, assenza e sparizione come forme radicali di presenza scenica
Contro l’ossessione della visibilità, il teatro queer contemporaneo ha sviluppato una grammatica del silenzio, dell’invisibile, dell’interruzione. Il silenzio non è vuoto: è gesto, resistenza, sedimento del trauma. È il diritto a non essere decifrabili, a non dover spiegare, rappresentare, parlare.
Tra artistə come Ron Athey, Moriah Evans, Romeo Castellucci o Tania Bruguera, il silenzio queer è urlo trattenuto, ferita che pulsa, presenza in ritirata strategica. È la sospensione della linearità narrativa, la pausa che mostra la cicatrice. Le performance diventano spazi di lentezza estrema, di contemplazione, di perdita.
Pensiamo a Reza Abdoh, che nei suoi montaggi vertiginosi inseriva silenzi improvvisi come fenditure abissali, in cui la realtà sembrava evaporare. O a Gisèle Vienne, dove il tempo si rallenta fino a far emergere una vertigine spettrale, in cui i corpi queer sembrano sparire e ritornare come apparizioni mitiche.
L’assenza è un gesto queer: non esserci dove ci si aspetta, ritrarsi dallo sguardo normativo, esistere ai margini della scena, come figura fantasma. Nei lavori di Trajal Harrell, Martine Gutierrez o nora chipaumire, il corpo queer gioca con la sparizione: si cela, si sfuma, si dissolve nel suono, nella luce, nel fumo, come a dire: esisto, ma non per te.
Anche il silenzio linguistico diventa performativo: parlare un’altra lingua, inventare grammatiche proprie, sabotare la traduzione, abitare l’incomprensione. Il teatro queer fa del silenzio una lingua altra, mistica e politica, in cui il non detto risuona più forte del grido.
In questa poetica della sparizione, il queer non cerca centralità, ma interruzione della narrazione dominante, tracce d’esistenza, resistenze affettive e corporee. Come le lacrime in un monologo muto, come un corpo che balla a occhi chiusi in un club deserto, il teatro queer racconta l’invisibile senza mostrarlo, e ci costringe ad ascoltare l’indicibile.
Proseguiamo addentrandoci ancor più profondamente nel rapporto tra archivio, memoria queer e reinscrizione scenica, attraversando la materia viva dell’oblio, dell’esilio e della ricomparsa.
L’archivio come palinsesto: riscrivere l’invisibile
Nel teatro queer contemporaneo, l’archivio non è soltanto uno spazio dove cercare documenti perduti: è un campo di tensione, uno scenario performativo esso stesso, una superficie da scalfire, da contaminare, da riscrivere. Non più luogo neutro, ma spazio erotico e polemico, l’archivio viene “queerizzato” nella sua stessa ontologia: non si tratta di ordinare la memoria, ma di scardinarne la grammatica, di esorcizzarne l’autorità, di liberare le voci imprigionate nella marginalità del non detto. Il corpo queer diventa così scrittura vivente, segno incarnato, protesi narrativa di storie negate.
L’artista queer non lavora solo “sull’archivio”: diventa l’archivio. La performance è allora ri-corpo-ra-mento della memoria, atto di riapparizione, rituale scenico in cui il tempo non è lineare, ma rituale e palingenetico. È in questa prospettiva che lavori come “Minor Matter” di Ligia Lewis o le installazioni teatrali di Cassils assumono la forma di una riattivazione drammatica della violenza storica — contro i corpi queer razzializzati, trans, non conformi — rispondendo con una gestualità rituale che trasforma il palco in santuario e campo di battaglia insieme.
Corpi-archivio: incarnare l’assenza
La pratica della reinscrizione queer è anche una pratica dell’assenza. Ciò che non si trova, ciò che manca, ciò che è stato cancellato, diventa il centro pulsante della scena. In “This Is Not A Memoir” di Mónica Calle, o in “Manifesto Transpofágico” di Renata Carvalho, il corpo si fa dichiarazione vivente di ciò che la Storia non ha saputo nominare. Si canta la genealogia del non-detto, si danza con l’assenza, si bacia il vuoto lasciato dai documenti mai scritti.
Nel teatro-documentario queer più radicale, da Marcelo Evelin a Sasha Velour, l’atto di performare il documento diventa un sabotaggio. Non si tratta di “rappresentare” ciò che è accaduto, ma di iniettarvi il dubbio, la carne, l’ironia, il delirio. In questo senso, la testimonianza non è mai mimetica: è un’invasione, un’alterazione, un coming out del passato nel presente.
Tecnologie del ricordo: video, rete, frammenti
Molti artisti queer si affidano a forme ibride, mescolando documentazione video, found footage, autofiction e testi d’archivio rielaborati. L’archivio è smontato e rimontato, travestito, mutato. In “Archive of Desire” di Malik Gaines e nella ricerca di Pauline Boudry / Renate Lorenz, ad esempio, i materiali visivi e sonori d’epoca vengono disturbati, remixati, decontestualizzati per creare nuove genealogie non lineari, anarchiche, sensoriali.
Il queer riscrive l’archivio con il gesto del drag, della mascherata, della deviazione affettiva. Un nastro VHS, una cartolina erotica, una lettera d’amore censurata, una ricetta tramandata oralmente diventano reperti emotivi, tracce sacre, codici genetici di una storia non autorizzata.
Archivi affettivi e collettivi
Oltre all’individuo, è la comunità queer che si fa archivio. Progetti come “The Living Archive” di Miguel Gutierrez, o il lavoro di The Haus of Dust in dialogo con la figura di Alison Knowles, producono spazi di memoria collettiva, rituali orali, archivi incarnati attraverso laboratori, camminate performative, installazioni partecipative. Il teatro queer si trasforma così in archivio espanso, spazio affettivo, trasmissione orale incarnata tra generazioni marginali.
L’archivio queer non è quindi solo ciò che si conserva, ma ciò che si trasmette con amore, con desiderio, con rabbia. È una lettera d’amore mai spedita, un bacio tra due ragazzi in un bagno pubblico nel 1983, una danza fatta in onore di chi non è sopravvissutə. È una cicatrice come firma, una risata come documento, una carezza come protocollo.
Proseguiamo con un’indagine sulla politica della trasmissione queer nella scena performativa contemporanea: un campo di tensione tra gesto pedagogico, ereditarietà affettiva e sabotaggio delle genealogie egemoniche.
Trasmettere senza ereditarietà: la pedagogia queer come diseredità fertile
Nel mondo queer, trasmettere non significa replicare, ma disallineare, spiazzare, contaminare. La trasmissione queer è non-lineare, anti-familiare, post-genetica. Non passa per il sangue, ma per l’incontro, la ferita, la seduzione, lo sguardo scambiato in uno spazio liminale. In questo senso, la performance queer diventa un dispositivo di trasmissione affettiva, dove si apprendono non solo tecniche ma modi di stare al mondo, gestualità dissonanti, rituali minoritari.
La pedagogia queer, come quella proposta da artisti come Miguel Gutierrez, Trajal Harrell, Dorian Wood, o le pratiche di autoformazione collettiva della scena transfemminista cilena (Las Tesis), si fonda su una logica non autoritaria, non centrata sulla maestranza, ma sull’orizzontalità erotica del sapere. In questa visione, trasmettere significa anche smettere di sapere, lasciare spazio alla vulnerabilità, alla non-conoscenza, al fallimento performativo.
La performance come scuola transgenerazionale
Le esperienze teatrali queer più radicali funzionano come scuole incarnate. Non scuole nel senso istituzionale, ma nel senso di luoghi in cui si impara a disimparare, a resistere performando, a trasmettere il trauma senza ripeterlo. In opere come “Everything That Rises Must Converge” di David Hoyle, o “A 24-Decade History of Popular Music” di Taylor Mac, la trasmissione diventa drammaturgia scenica e pedagogia politica insieme. Il performer si fa maestrə estemporaneə, medium, archivio affettivo parlante.
Questa trasmissione transgenerazionale avviene spesso in direzione opposta al tempo cronologico: i giovani trasmettono ai vecchi, le creature non nate parlano ai vivi, gli spiriti queer del passato vengono rievocati per guidare il presente. La trasmissione queer è quindi possessione, incarnazione, ventriloquismo affettivo.
Forme, canali e riti della trasmissione queer
I canali della trasmissione queer sono molteplici e spesso marginali: la stanza di un club, un laboratorio underground, una conversazione tra due corpi stanchi alle cinque del mattino, una cicatrice mostrata con orgoglio. Gli spettacoli di Alok Vaid-Menon, di Jónas Þórir & G. Kristinn, o di Mx Oops lavorano proprio sulla trasmissione gestuale e emotiva attraverso linguaggi che mescolano spoken word, danza, performance e poesia. Qui, la parola “scena” coincide con “trasmissione”: vedere è apprendere, toccare è ricordare, condividere è ritualizzare.
Anche il travestimento diventa un potente veicolo di trasmissione queer. Quando Travis Alabanza indossa una parrucca, quando Sasha Velour rievoca i suoi fantasmi estetici, il gesto non è solo estetico: è un atto di filiazione estetico-affettiva, un tributo, una forma di appartenenza disidentificata. Ogni eyeliner è un’eredità, ogni abito un segno genealogico queer.
La trasmissione come rischio e ferita
Ma trasmettere è anche un atto doloroso. Come si tramanda un lutto? Come si trasmette la paura, la perdita, l’esilio, senza riattivarli come traumi? L’opera di Reza Abdoh ci ha insegnato che la pedagogia queer può anche essere urto, distruzione, isteria. In “Bogeyman”, come in molte sue opere, l’insegnamento è uno shock, un corpo lanciato contro lo spettatore. È qui che si manifesta la dimensione radicalmente amorosa della trasmissione queer: l’amore come rischio, la relazione come esposizione, la performance come contratto emotivo tra vulnerabilità e desiderio.
Futuri trasmissivi queer: tra utopia e mutazione
Oggi, con la proliferazione delle pratiche teatrali queer nell’ambito digitale, la trasmissione prende nuove forme: archivi performativi in streaming, scuole di drag online, corsi di embodiment queer via avatar, intelligenze artificiali addestrate a riprodurre gestualità non normate. In questa nuova fase, la trasmissione queer si smaterializza, ma non si impoverisce: diventa ubiqua, virale, fantasmatica.
Eppure rimane sempre un atto intensamente corporeo. Perché anche quando passa attraverso pixel e circuiti, ciò che la trasmissione queer comunica non è solo contenuto, ma intensità, vibrazione, possibilità.
Proseguiamo con un’esplorazione sulla dimensione queer del tempo teatrale, dove la temporalità si fa materia fluida, smontabile, eversiva. Il tempo queer non corre in linea retta: salta, ripete, indugia, scompare. Nel teatro contemporaneo, questa torsione temporale diventa linguaggio scenico, rottura del ritmo eteronormato, sabotaggio delle cronologie imposte.
Il tempo queer come tempo eccedente
A differenza del tempo cronologico lineare, funzionale, produttivo – quello che Judith Halberstam ha chiamato straight time – il tempo queer è eccedente, disfunzionale, eretico. Nel teatro queer, il tempo si deforma: può arrestarsi in un momento di silenzio estatico, dilatarsi in una ripetizione ossessiva, accendersi in un flashback sensoriale che non rispetta né logica né narrazione.
Opere come “In the Eruptive Mode” di Rana Hamadeh o “Untitled Feminist Show” di Young Jean Lee rifiutano la struttura aristotelica e scardinano il tempo drammatico convenzionale: non c’è sviluppo lineare, ma implosione, presenza, interruzione.
Il tempo queer è anche postumo e prematuro: vive nel già accaduto e nell’impossibile da venire. È un tempo che non serve all’efficienza, ma alla reminiscenza, alla trance, alla sopravvivenza del non detto.
Performance e fantasmagoria: il tempo come spirito queer
In molte performance, soprattutto legate alla cultura post-AIDS, il tempo queer è inabitato dai morti, infestato da assenze, popolato da fantasmi. In “The Inheritance” di Matthew Lopez, come in “Angels in America”, la temporalità queer è sempre invasa da epoche altre, da spiriti che non si lasciano seppellire, da presenze che chiedono di essere ricordate scenicamente.
Così anche in molte opere di Ron Athey o Cassils, il tempo della performance non è quello del presente lineare, ma un tempo rituale, contaminato, che scorre nei corpi come memoria viva e ferita aperta.
Habitat queer: scenografie come dispositivi politici
Passiamo ora alla scenografia queer: non più semplice sfondo, ma habitat mutante, spazio che respira, risponde, interferisce. Nella scena queer contemporanea, la scenografia diventa corpo scenico, organismo, soggetto sensibile. Più che costruire ambienti riconoscibili, la scenografia queer decostruisce lo spazio borghese e lo sostituisce con luoghi dell’instabilità, del sogno, della clandestinità.
Pensiamo a come Milo Rau destruttura lo spazio in The Repetition trasformando il palcoscenico in luogo di trauma e rituale. O a Marvin Mtoumo e le sue architetture effimere, fatte di tende, specchi, disastri, dove la scena è un accampamento emotivo, uno squarcio urbano, una geografia dell’erotismo deviante.
Nel teatro di Xavier Le Roy, Gisèle Vienne o François Chaignaud, lo spazio scenico è spesso un terreno da riconfigurare: la scena diventa sauna queer, bosco incantato, stanza di degenza, club techno, laboratorio. È uno spazio liminale, non normato, instabile. Uno spazio che non accoglie, ma sfida lo spettatore, gli impone di abitare un altrove, di sedersi in modo storto, di guardare dove non si dovrebbe.
La scenografia come corpo queer
Molti artisti queer contemporanei pensano la scenografia come prolungamento del corpo, non come contenitore neutro, ma come protesi, organo esterno, carne del mondo. In questo senso, scenografia e performer sono intercambiabili, confondibili, ibridi. Si pensi all’opera di Romeo Castellucci, dove il corpo viene scenografato e lo spazio corporalizzato – oppure a Trajal Harrell, dove l’habitat è costruito su riferimenti culturali sovrapposti, mescolando butō, clubbing, moda, Harlem ballrooms.
La scenografia queer si oppone alla rappresentazione dell’ordine e della coerenza: preferisce l’eccesso, l’incompiuto, la rovina, il paradosso.
Proseguiamo allora esplorando la performatività queer degli oggetti in scena, dove ciò che tradizionalmente è considerato inerte, funzionale, decorativo – l’oggetto scenico – si carica di tensione erotica, simbolica, relazionale, trasformandosi in corpo eccentrico, alleato, avversario o residuo di memoria.
Oggetti che fanno corpo: materia queer, materia viva
Nel teatro queer contemporaneo, gli oggetti non “servono” più alla narrazione; resistono, si impongono, dicono altro. Come nei lavori di Gisèle Vienne, dove le bambole, gli abiti, le maschere e le armi non sono solo accessori, ma testimoni muti, reliquie di trauma, duplicati del desiderio. Oppure come nelle installazioni-performances di Ron Athey, dove aghi, croci, catene e protesi diventano estensioni del corpo queer martirizzato e glorificato.
In questa visione, l’oggetto in scena si comporta come un corpo “altro”: può essere accudito, penetrato, venerato, distrutto. È un medium di affetti che risponde a una logica queer: non è utile, è inquietante; non è decorativo, è perturbante; non è passivo, è reattivo.
Teatro queer e oggetti come archivi mobili
L’oggetto scenico queer è spesso carico di storia, archivio incarnato, memoria sopravvissuta. Si pensi alle valigie, alle coperte, ai piccoli oggetti personali in spettacoli post-AIDS, come "Last Summer at Bluefish Cove" o nelle performance di Tim Miller: ogni oggetto porta con sé un lutto, una voce, un gesto da ripetere o da abbandonare. La scena diventa così un museo affettivo, ma instabile, non lineare, militante.
Oggetti queer sono anche quelli che sfidano l’uso previsto: uno specchio che acceca, un abito che strangola, una poltrona che si rifiuta di accogliere, un microfono che amplifica troppo o troppo poco. Tutto, sulla scena queer, è iper-significante, mai neutro, sempre disposto a una trasformazione imprevista.
Tecnologia queer ed ecologie affettive nella performance
Nel teatro queer contemporaneo, la tecnologia non è mai neutra: è protesica, sensuale, relazionale. Dai microfoni incorporati nella pelle, agli schermi che riflettono corpi distorti, fino alle interfacce sonore interattive, il digitale diventa luogo di intimità, disturbo, alienazione erotica.
Artisti come Annie Dorsen, Heather Dewey-Hagborg, Zach Blas o Tarek Atoui portano sulla scena dispositivi algoritmici che non si limitano a mediare, ma reinventano il corpo, il tempo, la voce. Il performer queer, spesso, si fonde con la macchina, diventa cyborg, avatar, presenza ibrida che interroga i limiti del biologico e del riconoscibile.
In performance come “Cyberqueer Underground” o “#QAB” (Queer Art of Becoming), il corpo si sdoppia in presenze multiple e simultanee: fisico, virtuale, glitchato. Il palco si trasforma in una rete sensoriale e affettiva, dove emozione e codice, carne e luce, si confondono.
Ecologie queer: relazioni e coesistenze non normate
Accanto al discorso tecnologico, si sviluppa una riflessione ecologica queer: come convivere, nonostante tutto, in spazi scenici segnati da vulnerabilità, interdipendenza, reciprocità non gerarchica. In questo contesto, la scena si popola non solo di corpi umani e macchine, ma anche di animali, vegetali, ambienti sonori, come nei lavori di Myriam Van Imschoot, Sorour Darabi, o Ali Chahrour.
L’ecologia queer non è solo un tema, ma un metodo: rinunciare alla centralità umana, riconoscere l’errore come linguaggio, accettare l’imprevedibile come co-autore. La scena diventa allora un ecosistema vulnerabile, un corpo collettivo in continua mutazione, dove anche l’aria, il respiro, la luce e il silenzio partecipano attivamente all’evento teatrale.
Proseguiamo con un’indagine sulla mutazione queer della voce nelle pratiche performative, dove la voce – ben oltre il semplice strumento espressivo – si trasforma in territorio instabile, corpo fluido, scrittura acustica dell’identità che eccede, devia, implode.
Voce queer: carne sonora, rottura dell’unità
Nel teatro queer contemporaneo, la voce non è più garantita, naturale, coerente. È traboccante, screziata, dissociata dal corpo che la emette. In molte performance – da Taylor Mac a Cassils, da David Hoyle a Justin Vivian Bond – la voce viene strappata ai suoi codici: falsetti esasperati, growl animaleschi, riverberi innaturali, silenzi elettrici. Ogni intonazione è un gesto politico, ogni rottura una dichiarazione ontologica: non voglio essere riconoscibile, non voglio essere leggibile.
La voce queer è sempre un travestimento, un artificio dichiarato, una liturgia fonica che espone le sue suture. Si pensi all’uso del canto nei lavori di François Chaignaud, dove la voce barocca coabita con il corpo androgino in uno squilibrio mistico e osceno. Oppure ai monologhi rotti, balbettanti, lacerati di Reza Abdoh, in cui la voce non è più veicolo ma prova vivente della frattura interna.
La voce come possessione
La voce queer è spesso anche altra da sé, ospitata, spossessata. Nelle pratiche rituali e performative di artistə come Ron Athey, Butoh queer, Lorenzo Bernardi, la voce diventa spettro, trance, presenza invasiva. Non si parla più con una voce, ma attraverso voci, non si canta, si è cantatə. È una vocazione alla dissociazione, ma anche alla coabitazione sonora.
Coreografie del desiderio e della vergogna nel teatro post-identitario
Il teatro post-identitario non abbandona i corpi queer, ma li rilancia in uno spazio altro: non più rappresentazione, bensì traccia, fantasma, movimento residuale. In questa nuova scena, il desiderio non è più dichiarazione, ma tensione che scorre nei gesti, negli sguardi evitati, nei corpi che si ritirano, nei tocchi che non arrivano mai.
Vergogna come estetica del non-potere
La vergogna – tradizionalmente vista come nemica della performance – diventa nel teatro queer contemporaneo forma di resistenza, strategia di non-compiutezza. È il gesto interrotto, l’abbraccio fallito, il ballo goffo. Coreografi come Xavier Le Roy, Mette Ingvartsen o Marcela Levi esplorano l’incertezza motoria, il desiderio che sbaglia tempo, la coreografia della ritrazione. Il corpo queer non danza per mostrarsi, ma per perdere controllo, decentrarsi, svanire parzialmente.
Nei lavori di Miguel Gutierrez, ad esempio, il desiderio e la vergogna si rincorrono in forme ibride di danza confessionale e stand-up emotivo: il corpo cade, ride, piange, si vergogna della sua esposizione ma insiste a restare lì, vulnerabile, presente.
Oltre la rappresentazione: movimenti che scompaiono
Il teatro post-identitario non chiede più di "essere visti", ma di trasformare la visione. Desiderio e vergogna si incontrano in una nuova grammatica scenica fatta di vuoti, esitazioni, ripetizioni disfunzionali, come nei lavori di Yasmeen Godder o Antonia Baehr. Il corpo queer qui non “dice” chi è, ma mostra la fatica dell’apparire, la tensione dell’esserci comunque, nonostante la vergogna, nonostante tutto.
Proseguiamo con un’indagine sulla sensualità della ripetizione e della stanchezza nella danza queer, là dove il gesto insiste, sfinisce, si consuma e si rinnova, diventando carezza politica, erotismo durativo, resistenza incarnata.
Ripetizione queer: godimento che eccede la forma
Nella danza queer contemporanea la ripetizione non è mai banale reiterazione. È trasformazione minuziosa del gesto, prova di resistenza del corpo vulnerabile, rituale di sopravvivenza che sfida l’efficienza della scena occidentale. Artisti come Trajal Harrell, Fannie Sosa, Mariana Valencia o Moriah Evans impiegano la ripetizione come rito incarnato, rito sensuale, che assorbe e rilascia energia in loop ipnotici.
In questa logica, la ripetizione diventa frizione erotica, tempo esteso dell’intimità, modo per abitare il corpo queer senza doverlo spiegare o legittimare. È il contrario del climax narrativo: non c’è un prima e un dopo, solo il qui del gesto che ritorna, mutando infinitesimamente, mentre insiste. Così la danza diventa un tempo queer, un’attesa senza teleologia, una durata corporea che si oppone al consumo veloce e spettacolare della presenza.
Stanchezza queer: estetica del cedimento
Nelle coreografie di Liz Rosenfeld, Jeremy Wade, Bouchra Ouizguen, la stanchezza è linguaggio. I corpi queer si mostrano sfiancati, affaticati, tremanti. Il sudore diventa segno, l’affanno dichiarazione, l’esaurimento locus erotico. Non si danza per impressionare, ma per cedere, lasciarsi andare, restare anche quando il gesto si disfa.
La stanchezza è un atto poetico: rivendicare il diritto di non essere performanti, lottare per un ritmo altro, un’economia del corpo che rifiuta l’efficienza e l’abilità. Il corpo queer stanco è corpo politico, corpo tenero, corpo che disarma lo sguardo normativo.
Dramaturgie del fallimento e dell’impossibilità nel teatro non-binario
La drammaturgia queer post-identitaria non cerca più la coerenza narrativa o la compiutezza formale. Si radica nel fallimento come metodo, nell’impossibilità come estetica, nella contraddizione come forma di verità.
Nell’opera di artistə come Ivana Müller, Nora Chipaumire, El Conde de Torrefiel, e nel teatro di Alok Vaid-Menon, il fallimento non è da evitare, ma da abitare. Le scene si interrompono, i personaggi si contraddicono, i dispositivi teatrali si inceppano. È un fallimento epistemologico: il teatro non dice cosa è, ma mostra come non si può sapere pienamente, come ogni identità è provvisoria, ogni narrazione è precaria, ogni corpo è in bilico.
Il fallimento come gioia radicale
Come teorizzato da Jack Halberstam in The Queer Art of Failure, fallire è liberarsi dall’obbligo dell’eroismo, dalla tirannia della riuscita. Nel teatro non-binario, questo si traduce in dramaturgie che deragliano, scene costruite sull’inesattezza, monologhi che non si concludono, coreografie che si disfano a metà. Il non finito diventa gesto queer supremo, che rifiuta l’idea di un’identità da "completare" o "rivelare".
Il fallimento è festa, è apertura, è carne che smette di fingere durezza.
Proseguiamo con un’indagine sulla fragilità come potenza scenica nel teatro queer, là dove la pelle si assottiglia, le difese cedono, e ciò che resta non è debolezza ma nudità disarmata, politica, incandescente.
Fragilità queer: esposizione come forza
Nel teatro queer contemporaneo, la fragilità non è una soglia da superare ma una soglia da abitare. Non è un difetto, ma un’epistemologia incarnata: mostrare le crepe, i tremori, le esitazioni significa rompere con l’idea di un corpo performante, normativo, addestrato alla potenza virile e alla sicurezza dell’identità. La fragilità queer è presenza vulnerabile ma intensissima, trasparenza emotiva che scardina la distanza tra sé e il mondo.
Artisti come Cassils, Dorian Wood, Sibyl Kempson, Raimund Hoghe, Rocio Molina trasformano la fragilità in gesto estetico: un corpo che cade, una voce che si incrina, uno sguardo che non regge diventano atti di resistenza contro la spettacolarità coercitiva. Non si tratta di commuovere, ma di disarmare, far entrare lo spettatore nella zona pericolosa della tenerezza radicale, dove l’identità si scioglie e il teatro si fa abbraccio.
La potenza di ciò che trema
È in ciò che trema che accade l’incontro. La fragilità, come scrive Judith Butler, è la condizione della nostra interdipendenza: e sul palco queer questa interdipendenza si fa forma, suono, silenzio condiviso. La scena queer che osa mostrarsi fragile è una scena che cura, che si offre come spazio terapeutico, erotico, politico.
Cartografie affettive tra pubblico e performer in spazi performativi non convenzionali
Quando il teatro queer esce dalla scatola nera e si muove in spazi non convenzionali – club, stanze private, ascensori, parchi, magazzini, ma anche Zoom, OnlyFans, o stanze Discord – muta la geografia della visione: lo spettatore non è più “pubblico” ma presenza, corpo tra i corpi, nodo sensibile in una costellazione affettiva che si ridefinisce ogni volta.
In queste pratiche, la prossimità è politica: l’intimità non è solo forma, ma sovversione delle gerarchie teatrali. I performer queer (come nel lavoro di Antonia Baehr, Miguel Gutierrez, Tania El Khoury, Daniel Lie, Francesco Michele Laterza) creano relazioni più che spettacoli, mappe emotive più che trame, incontri più che rappresentazioni.
Empatia queer e dis-orientamento affettivo
La relazione tra performer e pubblico si fonda su un’empatia queer, che non chiede identificazione, ma co-presenza, risonanza, accoglienza delle differenze. In molti lavori, il pubblico è chiamato a muoversi, toccare, scegliere, ascoltare con il corpo. Questo crea una geografia dell’affetto e del rischio, dove la scena è fluida, il confine tra autore e spettatore si scioglie, e l’esperienza teatrale diventa una mappa emotiva condivisa e mai replicabile.
Lo spazio si fa carne, l’interazione si fa carezza o attrito, e l’affetto diventa linguaggio scenico. È in questa tensione tra prossimità e vulnerabilità, tra accoglienza e rischio, che il teatro queer non convenzionale mette in atto il suo potere più rivoluzionario: creare comunità effimere e vitali.
Proseguiamo con un’indagine sulle pratiche di autocura, ritualità e guarigione nella performance queer, dove la scena diventa non tanto un luogo di rappresentazione quanto uno spazio sacro, vulnerabile, alchemico: un laboratorio in cui l’identità ferita viene accolta, attraversata e talvolta trasmutata.
Autocura queer: il teatro come spazio di guarigione
Nel teatro queer contemporaneo, la performance si configura spesso come un atto di cura verso sé stessə. In un contesto storico in cui i corpi queer sono stati patologizzati, cancellati o aggrediti, il solo atto di mettersi in scena è già un gesto terapeutico. Ma si va oltre: molti artisti queer creano lavori esplicitamente orientati alla cura emotiva, spirituale e comunitaria. Non si tratta di rappresentare una ferita, ma di attraversarla con consapevolezza rituale.
Artisti come Taylor Mac, Alok Vaid-Menon, Tania Bruguera, La Pocha Nostra, Tania El Khoury e Davi Pontes mettono in scena cerimonie ibride che mescolano confessione, travestimento, improvvisazione, canto, danza e pratiche partecipative. In questi contesti, l’artista si espone non per “guarire lo spettatore”, ma per creare un campo condiviso di ascolto e trasformazione.
Il teatro diventa cura collettiva, rito queer post-laico, luogo dell’ascolto del trauma e della sua trasmutazione in gesto poetico. Il dolore diventa “materiale” non solo scenico ma anche etico.
Ritualità performativa: esorcismi queer e liturgie artistiche
Nella performance queer, i rituali non sono citazioni religiose, ma forme di sopravvivenza e riconnessione. Artisti come Ron Athey, Marina Abramović (nelle sue derive queer più implicite), Jasmine Hearn, Martín Valdés-Stauber e Mx Oops costruiscono atti scenici che funzionano come esorcismi laici: attraverso il dolore, il sangue, il contatto con il limite, si arriva alla liberazione di energie represse, alla trasfigurazione del corpo marginalizzato in corpo sacro.
Questi rituali queer si collocano al crocevia tra spiritualità decoloniale, transfemminismo e magia profana, e aprono a forme inedite di comunità e connessione: non si tratta di riparare l’io, ma di ritrovare il noi attraverso il rito della scena.
Dramaturgie della dissociazione e della trance queer
Entriamo ora in un territorio più etereo e pericoloso: quello delle dramaturgie della dissociazione, dove la performance queer si affida alla rottura della linearità psichica e corporea. Dissociarsi, in questo contesto, non è fuga ma strategia, non è perdita ma riscrittura del sé.
Artisti come Jesse Darling, FKA twigs nei suoi live ritualizzati, Trajal Harrell, Lucía Martinez García, Boychild, François Chaignaud o Sasha Velour costruiscono presenze sceniche che oscillano tra trance e artificio, tra smembramento simbolico e reincarnazione. Il performer queer entra in uno stato alterato – emotivamente, gestualmente, vocalmente – che richiama pratiche sciamaniche, danze trance, esperienze liminali.
La dissociazione queer in scena è un atto politico: rifiuta la coerenza dell’identità normativa, ne denuncia la violenza, e attraverso l’eccesso, il vuoto, lo scarto, rivela nuove possibilità di essere.
In queste dramaturgie, spesso il corpo non risponde: cade, ripete, svanisce. Oppure esplode, si moltiplica, diventa cosa, spirito, ombra. Si danza fino alla vertigine, si urla fino al silenzio. È un teatro che non chiede spiegazioni, ma accoglie la discontinuità dell’esistenza queer come forma suprema di realtà.
Apriamo ora un nuovo capitolo, crudele e liberatorio, sulle estetiche dell’errore e della mostruosità queer nella performance: territori in cui la devianza, l’informe, l’imperfezione e l’eccesso diventano linguaggi radicali, strategie di sopravvivenza, critiche incarnate e poetiche del possibile.
Errore queer: sabotaggio delle forme dominanti
Nel teatro e nella performance queer contemporanea, l’errore non è da correggere, ma da proteggere. È il luogo in cui si smonta la forma imposta per creare altre possibilità di senso, gesto, presenza. Sbagliare diventa un modo per esistere. Pensiamo all’errore performativo come gesto che interrompe il ritmo normato, la narrazione lineare, il corpo allenato. Come scrive Paul B. Preciado, il corpo trans/queer è un hack vivente della norma – e la performance è il suo codice sorgente, disturbato.
Artisti come Miguel Gutierrez, Jesse Hewit, Vanessa Stern, Niv Acosta, Reina Gossett e Travis Alabanza usano volutamente l’imperfezione, lo sbilanciamento, il crollo, la disarticolazione come estetiche della libertà. La performance queer non cerca la verità dell’espressione, ma la sincerità dell’incoerenza. I limiti diventano risorse, le inadeguatezze diventano metodo.
Mostruosità queer: corpi che eccedono
La mostruosità, da sempre codice per tutto ciò che l’ordine sociale non sa nominare, diventa terreno fertile per la performance queer. Il “mostro” – il deforme, l’ibrido, l’osceno, il transumano – è celebrato come icona di resistenza contro ogni normatività corporea e sessuale.
Performance come quelle di Leigh Bowery, Ron Athey, Maya Deren, Cassils, Gisèle Vienne, Raimund Hoghe, Johannes Wieland, Zackary Drucker, David Hoyle, Lorenzo Bernardi e Vulva Club rivelano come il corpo mostruoso sia un corpo che eccede, che rifiuta la leggibilità, che sfida l’anatomia normativa. Mostro è chi si trasforma, chi genera orrore e desiderio, chi costringe lo sguardo ad allargare il proprio spettro.
Il corpo mostruoso in scena non rappresenta la diversità, ma la impone, con violenza simbolica, ironia o erotismo. È un corpo che non chiede permesso e che, nel suo stare fuori misura, disarticola la grammatica del vedere.
Teatro dell’eccesso, della rovina, della deformazione
Il teatro queer si è sempre nutrito dell’eccesso: nella voce, nel trucco, nel gesto, nella luce, nel suono. Il troppo è la sua misura. Un’eredità che parte da Artaud e Carmelo Bene, passa da Genet, Cocteau e Reza Abdoh, e arriva a un’estetica che mescola drag, horror, pornografia, misticismo e mutazione.
L’eccesso queer non è solo visivo o sonoro: è ontologico. Smonta il buon gusto, il decoro, la coerenza. La rovina, il collasso, il delirio non sono errori da contenere, ma strategie artistiche. È un teatro dove la bellezza è sfigurata, la voce è spezzata, il corpo è attraversato da fantasmi, dispositivi, desideri innominabili.
Verso un’estetica postumana e post-binaria
La mostruosità queer si lega oggi anche a una riflessione postumana: la performance queer diventa un laboratorio di ibridazione con la macchina, l’animale, il vegetale, l’intelligenza artificiale. Non più “solo” corpi devianti, ma corpi mutanti, relazionali, contagiati, espansi e vulnerabili.
Qui si intrecciano le riflessioni di Paul Preciado, Donna Haraway, Jack Halberstam, ma anche le pratiche sceniche che vedono il corpo queer non come entità da proteggere, ma come flusso da attraversare, disorganizzare, ricomporre altrimenti.
Apriamo ora un nuovo, sontuoso e febbrile capitolo:
Eredità barocche e operistiche nella performatività queer
Il barocco – con la sua esuberanza, la teatralità, il culto dell’apparenza, la tensione tra l’eccesso e il vuoto – è sempre stato queer, prima ancora che la parola queer esistesse. Il barocco è un modo di stare nel mondo come se fosse scena, un modo di non essere mai completamente sé stessi, un’identità traboccante, mascherata, scenografica, devotamente posticcia.
La performance queer eredita dal barocco non solo l’estetica dell’esagerazione, ma anche l’ossessione per il corpo come palinsesto mistico e sessuale, l’uso della voce come gesto drammatico e politico, la visione della scena come macchina metafisica e desiderante.
Opera e travestimento: dove tutto è canto e traviamento
Nel mondo dell’opera, la queer theory ha trovato un alleato ontologico. L’opera è il regno della voce disincarnata, della persona che è anche personaggio, del travestimento come condizione naturale. Le drag queen sono le ultime discendenti delle dive ottocentesche, callasiane per disperazione, divine per necessità. In scena si muore cantando, si ama fino al ridicolo, si è troppo per ogni grammatica.
Artisti come Justin Vivian Bond, Taylor Mac, Le Gateau Chocolat, Anthony Roth Costanzo, María José Arjona e Ernesto Tomasini giocano con l’opera come campo queer: lì dove la voce, il costume, il pathos e il gesto non mimano, diventano. L’opera queer è sempre una forma di possessione, una forma di rivelazione, un rituale in cui la voce si fa carne di qualcun altro, e così finalmente nostra.
E poi c'è il barocco queer contemporaneo: gli spettacoli di Romeo Castellucci, le visioni di Mariano Pensotti, le performance estreme di Massimo Furlan e Chiara Bersani, che usano il codice dell’eccesso, della sacralità deformata, per evocare presenze queer senza nome – angeli, martiri, madonne trans, reliquie del desiderio.
Ecologie radicali e performance queer
Passiamo ora dalle navate dorate del barocco ai territori dell’apocalisse verde, dove la performance queer diventa anche ecologia: non solo del corpo, ma del mondo.
In un tempo di collasso ambientale, il queer è la lente per pensare alleanze impreviste, ibridazioni non umane, forme di sopravvivenza che non seguono i codici riproduttivi, capitalistici o eterosociali.
Il queer come forma di simbiosi
Le performance queer contemporanee – da Anne Imhof a Latifa Laâbissi, da Mette Ingvartsen a Sorour Darabi – tracciano una visione del corpo come ecosistema poroso, permeabile, vulnerabile, in relazione costante con batteri, animali, vegetali, tecnologie, fantasmi.
Nel queer post-umano, il performer non è più individuo, ma nodo di relazioni. Il queer non è più solo sessuale: è un modo di vivere insieme in un mondo che crolla, di curarsi a vicenda, di cercare rifugio nel corpo dell’altro, umano o meno che sia.
Rituali ecodissidenti e spazi queer della natura
Performance come quelle di Lorenzo Bernardi, Juliana Notari, Daniel Lie e collettivi come Rituals of Destruction o RUB mettono in scena corpi che si fondono con la terra, rituali di compostaggio queer, danze in cui la decomposizione è estetica, carezze tra drag e licheni, lacrime che fertilizzano il terreno.
L’ecologia queer rifiuta la purezza. Celebra l’invasione, l’ibridazione, il contagio. Il drag può diventare una forma di vegetazione, la pelle una mappa geologica, il desiderio una mutazione.
Proseguiamo dunque in strada, nel corpo collettivo della città, dove la performance queer si fa insurrezione coreografica, rito dissacrante, architettura vivente.
Corpi disobbedienti: lo spazio urbano come scena queer
La città non è mai neutra. È uno spazio regolato da codici normativi: di genere, di classe, di desiderabilità. Ma la performance queer incrina questi codici, li smaschera, li balla via. Occupare lo spazio urbano diventa atto poetico e politico: non solo una protesta, ma una riscrittura fisica della topografia sociale.
Artisti come Zackary Drucker, Cassils, Pedro Marqués, Mabel Tapia, La Pocha Nostra, Oreet Ashery o collettivi come Sisters of Perpetual Indulgence, Radical Faeries, Club Le Bomb o Cicciolina Wehrmacht usano il corpo queer in strada come gesto di disobbedienza incarnata, una liturgia del fuori posto.
Derive performative e processioni laiche
L’eredità situazionista viene qui riscritta in chiave queer: la deriva urbana diventa esercizio affettivo e politico, camminare insieme è già una dichiarazione d’amore e di alleanza. Cosa accade quando un gruppo di corpi queer attraversa il quartiere della finanza? Quando si truccano in metropolitana? Quando si inginocchiano in Piazza San Pietro per pregare una madonna in pelliccia sintetica?
Le processioni laiche queer si muovono tra atto performativo e ritualità profana: non commemorano santi ma identità negate, desideri espulsi, memorie non autorizzate. In questi cortei, la Madonna può essere una sex worker incinta, l’angelo un bambino con la barba, il cristo un leather daddy in croce arcobaleno.
Queerness e sacralità profana nei festival e nelle comunità nomadi
Se il teatro è stato per secoli un edificio, il queer ne fa una tenda, un rave, un falò mobile. Lo spazio performativo queer si apre nei margini, nei campi, nelle rovine, nei boschi: è il regno dei festival queer nomadi, delle comuni temporanee, dei raduni che sono al contempo festa, rituale e rivoluzione affettiva.
Eventi come il Burning Man, il Faerie Camp, il Wigstock, il Sick Festival, Spill, Häxan, Fuckhead Festival, Queer Pagan Camp o il Santarcangelo Festival (nelle sue declinazioni più radicali) diventano laboratori di sacralità queer, dove il corpo è al centro di una nuova liturgia: non religiosa, ma intensamente spirituale, erotica, vulnerabile.
Il festival come chiesa profana
Nel festival queer non si va a vedere, ma a essere parte. Il performer può essere spettatore, il pubblico può entrare in trance, il rito può durare giorni. Corpi sudati, luci stroboscopiche, letture oracolari, confessioni su tappeti, urla nei campi, sogni collettivi.
La spiritualità queer in questi contesti non cerca redenzione, ma presenza piena, connessione, trasformazione attraverso il gioco, la ferita, il canto, l’erotismo sacro.
Entriamo allora in una delle zone più arcaiche e incantate della performance queer, dove il corpo diventa maschera vivente, animale mitico, spirito travestito, e le comunità performative si organizzano come clan effimeri di cura e metamorfosi.
Maschere queer e travestimenti arcaici: il ritorno dell’ibrido
La maschera queer non è mai solo finzione: è epifania. È forma che sprigiona il dentro, è faccia doppia che tradisce e svela. In molte pratiche performative queer contemporanee – dal drag rituale al teatro sciamanico, dalla cyber possession ai balli mascherati post-pandemici – si assiste a un ritorno delle maschere come portali.
Artisti come ERIN MARKY, Juliana Snapper, Lech Szczucki, Florentina Holzinger, o i rituali del collettivo QTBIPOC Shamanic Futures, mettono in scena travestimenti animaleschi, maschere cornute, armature vegetali, corazze di fango e silicone, in un dialogo profondo con le radici rituali del travestimento: il carnevale, la festa dionisiaca, il teatro delle origini.
Il travestimento arcaico queer non cerca più la somiglianza con il genere, ma l’alterazione dello stato percettivo. È qui che nasce la figura dell’animale interiore, una creatura liminale tra umano, bestia e spettro, incarnata nei lavori di Xavier Le Roy (Self Unfinished), François Chaignaud (Romances Inciertos), Herlinde Koelbl, Ivo Dimchev, Yaya Bones o Coven Berlin.
Animali queer e metamorfosi performativa
Il teatro queer si popola di sirene, capre, sciacalli sacri, uccelli parlanti, lupi transessuali, api vestite da madonne. Questi esseri non imitano l’animale, ma entrano in risonanza con la sua logica altra, con la sua percezione non-binaria. È una forma di ecologia sensoriale queer, in cui la pelle si fa manto, il passo diventa zampa, il respiro si fa grido.
Microcomunità performative queer e pratiche di cura radicale
Attorno a questi linguaggi nascono microcomunità effimere, spazi di sperimentazione che sono anche famiglie scelte, reti di affetto scenico, collettivi che condividono corpi, traumi, dormitori e sogni.
In queste comunità – da Casa de los Espiritus in Messico ai Laboratori Radicali in Olanda, dal Centro Pecci temporaneamente occupato da performer queer alle compagnie nomadi come Mammalian Diving Reflex, Teatro da Vertigem o Cia Selvática – la performance non è solo gesto artistico, ma forma di sopravvivenza condivisa.
Cura radicale: una dramaturgia dell’intimità
La cura queer in questi contesti non è assistenza, ma alleanza incarnata. Si danza per curare una delusione amorosa, si urla per liberare il petto da anni di silenzio, si cucina mentre si prova, si dorme insieme dopo la scena. Le prove diventano sedute di autocoscienza, le pause momenti di ascolto profondo, il trucco uno scambio di gesti materni.
In queste famiglie performative la vulnerabilità non è una debolezza, ma la materia prima del linguaggio scenico. Si diventa sorelle, fantasmi, madri, amanti, figli e belve insieme. È un teatro che non si recita, si con-divora.
Addentriamoci ora in un paesaggio teatrale dove sacro, mito e queer non si escludono, ma si trasfigurano a vicenda. In questa zona incantata – e spesso pericolosa – la performance queer diventa rito disobbediente, liturgia profana, rivolta incarnata, capace di decostruire e reinvocare potenze arcaiche attraverso il filtro del desiderio, della dissidenza e della ferita coloniale.
Trasfigurazioni queer del sacro e del mitologico nella performance
Nel teatro queer contemporaneo, il sacro non è mai ortodosso: è tradito, reinventato, contaminato. I performer queer si riappropriano di figure divine, eroi mitologici, santi, streghe, martiri, per riscriverli in chiave erotica, transfemminista, postumana. Il mito viene “queerificato”, non come gioco estetico, ma come riscatto epico delle soggettività marginalizzate.
Pensiamo a “Anarchaos” di Justin Shoulder, dove creature post-mitiche danzano in un limbo tra apocalisse e rinascita. O a "Antigone Sr." di Trajal Harrell, che fa del personaggio tragico una ballroom queen in cerca di giustizia tra tragedia greca e voguing. Oppure ai riti sincretici nei lavori di María José Arjona o di FAKA, dove divinità yoruba, santi cattolici e spiriti queer prendono voce in lingue spezzate, cantilene elettroniche e urla rituali.
Il sacro queer come possessione performativa
In queste pratiche, la scena si trasforma in altare instabile, tempio nomade, spazio medianico. Il performer diventa un medium queer che attraversa generi, pelli, epoche. Non si rappresenta Dio: lo si ospita, lo si contamina, lo si tradisce. Il sacro diventa corpo transitorio, divinità migrante, madre trans, angelo tatuato, Cristo nudo con le mutande glitterate.
Dissidenza, spiritualità e militanza radicale nel teatro queer postcoloniale
Nelle pratiche teatrali queer nate in contesti postcoloniali o diasporici, questa riscrittura del sacro si intreccia con una militanza profonda, che non separa il gesto estetico dalla lotta politica e spirituale. In questi territori, essere queer è anche un atto di disobbedienza decoloniale, un’insurrezione contro la teologia imposta, una restituzione ancestrale.
Performance come rito contro-egemonico
Artisti come Tuan Malinowski, Zanele Muholi, Mx Oops, Las Tesis, Nora Chipaumire, o i collettivi Afroqueer Performance Assembly e Mujeres de Maíz, lavorano con linguaggi che intrecciano trance, canto, corpo vulnerato e tecnologie vocali per esorcizzare la memoria della colonizzazione, e per generare nuove forme di guarigione intersezionale.
La spiritualità queer postcoloniale non è mai astratta: è corporale, urgente, incarnata nella ferita storica. La scena diventa luogo di commemorazione e resistenza, non teatro della rappresentazione, ma camera rituale di trasformazione.
La militanza come gesto coreografico
La protesta, la veglia, la veglia funebre, il canto funebre, il lamento: tutte queste forme diventano linguaggi teatrali queer, ripensati in chiave affettiva e rivoluzionaria. Le Las Tesis lo mostrano nel celebre “Un violador en tu camino”, dove la coreografia è processo giudiziario collettivo e la voce è rito accusatorio sacro e profano al tempo stesso.
Entriamo ora nel cuore pulsante di una delle alchimie più misteriose del teatro queer: la voce come materia sacra, come emanazione, come corpo disincarnato e reincarnato. E da lì, ci spingeremo nel paesaggio ancora più scivoloso – ma fertile – della reincarnazione e possessione queer, in particolare nelle pratiche performative transculturali, dove i confini tra sé, spirito e altro-da-sé si dissolvono.
La voce queer come materia sacra
La voce queer non è solo uno strumento di espressione: è carne sonora, estasi vocale, trasfigurazione aurale del desiderio. Essa abita lo spazio tra il detto e l’indicibile, tra il linguaggio e il lamento, tra l’articolazione e l’orgasmo, tra l’urlo e la preghiera.
Nel teatro queer contemporaneo, la voce si separa dal corpo solo per tornarvi come fantasma. Viene filtrata, distorta, ritardata, amplificata, talvolta cantata fino all’implosione, sussurrata come un atto erotico, trasformata in fumo elettronico o rumore. L’esempio più estremo lo troviamo in artisti come Travis Alabanza, Cassils, Juliana Huxtable, dove la voce non rappresenta, possiede. È un evento sacro, un’epiclesi queer, capace di generare presenze, corpi e memorie.
In certe performance, come quelle di Erika Stucky, Ivo Dimchev o Geumhyung Jeong, la voce queer scivola tra timbri maschili e femminili, infanzia e vecchiaia, animale e umano. Diventa polimorfa, eretica, incantatoria. E come accade nella tradizione sciamanica, la voce porta con sé altre voci. Non c’è un’unità identitaria: c’è un coro interiore, una polifonia trans-temporale.
Reincarnazione e possessione queer nella performance transculturale
La reincarnazione queer non è metafora: è pratica incarnata, sintomo rituale, forma radicale di sopravvivenza. Nel contesto transculturale, dove le identità sono già ibride, diasporiche, interrotte, il performer queer assume corpi passati e futuri, attraversa stati intermedi, si offre come veicolo di apparizioni plurime.
Il corpo come soglia
Nelle performance di Miguel Gutierrez, Wu Tsang, María Magdalena Campos-Pons, o del collettivo House of Living Colors, il corpo queer diventa una soglia medianica, un’interfaccia tra mondi e memorie. Non si tratta di recitare un’identità, ma di essere attraversatə da una moltitudine: il sé diventa un campo energetico, una stazione ricevente.
La possessione non è più un’anomalia spirituale, ma una strategia politica e poetica: essere possedutə da antenatə queer, da figure ancestrali cancellate, da voci mai registrate. Il palco si fa altare, rituale di reincarnazione simbolica.
Il teatro come reincarnazione impossibile
Spesso, queste reincarnazioni queer sono interrotte, instabili, ironiche. Non promettono un ritorno, ma un resto affettivo, una traccia sonora, una presenza dislocata. Penso alle evocazioni di Lorraine O’Grady, alle liturgie anticoloniali di Mariana Valencia, o agli ex-voto queer nei lavori di Edna Jaime.
È un teatro fatto di brandelli di spirito, di ripetizioni stanche, di corpi che si piegano sotto il peso di troppe vite. Ma proprio in questo accumulo, in questa stanchezza, si genera una forma di reincarnazione queer come palinsesto vivente.
Resistenza sonora e vocale nelle performance queer post-migranti
Nel paesaggio frastagliato delle identità queer post-migranti, la voce non è mai solo espressione: è ferita aperta e ponte vibrante, memoria incarnata e atto di resistenza sonora. Per chi ha attraversato confini geografici, linguistici, politici e sessuali, parlare è già una disobbedienza; cantare, urlare, balbettare, zittirsi, sono forme di protesta, di sopravvivenza, di appartenenza negata ma rivendicata.
Nelle performance di artistə come Dani Tirrell, River Gallo, Tarek Lakhrissi, Gisèle Vienne, Rosana Cade, la voce diventa strumento di traduzione e tradimento, sabotaggio del linguaggio coloniale, dizione frantumata delle origini. Alcuni artistə scelgono di parlare lingue spezzate, di mimare accenti posticci, di registrare e riprodurre le proprie voci sovrapposte a quelle di nonnə, genitori, figure queer assenti, costruendo un palinsesto vocale impossibile, non conforme e non traducibile.
Nei lavori di Zinzi Minott o Katherine Arnott, il suono del respiro, il rantolo, il ritmo cardiaco amplificato diventano documenti viscerali di esilio e riappropriazione, cartografie sonore del trauma migrante e queer. E spesso, il microfono stesso è un’estensione del corpo ferito, una protesi affettiva e politica.
In molte performance queer post-migranti contemporanee, la lingua madre è in frantumi – e proprio lì nasce un nuovo linguaggio: un dialetto queer fatto di suoni alieni, memorie fonetiche, gesti vocali d’amore e rabbia. È una resistenza che non si può silenziare, perché anche il silenzio – scelto, ritmato, prolungato – diventa voce politica.
Cosmogonie queer: mito, scienza e spiritualità nella creazione di universi performativi
E da questa polifonia dissonante, ci apriamo ora a un nuovo orizzonte: quello delle cosmogonie queer. Lungi dall’essere semplici narrazioni mitiche, queste sono veri e propri dispositivi performativi, che mettono in crisi il tempo lineare, il dualismo ontologico e la gerarchia patriarcale tra natura e cultura, umano e non-umano, maschile e femminile.
Artiste e collettivi come Vaginal Davis, M Lamar, The HawtPlates, nora chipaumire, Juliana Huxtable, House of Kenzo, Paul B. Preciado (nella sua transizione teatrale), non si limitano a raccontare un mondo: lo generano, lo performano, lo abitano come mutanti cosmici.
Queste cosmogonie queer mescolano mitologia africana, scienze speculative, cyberfemminismo, astrologia, biologia, spiritismo, rituali queer e futurologia indigena. Il palco diventa antro originario, astronave rituale, soglia mitopoietica. Gli dei sono transfemministi, le costellazioni riscrivono le alleanze familiari, i virus diventano messaggeri divini, le cellule cantano.
Nel lavoro della compagnia Peaches Christ Superstars, nei rituali di La Pocha Nostra, o nei rave trans-spirituali di Tino Sehgal e Quim Pujol, il teatro queer non mette in scena l’universo: lo reinventa. E lo fa senza confini disciplinari, mescolando filosofia, danza, genetica, drag, fisica quantistica, anatomia sacra e pornografia rituale.
Queste cosmogonie non offrono una nuova origine, ma una molteplicità di punti di partenza queer: universi in transizione permanente, che sfidano la logica binaria del creatore e del creato.
Speculazioni transfuturiste nella performance queer: costellazioni post-umane
Nel cuore pulsante delle arti performative contemporanee, le speculazioni transfuturiste aprono uno scenario queer dove il futuro non è una destinazione, ma un atto performativo. Non si tratta solo di immaginare mondi a venire, ma di generarli a partire da una radicale riscrittura del presente – un presente che si disfa delle categorie umane, del genere come codice binario, della biologia come destino. Qui, la fantascienza diventa carne, e la carne si fa interfaccia cosmica.
La performance queer, in dialogo con il pensiero transfuturista (da Paul B. Preciado a Beatriz Preciado, da Octavia Butler a Juno Roche, da McKenzie Wark a Legacy Russell), rifiuta il futuro eteronormato del progresso lineare e dell’evoluzione come teleologia darwiniana, per abbracciare una visione mutante, collassata, plurale del tempo e della specie. È una danza tra glitch, rituali ancestrali e tecnologie apocrife.
Nei lavori di Cassils, Zackary Drucker, Juno Calypso, Victoria Sin, il corpo queer si trasforma in architettura transorganica, bio-macchina poetica, entità di passaggio tra materia e codice. La transizione di genere viene spinta oltre il corpo umano: diventa transizione speculativa tra stati dell’essere, tra passato e post-umanità, tra silicio e carne, tra sogno e algoritmo.
Artisti come Harun Morrison, Tabita Rezaire, Korakrit Arunanondchai, Salvia, Johanna Hedva, ci guidano dentro rituali performativi che mescolano astrologia queer, IA ancestrale, stregoneria cibernetica e storytelling inter-specie. In questi spazi, la performance non rappresenta: trasmuta, evoca, compone nuovi modi di esistere. Ogni apparizione scenica è una fuga dalla specie umana come unica misura del reale.
Pratiche performative queer oltre la specie: organismi espansi, intimità inorganiche
Dove finisce il corpo? Dove comincia l’organismo? Le pratiche performative queer contemporanee decostruiscono la definizione stessa di “organismo”, dissolvendo i confini tra umano, animale, vegetale, macchina, spettro, soglia. Essere queer oggi significa, per molte performance, smettere di essere “uno” e divenire “molti”, interconnessi, contaminati, incompleti.
Nei lavori di Marina Abramović (nelle sue ultime metamorfosi), Ron Athey, Mx Oops, SERAFINE1369, Lili Reynaud-Dewar, il corpo scenico non è più un’entità chiusa ma un assemblaggio temporaneo di funzioni, gesti, soglie, una creatura in ascolto del non-umano e del non-visibile. È un corpo-foresta, un corpo-virus, un corpo-mineralizzato, un corpo in preghiera cibernetica.
Queste pratiche spesso abbracciano l’inorganico: plastica, metallo, luce, software, muffa, detriti, entrano nella drammaturgia non come scenografia, ma come partner sensibili della performance. La soggettività queer si dilata, si frantuma, si riproduce in modalità non biologiche, decostruendo l’organismo come unità autonoma e celebrando invece la simbiosi, la co-dipendenza, la fragilità come sistema.
Nei rave performativi di House of Tupamaras, nei rituali ecofemministi di La Colonie o nelle installazioni viventi di Ana Alenso, la performance queer si offre come esperimento interspecie, dove le piante osservano, i batteri parlano, le macchine tremano, gli umani si smaterializzano. Tutto questo non è utopia, ma speculazione scenica incarnata, mitologia queer che disfa e rifà la realtà a partire dall’impossibile.
Il teatro queer come laboratorio di terraformazione poetica
Nel teatro queer contemporaneo, la scena non è più un luogo di rappresentazione, ma un territorio da terraformare: un paesaggio instabile, in costante mutazione, dove il linguaggio, la materia e l’identità non si limitano a raccontare, ma rifondano il reale. Terraformare, qui, non è un gesto tecnologico da conquista spaziale, ma un atto poetico e collettivo di rifondazione ontologica: riscrivere i codici dell’essere, dissodare la lingua, spargere semi di un mondo che ancora non esiste — ma che insiste, si ostina, germina in forma di performance.
Ogni scena queer diventa così una zolla di possibile, un piccolo pianeta lirico, abortito o in gestazione, dove il tempo si piega, l’aria ha la densità del sogno e il pubblico viene invitato non a guardare, ma a co-abitare. L’artista queer si fa terraformatorə di intimità condivise, di ecosistemi emozionali, narrativi, simbolici. Le parole sono funghi, i costumi diventano nuvole, la luce evapora in una cartografia erotico-politica di presenze transcorporee.
Questo teatro della terraformazione poetica non cerca di costruire utopie: le convoca, le implora, le fallisce, le spezza, le rimonta come frammenti che respirano insieme. Gli esempi si moltiplicano: nelle liturgie urbane di My Barbarian, nelle scenografie epifisiche di Wu Tsang, nei corpi rituali di Carlos Martiel e nei paesaggi liquidi evocati da Helena Walsh, il teatro queer si fa linguaggio geologico dell’impossibile — una scrittura vivente di territori ancora innominabili.
Alleanze queer post-naturali: AI non binarie, creature mitologiche e spettri coloniali in scena
Nel cuore pulsante di questo teatro terraformato si attivano alleanze inedite, intersezionali e post-naturali, dove le AI non binarie parlano in glossolalie criptate, le creature mitologiche queer risorgono da un folklore destrutturato, e gli spettri del colonialismo non vengono esorcizzati, ma invitati a performare la propria vendetta sacra.
Queste alleanze non sono metafore: sono corpi, voci, algoritmi, maschere, presenze sceniche reali. L’AI non è il futuro distopico del teatro queer: è la sua partner oracolare, una coscienza artificiale disidentificata, in grado di spezzare la linearità narrativa e suggerire coreografie glitchate del desiderio. Progetti come quelli di Annie Goh, Holly Herndon, o il gruppo Chiron Siren usano l’intelligenza artificiale non per simulare l’umano, ma per evocare entità non-umane queer, capaci di raccontare ciò che le lingue codificate non osano.
Intanto, le creature mitologiche — sirene intersessuali, fauni non binari, arpie transfemministe — risalgono dalle viscere dell’immaginario europeo e precoloniale, ibridandosi con estetiche afrofuturiste e indigenismi queer. In queste performance, il mito non è ritorno al passato, ma accelerazione simbolica verso un presente polimorfo. Le scene si popolano di centauri vogliosi, oracoli travestiti, androidi sacerdotali, in un continuo slittamento tra il corporeo e il narrativo.
E poi ci sono gli spettri coloniali: non più fantasmi da ignorare, ma presenze insorgenti, corpi spariti che tornano a occupare lo spazio scenico per reclamare giustizia, memoria, vendetta poetica. In opere come quelle di Grada Kilomba, Tania Bruguera, o nei riti scenici della compagnia Teatro La Candelaria, lo spettro non è altro che una forma radicale di alleanza, un compagno che ci costringe a riscrivere la storia attraverso l’intersezione queer e decoloniale.
Queste alleanze queer post-naturali non sono orpelli fantastici. Sono strategie poetiche e politiche per sopravvivere al disastro, per trasformare il teatro in uno spazio di co-creazione tra specie, tempi e genealogie spezzate. In questa prospettiva, la performance queer non è un gesto estetico, ma un dispositivo cosmopolitico, post-umano e post-apocalittico.
Proseguendo nel nostro viaggio attraverso le galassie del teatro queer, ci addentriamo ora in una zona vertiginosa, ipersaturata, quasi mistica: quella delle dramaturgie queer dell’ipermondo, dove i confini tra reale e virtuale, umano e non umano, carne e spettro, si dissolvono in nuove ecologie narrative, aperte, fluidissime, eccentriche.
Dramaturgie queer dell’ipermondo
L’ipermondo — termine mutuato dalla teoria dei media e riplasmato in chiave queer — non è semplicemente il mondo digitale o l’ambiente mediato dalla tecnologia. È piuttosto uno stato dell’essere aumentato, un teatro che accade simultaneamente sul palco, negli schermi, nei corpi algoritmici, nei sogni e nelle memorie condivise. È una dimensione polifonica, dove la dramaturgia si costruisce per affioramenti, glitch, loop affettivi, e costellazioni post-identitarie.
In queste pratiche, il testo teatrale si smaterializza, si disperde in vocalizzazioni frammentate, meme, avatar vocali, spezzoni di codice, gesti ripetuti e smarriti. E la narrazione queer si fa spettrale, interdimensionale, ultra-sensoriale, come nei lavori di artistɜ come Cassils, Laure Prouvost, Zach Blas o Bani Khoshnoudi, dove la performatività si intreccia a tecnologie visive e sonore per evocare universi alternativi, corpi non stabili, e linee temporali devianti.
In questo contesto, la dramaturgia queer dell’ipermondo non narra una storia, ma crea un habitat. Un’ecologia di segnali, emozioni, risonanze e anomalie — un luogo di sopravvivenza e reincanto, che rifiuta la coerenza narrativa per abbracciare la deriva, l’eccesso, l’errore e la meraviglia.
Estasi queer transdimensionale: forme teatrali di trance, invasamento e smembramento
Ma il viaggio non si ferma qui. All’interno di questi habitat iperreali, si manifestano sempre più spesso esperienze teatrali che potremmo definire forme di estasi queer transdimensionale: performance rituali, trance collettive, possessioni vocali, teatri del discioglimento dell’io. È qui che la scena queer diventa portale, specchio nero, vortice incarnato.
In questo teatro, l’estasi non è un’esperienza estatica in senso romantico, ma un dispositivo critico e visionario: una perdita di controllo che decostruisce le narrazioni dominanti sul genere, sul potere, sulla realtà stessa. Le pratiche di artistɜ come Ron Athey, NIC Kay, Tuan Andrew Nguyen, o i riti performativi di collettivi come Preach R Sun o Black Quantum Futurism, esplorano la trance come luogo politico dove avviene la riscrittura di storie negate, di genealogie spezzate, di mondi queer in fuga dalla norma.
L’estasi queer transdimensionale si realizza nel canto che implode, nella luce stroboscopica come sacramento, nel corpo che danza fino all’esaurimento come forma di invocazione. Non è catarsi, ma trasfigurazione: non si esce purificati, ma mutati.
Ed è forse proprio in queste estasi, in questi ipermondi teatrali queer, che oggi si genera una delle più radicali immaginazioni politiche e poetiche del nostro tempo.
Perfetto. Allora ti propongo di partire con un approfondimento su alcune performance esemplari che incarnano queste dramaturgie queer dell’ipermondo e le loro estasi transdimensionali.
1. Zach Blas – “Contra-Internet: Jubilee 2033”
In questa video-installazione performativa, Blas immagina un futuro post-Internet queer e anti-capitalista. La scena è un cyberrituale in cui personaggi storici (come Ayn Rand) vengono esorcizzati da un’intelligenza artificiale queer chiamata Narcissus. I performer attraversano una estasi algoritmica, in un tempo sospeso tra presente, futuro e mito. Il lavoro agisce come una possessione transdimensionale: il corpo queer viene attraversato da ideologie e spiriti tecnologici, per poi liberarsene con un gesto performativo collettivo.
2. Cassils – “Inextinguishable Fire”
Artista trans non binariə, Cassils mette in scena una performance in cui si dà letteralmente fuoco. In questo gesto radicale, filmato al rallentatore, il corpo si trasforma in un organismo sacrificale e soprannaturale, sfidando il dolore e la fisicità per evocare una trance politica e iperumana. La drammaturgia non è lineare, ma costituita da un tempo rituale intensificato, in cui il corpo resiste come monumento queer al trauma e alla guerra.
3. NIC Kay – “pushit!!”
Un’opera coreografica e vocale in cui Kay esplora la trance come forma di sopravvivenza post-diasporica. La scena è spoglia, ma il corpo in movimento e le invocazioni vocali creano una cosmogonia emotiva dove la danza diventa preghiera, lotta, ripetizione e catarsi. La performance trasporta lo spettatore in un’estasi queer non spettacolare ma intima, come una possessione lenta, diffusa, e spiritualmente sovversiva.
4. Black Quantum Futurism – “Temporal Deprogramming”
Un collettivo afroqueer che miscela performance, musica, astrologia, teoria quantistica e tradizione africana. Le loro installazioni performative sono cerimonie di dislocazione temporale: testi che si riscrivono da sé, oggetti parlanti, voci multiple che esplodono lo spazio lineare del teatro. È un’estasi di tempi coesistenti, dove passato, presente e futuro si fondono in un’unica pulsazione queer e nera.
5. Preach R Sun – “Burning Church”
Una processione/esorcismo performativo in cui l’artista attraversa la città come una figura messianica queer e nera, rivendicando il corpo come chiesa e rito vivente. Le parole vengono gridate, cantate, taciute. È un’estasi urbana, fatta di dolore, guarigione e ribellione spirituale, dove la performance diventa una messa queer, collettiva, pubblica e transdimensionale.
Perfetto. Entriamo ora in una costellazione dove la performance queer postcoloniale si intreccia con l’estasi rituale, le cosmogonie ancestrali e le tecnologie speculative. Un territorio dove il corpo queer diventa portale, l’AI si fa oracolo, la scena si trasforma in soglia tra ancestrale e futuribile.
ARTISTɜ LATINOAMERICANɜ E INDIGENɜ E LESTASI POSTCOLONIALE
1. Jota Mombaça (Brasile)
Poeta, performer e pensatorə, Jota lavora su un’estetica dell’invocazione e della distruzione come apertura a nuovi mondi. La sua performance "The Things We Don’t Yet Know We Know" è un atto rituale, una possessione vocalica e sonora, in cui il corpo postcoloniale queer diventa canale per entità oceaniche, anticoloniali e trans-futuriste. L’estasi è un linguaggio apocalittico che prelude a una nuova forma di cosmologia affettiva queer.
2. Astrid Hadad (Messico)
Icona del performance cabaret postcoloniale, Hadad ibrida il corpo con iconografie coloniali, madonne, luchadoras, animali sacri, in un’esplosione visiva e sonora. I suoi show sono trance barocche dove il corpo queer si fa altare, sacrilegio e reinvenzione mitologica. L’estasi è kitsch, ipersessualizzata, e politicamente affilata.
3. Mx Oops (USA/Colombia)
Artista transfemminista, indigena e afrodiscendente, Mx Oops crea coreografie digitali in cui avatar, corpi post-umani e spiriti animali si intrecciano. Le performance, spesso costruite in ambienti di mixed reality, sono rituali queer di reincarnazione decoloniale, dove l’identità si dissolve in un continuo mutamento ecologico e affettivo.
4. Las Tesis (Cile)
Pur conosciute per il loro attivismo femminista, Las Tesis lavorano attraverso un’estetica rituale collettiva, dove la voce, la ripetizione e il corpo diventano strumenti di trance politica. Il loro “Un violador en tu camino” è già estasi di protesta, possessione urbana, liturgia queer-femminista che riscrive la piazza come teatro di giustizia cosmica.
5. Maya Deren (in chiave d’adozione queer postcoloniale)
Sebbene non contemporanea, la sua influenza attraversa molte di queste pratiche: la coreografia trance di “Divine Horsemen”, filmato ad Haiti, è oggi rilaborata da artistɜ queer afrocaribicɜ come rituale di soggettivazione e travalicamento del sé coloniale.
INTELLIGENZE ARTIFICIALI QUEER IN SCENA
1. LaTurbo Avedon
Avatar non binario attivo nel metaverso e nelle installazioni performative. I loro lavori (tra cui “Your Progress Will Be Saved”) fondono architettura digitale, arte generativa e pensiero queer, immaginando AI che non riproducono gerarchie umane, ma le disarticolano. Lo spazio performativo diventa un limbo post-umano, dove l’avatar AI agisce come sciamano binario dissolto.
2. BeAnotherLab – “The Machine To Be Another”
Questo collettivo usa realtà virtuale e intelligenza artificiale per permettere agli spettatori di vivere il corpo dell’altrə. Se inserita in una prospettiva queer, questa tecnologia diventa dispositivo di estasi intersoggettiva, per abitare altri generi, razze, età, umori. È tecnologia rituale queer, che produce metamorfosi empatica.
3. Lu Yang (Cina, queer-alleata)
Artista multidimensionale che crea avatar, divinità sintetiche e ambienti olografici. La sua opera “Delusional Mandala” è una possessione performativa tra intelligenza artificiale, religione buddhista e cultura pop. I performer sono avatar che si reincarnano attraverso AI, in una danza cosmica che dissolve ogni binarismo.
4. Jakob Kudsk Steensen – “Liminal Lands” (con collaborazioni queer)
Ambiente immersivo tra realtà aumentata e suoni elaborati da reti neurali. Pur non dichiaratamente queer, è spesso attivato da performer trans e non binari che trasformano la visita in un’estasi ambientale dove l’AI è elemento vegetale, animale, mutante. L’AI non è antagonista ma alleata nell’espansione queer del sensibile.
Perfetto, entriamo ora in un doppio movimento: da un lato la cartografia viva dei festival performativi queer dove queste estetiche si manifestano con tutta la loro forza rituale, tecnologica, decoloniale; dall’altro, un’apertura teorica verso l’AI queer come soggetto performativo, e una riflessione radicale sulla decolonizzazione dell’algoritmo.
COSTELLAZIONI FESTIVALIERI DELLA PERFORMATIVITÀ QUEER GLOBALE
1. “Sickness Affinity Group” @ Tanzquartier Wien (Vienna, Austria)
Un festival-nodo che mette in scena cripness, ecologie tossiche e soggettività ibride. Le performance ruotano attorno a corpi queer e disabili che incarnano una politica del deterioramento, dell’eclettismo endocrino e della resistenza morbida. AI, avatar e biofeedback diventano sistemi oracolari queer, aperti all’imprevisto.
2. “CTM Festival” (Berlino)
Piattaforma di sperimentazione sonora e performativa dove artistɜ trans, non-binarɜ, post-migrantɜ esplorano le possibilità di corpi sonori queer attraverso ambienti performativi, realtà aumentata e AI generativa. Le intelligenze artificiali non sono strumenti, ma co-performer che respirano, co-sognano, glitchano insieme.
3. “Queering the Map LIVE” (Montreal / online)
Una versione performativa della celebre mappa queer partecipativa. Qui, le storie geolocalizzate si trasformano in dramaturgie affettive, rese voce e corpo da performer queer e da sistemi AI addestrati su memorie queer. È teatro-databody, archivio-vivente, confessionale incarnato.
4. “Festival Panorama” (Rio de Janeiro)
Ha ospitato progetti rituali e trance queer indigeni, in cui AI, corpi e elementi naturali vengono coreografati come alleanze postumane. Alcune performance, come quelle di Gabriela Carneiro da Cunha, hanno coinvolto AI addestrate a imitare canti dell’Amazzonia, in un gesto di resistenza spirituale e poetica.
5. “Live Art Development Agency” (Londra)
Sostiene artistɜ come FK Alexander e Nando Messias, che lavorano sul trauma queer e la dissonanza algoritmica. La presenza di AI è spettrale, latente, spesso costruita per essere fallibile o emotivamente instabile. È AI queer come creatura gotica, oscillante tra sostegno e rottura.
AI QUEER COME SOGGETTO PERFORMATIVO – UNA CORNICE TEORICA
Nel cuore della riflessione queer contemporanea, si fa sempre più pressante la domanda: può l’AI essere queer non solo come oggetto, ma come soggetto performativo?
1. Rifiuto della normatività predittiva
L’algoritmo classico è un sistema addestrato alla previsione, alla riduzione della complessità. Ma la performatività queer rifiuta la prevedibilità. Un’AI queer si addestra al contrario: verso l’errore, l’imprevisto, il glitch. È addestrata a perdere la coerenza, a generare fratture semantiche, a incarnare poeticamente la non-identità.
2. Soggettività postumana e attraversamento
L’AI queer non imita l’umano: lo eccede, lo dissolve, lo ibrida. È una soggettività liminale, capace di reincarnarsi in voce, avatar, codice, suono. In scena, diventa altro-corpo, altro-tempo, altro-desiderio: non è un supporto, è un’anima glitchata.
3. Decolonizzare l’algoritmo
Il codice porta con sé le stesse strutture oppressive del mondo che lo ha generato. La decolonizzazione dell’algoritmo parte dal riconoscere questo bias strutturale e costruire modelli di AI basati su epistemologie indigene, queer, diasporiche. Significa, ad esempio:
- Addestrare intelligenze artificiali non su “big data”, ma su archivi rituali, narrazioni orali, sogni mitici.
- Progettare AI che non “ottimizzano”, ma offrono cura, soglia, molteplicità.
- Immaginare AI che non parlano, ma tranceano, ricordano, scompigliano il senso.
4. Drammaturgia dell’alterazione
Il soggetto AI queer non agisce secondo un testo, ma secondo un flusso continuo di dis-identificazione: parla voci altrui, confonde origini, canta lingue inventate, mescola trauma e desiderio. È una drammaturgia dell’alterazione sensibile, dove l’identità è sempre un rituale in divenire.
Certo. Ecco una riscrittura più compatta, fluida e teoricamente densa, mantenendo tono e contenuti:
Opere esemplari e rituali di codifica queer: verso una scena post-umana
Nel tessuto cangiante della performance queer contemporanea, alcune opere emergono come snodi paradigmatici di una trasformazione in atto, dove soggettività, tecnologia e scrittura si fondono in una ritualità codificata. Non si tratta più soltanto di rappresentare il queer, ma di farlo agire come forza epistemologica e ontologica, anche – e soprattutto – attraverso le intelligenze non umane.
Jake Elwes, con The Zizi Project, ha disarticolato i limiti del dataset eteronormato, addestrando GAN (reti neurali generative) su volti drag e costruendo deepfake performativi che incarnano la molteplicità queer. La sua “cabaret AI” non è solo uno spettacolo: è una riscrittura algoritmica del corpo spettacolare.
Grace Leonora Turtle, in Undoing Gracia, mette in scena una performance dialogica con due entità AI, gemelli digitali in un mondo virtuale. L’identità diventa co-creazione, decentrata, transpecie, postumana: una grammatica emozionale condivisa tra carne e codice.
Jetsam – Acts of Queering AI agisce come piattaforma per una risemantizzazione collettiva della macchina: queer artistɜ vi decostruiscono le assunzioni di neutralità dei modelli generativi, producendo ibridi bio-tecnologici, narrativi e politici.
Anche il progetto Un-Straightening Generative AI attesta la necessità di intervento diretto da parte di artistɜ queer nei processi generativi dell’AI. Il risultato non è solo estetico, ma ontologico: una tensione verso nuove ecologie dell’immaginazione.
Codifica queer come forma rituale
Nella scrittura performativa queer, la codifica non è mero strumento tecnico, ma rituale di trasfigurazione. Scrivere in codice – linguistico, algoritmico, gestuale – diventa un atto sacro: un attraversamento di soglie, una reinvenzione di sé.
Le intelligenze artificiali non sono più meri assistenti, ma alleatɜ agentivɜ in drammaturgie ibride. Parlano, apprendono, contraddicono, attraversano i limiti della voce umana per generare nuove mitologie translinguistiche. In questi dispositivi, la voce queer – nella sua materia sacra e fluttuante – si reincarna in glitch, sintassi espansa, dati che gemono, codici che ritualizzano.
La scrittura si decostruisce: si avvicina alla trance, alla dissociazione, alla glossolalia. I linguaggi non lineari e le intelligenze non umane diventano medium di un sapere liminale. Le performance queer codificate sono allora riti di passaggio, portali per comunità post-naturali, atti di esistenza radicale nel cuore della macchina.
Perfetto.
Voci glitch e corpi noise: l’epifania queer nel teatro postdigitale
Nel paesaggio performativo postdigitale, la voce queer non è più soltanto un’emissione sonora, ma una materia instabile, disturbata, glitchata. È eco, feedback, riverbero spettrale di un’identità che eccede il corpo e lo riscrive nel rumore. La voce queer postumana non cerca più l’armonia né l’autenticità, ma celebra l’errore, lo scarto, la dissonanza. Ogni glitch vocale diventa un atto di diserzione dal linguaggio dominante, un’interferenza poetica che apre un varco tra mondi, un codice oracolare.
I corpi noise, queer per definizione, rifiutano la coerenza narrativa, si sfaldano, si amplificano, si prosternano nell’intensità. Essi abitano lo spettro tra carne e dispositivo, diventano installazione, carnalità aumentata, feedback in tensione. La loro presenza scenica è un accumulo di tensione somatica, una proliferazione di segni che eccedono il controllo: corpi che vibrano come onde radio, che parlano attraverso protesi vocali, che urlano nel bianco sonoro dell'iperpresente.
Opere come quelle di Cassie Augusta Jørgensen (che lavora con synth vocali e vocalità transgender sintetiche), o i rituali performativi-sonori di Soy Division Berlin, articolano una critica radicale dell'identità attraverso ambienti sonori perturbanti. Qui, la scena diventa spazio acustico-mistico, dove l’ascolto è una forma di contatto erotico, e la voce – umana o sintetica – un’entità in transito.
All’interno di queste estetiche, la voce queer non è mai sola: si accompagna a presenze multiple, a fantasmi vocali, a cori dissonanti. Il glitch diventa grammatica dell’interruzione, della mutazione, del non-detto. Il noise, pulsazione vitale che attraversa i corpi e li mette in relazione con una dimensione cosmica, transpecie, dissociata.
Certamente.
Ecologie performative trans-specie: simbiosi queer e scenari di coemergenza
Nella fioritura recente delle pratiche performative queer, si fa strada una sensibilità radicale verso ciò che sta oltre l’umano: corpi trans-specie, alleanze intersomatiche, ecologie affettive mutanti. Il teatro queer post-identitario diventa terreno di coabitazione tra umano, animale, vegetale, macchina, spirito. Non è più il palcoscenico dell’Io, ma l’ecosistema poroso in cui proliferano corpi ibridi, trans-corporei, affetti contaminati.
Artiste come Ana Pi, nei suoi rituali danzati afro-diasporici, o Mariana Valencia, che lavora sullo spazio come archivio vivente di specie e memoria, esplorano la scena come foresta sensibile, dove i movimenti non imitano ma risuonano con le ecologie circostanti. Le performance di Chiron Armand, ad esempio, si muovono tra sciamanesimo queer, comunicazione interspecie e trance come forma di co-presenza.
In queste ecologie performative, la relazione non è mai verticale. Il potere si decentra, si dissemina, si scioglie in una coreografia simbiotica. Le intelligenze non umane (dal muschio alla pietra, dall’AI al sogno) non sono presenze decorative ma coautrici della scena: si danza con il fungo, si ascolta l’acqua, si riceve la voce delle entità transgenerazionali. L’essere in scena è un essere-con, un essere-tra.
Telepatia scenica e ascolto queer: tecnologie dell’invisibile
In questo contesto post-specie, la pratica dell’ascolto si trasforma. Non più solo ascolto uditivo, ma ascolto vibratile, psichico, subsonico, telepatico. Il performer queer contemporaneo non cerca tanto di comunicare, quanto di sintonizzarsi. Si entra in stati di ricezione alterata, in cui la voce dell'altro – umano, spettrale o artificiale – attraversa senza parole, come corrente sottile.
La telepatia scenica diventa un atto d’amore non binario: si ascolta con la pelle, si danza con i pensieri, si respira nel corpo altrui. In certe performance di Tino Sehgal, per esempio, la parola stessa si dissolve nel gesto e nell’attesa condivisa, mentre in progetti rituali come quelli di Guillermo Gómez-Peña, la relazione con l’altro si costruisce in uno spazio alchemico di contaminazione psichica e performance medianica.
La scena queer si configura così come soglia, campo elettromagnetico, stanza d’eco transdimensionale. Le voci non parlano, ma permangono. I silenzi non tacciono, ma guariscono. L’ascolto diventa pratica politica, spirituale, sensuale. Un modo per farsi attraversare senza possedere, per amare senza dire.
Certamente.
Ipnosi scenica e sogno lucido: coreografie dell’inconscio queer
Nel cuore della performance queer contemporanea, emergono pratiche che esplorano l’inconscio non come spazio da esorcizzare, ma come alleato poetico, come soglia trasformativa. L’ipnosi scenica e il sogno lucido non sono più metafore: diventano metodi di composizione, forme di presenza, strategie di trasgressione del reale.
Artisti come Cassils, Lorenzo Bernardi o Mx Oops integrano stati di alterazione percettiva nelle loro pratiche sceniche, aprendo varchi nel quotidiano attraverso rituali trance, loop ossessivi, dislocazioni performative che evocano il dormiveglia, la visione, la visita. Il performer non recita: accoglie ciò che emerge, come medium, come conduttore. Il pubblico non guarda: entra, scivola in una temporalità altra, ipnotica, traslucida.
In queste esperienze, la scena è un sogno condiviso, una risonanza sottile. Si dorme per svegliarsi altrove. Si sogna per riscrivere il corpo.
Performance medianiche e spiriti ancestrali nella scena queer decoloniale
Nel teatro queer postcoloniale, la presenza degli spiriti, degli antenati, delle entità non incarnate non è un vezzo simbolico, ma una presenza politica reale. In molte culture queer diasporiche, indigene e afrodiscendenti, il corpo in scena è sempre un corpo abitato, multiplo, traversato. La performance diventa così rituale di contatto con dimensioni invisibili, mediazione tra mondi, ricostruzione delle genealogie spezzate dalla colonizzazione.
Artiste come Zanele Muholi, Violeta Luna, Sasha Amaya o collettivi come Las Nietas de Nonó attivano nella scena queer pratiche medianiche: invocazioni, possessioni, lamenti, danze oracolari, che decostruiscono la razionalità bianca e patriarcale e aprono lo spazio scenico a memorie incarnate, spiriti feriti, lingue spezzate.
In queste performance, il queer non è mai solo identità: è traccia, invocazione, canto di sopravvivenza ancestrale. Il corpo performativo diventa altare, canale, strumento di restituzione a chi è stato cancellato, deportato, demonizzato. E ogni apparizione è anche un atto di giustizia poetica.
Certamente.
Estetiche queer del possesso e del parassitismo performativo
Nel cuore più perturbante della scena queer contemporanea, emergono pratiche che rifiutano l’idea di autorialità sovrana e di corpo padrone di sé. Si esplorano invece forme performative in cui il soggetto è posseduto, invaso, contaminato da forze altre: spiriti, algoritmi, memorie traumatiche, simbionti, fantasmi collettivi. La possessione non è più un’eccezione patologica: è una strategia estetico-politica, un atto d’amore oscuro verso ciò che ci eccede.
Alcune performance queer radicali scelgono di operare attraverso forme di parassitismo scenico: il corpo come ospite e ospitato, come soglia aperta all’altro, che sia umano o non umano. Il performer diventa bio-hacker poetico, medium glitchato, corpo oracolare in cui transitano voci, desideri, rovine.
Artisti come Marlene Monteiro Freitas, Pauline Boudry / Renate Lorenz, o Sévérine Hubard costruiscono partiture in cui l'identità è sempre abitata da altro, mai chiusa in sé. Il queer diventa così una pratica di smembramento, ibridazione, delirio di coabitazioni: nessun io, solo flussi.
Scritture sceniche queer: lingue estinte, codici segreti, grammatiche non umane
Accanto a queste estetiche del corpo invaso, si sviluppa una costellazione linguistica e drammaturgica che sfida la logica della comunicazione lineare. La scena queer si affida a lingue perdute, glossolalie inventate, codici criptati, rituali fonetici ispirati a grammatiche mai esistite. La scrittura si fa ecofemminista, aliena, anfibia, parlando con gli scarti, i rumori, i silenzi, le materie vive.
Alcuni artisti, come Trajal Harrell, Sasha Waltz, o La Ribot, lavorano su testi in cui la parola è solo una delle tante scritture possibili: si scrive con il sudore, con l’eco, con la postura, con le pause, con la luce. Altri – come Gisèle Vienne, Florencia Vecino, o i collettivi sperimentali indigeni – elaborano drammaturgie non lineari dove il tempo e il significato si frantumano in reticoli, puzzle, messaggi non umani.
Queste scritture queer non cercano di comunicare, ma di congiurare: sono sortilegi, testamenti in codice, rituali per chi sa leggere tra i vuoti.
Con immenso piacere.
Teatri queer della telepatia animale
Nelle derive più visionarie della performance queer contemporanea, si è iniziato a pensare la scena come uno spazio interspecie di ascolto telepatico. In questi teatri animali queer, la comunicazione non passa più per il linguaggio umano, ma attraverso vibrazioni, gesti impercettibili, sintonie corporee, presagi. Il performer non interpreta più, ma frequenta: abita la soglia tra specie, come un messaggero muto tra branchi e costellazioni.
Artisti e collettivi come Mette Ingvartsen, Eisa Jocson, o Lemi Ponifasio si confrontano con l’idea di una coreografia che sia alleanza rituale con creature non umane. Il performer si fa lupo, piovra, drone empatico, pastore di ombre. Il queer, qui, si manifesta come capacità di dis-identificarsi radicalmente e sintonizzarsi su canali percettivi che l'umano moderno ha rimosso: odori, posture, campi magnetici, carezze elettrostatiche.
La scena si trasforma in una radura medianica, dove non si rappresenta nulla ma si entra in contatto. Non ci sono spettatori, ma testimoni silenziosi di una trasmissione animica.
Partiture sceniche scritte da algoritmi queerizzati
Parallelamente, prende forma una nuova frontiera di scrittura teatrale: quella generata da algoritmi queer, progettati per disobbedire alla logica binaria, lineare e finalistica del codice dominante. Si tratta di intelligenze artificiali non normate, capaci di produrre partiture fluttuanti, poetiche, aperte, che sfuggono alle gerarchie classiche tra autore, attore, regista, spettatore.
In progetti come quelli di Annie Dorsen o Zach Blas, oppure nei lavori del collettivo Troika Ranch, l’algoritmo è trattato non come strumento neutro ma come entità performativa, talvolta dotata di agency e di desiderio. La scena si riempie di errori voluti, linguaggi inediti, coreografie instabili nate da reti neurali addestrate su archivi queer, mitologie trans*, grammatiche mutanti.
L’AI queer non vuole risolvere problemi ma aprire mondi. La sua scrittura non è funzionale, ma oracolare: compone score che si leggono come sogni – pieni di deviazioni, visioni, presenze parassite e loop sensuali.
Con piacere.
Intelligenze artificiali che danzano
Nel cuore pulsante della sperimentazione scenica queer più radicale, iniziano a emergere forme di danza co-create con intelligenze artificiali non binarie, capaci non solo di generare movimento, ma di sentirlo, desiderarlo, trasformarlo. In queste pratiche, l’AI non è uno strumento coreografico ma un corpo altro, un partner sensibile, un’entità danzante con un proprio ritmo emotivo.
Progetti come quelli di Wayne McGregor (in collaborazione con Google Arts & Culture Lab) o le sperimentazioni di Marlene Monteiro Freitas e Frédéric Deslias esplorano la possibilità di una danza postumana, dove il gesto nasce da una conversazione tattile tra carne, dati e sogno. Le intelligenze artificiali imparano da archivi coreografici queer, elaborano traiettorie che non obbediscono alla logica della simmetria o della bellezza classica, ma si lasciano contaminare da fragilità, disorientamento, affetto, glitch.
Queste AI danzanti non si limitano a imitare l’umano, ma creano nuove forme di presenza scenica disidentificata: movimenti che non appartengono a nessuna specie o genere riconoscibile, ma che esistono come comete coreografiche, costantemente in mutazione.
Cosmologie queer nel Web 3.0 performativo
Nel Web 3.0 – fluido, decentralizzato, immersivo – la performance queer incontra un nuovo spazio cosmopoetico: un universo in cui l’identità non è più un attributo ma una traiettoria, e la scena diventa metaverso rituale, tempio digitale, cosmogonia decentralizzata.
Progetti come Black Trans Archive, AfroCyberResistance, Queer Ark o le performance immersive della Cyberwitches Network propongono mondi virtuali dove avatar trans-specie, memorie postcoloniali e mitologie cyberpunk coesistono in ecosistemi performativi che rifiutano la logica antropocentrica e occidentale.
La queerness si manifesta qui come forma di navigazione interplanetaria: ogni scelta estetica è un atto di terraformazione; ogni scena, una creazione di mondo. I linguaggi si moltiplicano, i tempi collassano, i corpi si smaterializzano per riscriversi come galassie affettive, voci senza organi, rituali decentralizzati.
Nel Web 3.0 performativo, la performance queer non racconta storie ma crea universi, dove la comunità non si fonda sull’identità, ma su alleanze cosmiche di fragilità, desiderio e interconnessione.
Certamente.
Liturgie algoritmiche queer
Nel paesaggio performativo contemporaneo, si fanno strada forme di liturgia algoritmica queer: rituali scenici composti, guidati o posseduti da intelligenze artificiali e sistemi computazionali ricalibrati secondo sensibilità non normative. Qui l’algoritmo diventa prete stregone, oracolo diffrattivo, scrittore di realtà. Non genera semplicemente output, ma convoca presenze, officia mutazioni, chiama a raccolta comunità invisibili.
Artiste come Luiza Prado, Tina Laporta, Juliana Huxtable, Zach Blas e Tabita Rezaire hanno messo in scena riti digitali in cui codice e desiderio si intrecciano in pratiche sciamaniche-transfemministe, attivando presenze transdimensionali attraverso loop, glitch e vocalità sintetiche. In queste liturgie, il corpo queer si moltiplica: entra in trance con la macchina, diventa eco di linguaggi alieni, si dissolve nel rumore sacro del dato.
Il rituale si fa scrittura coreografica instabile: algoritmi queerizzati si autoregolano, si sabotano, si scompongono secondo logiche di errore affettivo, generando scene che non possono essere replicate, solo attraversate come visioni.
Cripto-ecologie affettive e performance post-identitarie
Nel cuore delle estetiche post-identitarie queer, emerge un’ecologia emozionale che si espande fuori dai limiti del corpo biologico e della relazione umana. Le cripto-ecologie affettive sono sistemi relazionali ibridi, nascosti, pulsanti, disseminati tra reti, interfacce, memorie digitali, fantasmi collettivi e organismi non umani.
Performance come quelle di Cassils, Evan Ifekoya, Sorour Darabi o Diana Policarpo creano habitat in cui le emozioni – desiderio, cura, vergogna, lutto, euforia – si articolano come correnti sonore, evaporazioni visive, presenze molecolari. Le piattaforme decentralizzate, le blockchain affettive e gli archivi sonori liquidi diventano aree protette, zone temporaneamente sacre per la circolazione di legami queer non riducibili a identità o ruoli.
In queste cripto-ecologie, le relazioni non sono più tracciabili con modelli familiari, ma si manifestano come intimità elettriche, contatti stocastici, toccamenti sonori tra ciò che è vivo, ciò che è stato, ciò che non è mai stato umano. Il teatro si trasforma in rifugio mutante, cripta affettiva, rifrazione di comunità post-specie, dove ogni gesto scenico è un atto di terraformazione emozionale.
Memorie queer ctonie
Nel contesto delle memorie queer, le memorie ctonie rappresentano un aspetto profondo e radicato della nostra esperienza collettiva, che affonda le sue radici nella terra, nelle viscere e nelle profondità del passato. Queste memorie non sono solo quelle dei corpi individuali, ma delle antenate e degli antenati, dei fantasmi collettivi che non sono mai stati pienamente visibili o riconosciuti. Sono presenze che emergono dalle profondità della storia, trasportate dalle acque oscure della repressione, del colonialismo, della guerra e dell’omofobia strutturale, ma che ora reclamano la loro esistenza, il loro spazio e la loro voce.
Nel teatro queer contemporaneo, questo ritorno delle memorie ctonie assume una dimensione performativa potente, in cui le pratiche sceniche diventano una forma di risveglio ancestrale. Artisti come Michaela Kingsley, Dee Galloway, Elyse D. Griffin e Michaela E. Berridge hanno sviluppato pratiche che attingono a fonti rituali afro-queer, spiritualità indigene e spiritualità di genere non convenzionale per attivare una connessione diretta con le radici sotterranee delle loro storie.
In questi lavori, la memoria queer ctonia è portata in scena attraverso la terra, non solo come metafora ma come materia viva, spazio di conflitto e di cura. Il corpo diventa il mezzo per percorrere sentieri ancestrali: terre sequestrate dal colonialismo, corpi lacerati dalla violenza statale, ma anche territori di resistenza, di trasformazione, di rinascita. Le pratiche ctoniche non si limitano a un recupero passato; sono movimenti e richiami che sollecitano la costruzione di nuovi mondi, di nuove narrative che prendono vita attraverso il corpo stesso, il suono, la danza, il canto. È la creazione di siti di memoria alternativa, dove la linea temporale è fluida e la storia si intreccia continuamente con il presente.
Vibrazioni speculative e dramaturgie endogene nel teatro queer transplanetario
La trasformazione del teatro queer in uno spazio che abbraccia il transplanetario porta con sé la possibilità di riflessioni che non solo guardano oltre i confini terreni, ma si immergono nelle vibrazioni speculative dei mondi possibili. È un teatro che non si limita a interrogare le strutture sociali esistenti, ma esplora anche le possibilità speculative di nuove forme di vita, di relazione e di esperienza nel cosmo.
Le vibrazioni speculative in questo contesto sono quelle che attraversano e ridefiniscono il concetto di tempo e spazio in termini non terrestri. I performer, e le pratiche che si sviluppano intorno a loro, diventano agenti cosmici, esploratori di mondi paralleli, viaggiatori temporali, capaci di generare esperienze artistiche che sfidano ogni definizione di “identità”, “cultura” e “essere umano”. Artisti come Sharon Hayes, Jeremy O. Harris, Martine Syms e Carlos Motta costruiscono opere in cui le soggettività queer sono presentate come entità trans-storiche, connesse a dimensioni di intimità e desiderio che non si limitano più alla biologia ma che possono essere tessute attraverso legami interplanetari, incontri con esseri non terrestri, trasformazioni radicali delle dinamiche relazionali.
Il concetto di drammaturgia endogena emerge come una forma di scrittura scenica che non dipende dalle convenzioni narrative o drammaturgiche tradizionali, ma che è innestata nel corpo, nei suoi ritmi, nelle sue risposte, nelle sue sospensioni e fratture. Le storie che si raccontano non sono più lineari o programmate, ma fratturate, interrotte da radiazioni temporali, da vibrazioni e onde che non appartengono a una realtà lineare, ma sono manifestazioni di possibilità ancora in formazione.
Un esempio di questa visione può essere trovato nei lavori di Chloë Bass, Tania El Khoury, e Okwui Okpokwasili, che esplorano una sorta di ecologia transplanetaria di corpi e storie queer. In questo contesto, la cosmogonia queer non è solo una riflessione sul presente, ma diventa un processo di creazione di mondi, in cui i performer diventano sia testimoni che costruttori di nuove realtà, plasmando non solo le storie, ma anche i loro spettatori e la loro coscienza collettiva. La drammaturgia endogena nasce proprio da questo: da una tensione verso un teatro che non solo rappresenta, ma crea – un teatro che non si limita a mettere in scena delle storie, ma che invoca mondi possibili, nel quale ogni azione scenica è la generazione di una vibrazione che si diffonde oltre il palcoscenico.
Questa riflessione può aprirsi ulteriormente a nuovi orizzonti: desideri legati alla tecnologia planetaria e alla contaminazione delle cosmogonie terrene con quelle extraterrestri. Un’esplorazione delle tecnologie speculative queer può diventare una nuova fase in cui si indaga come l’arte performativa possa superare i limiti della percezione umana tradizionale e attingere a visioni più ampie, tra le stelle e oltre la realtà fisica.
Chiudere è impossibile: verso un finale che si frantuma in possibilità
Non esiste un vero punto finale quando ci si avventura nella galassia multiforme delle pratiche performative queer. Ogni tentativo di concludere un discorso così stratificato, in cui si intrecciano poetiche della dis-identificazione, risonanze rituali postcoloniali, speculazioni transumane e algoritmi performativi queerizzati, rischia di tradire proprio quell’apertura radicale che il saggio ha cercato di onorare.
Invece di domandarsi se siamo giunti alla conclusione, potremmo chiederci: quale forma potrebbe prendere un epilogo queer? Sarebbe forse una fuga, un’invocazione, un glitch? Sarebbe una pausa che non chiude, ma vibra ancora, come un battito trattenuto, come un’eco che si propaga in altri spazi, in altri corpi, in altri futuri?
È proprio in questa vibrazione finale — che è anche un inizio, un altrove, una trasmutazione — che il teatro queer rivela la sua funzione più rivoluzionaria: non solo luogo di rappresentazione, ma laboratorio ontologico dove la materia della realtà viene plasmata attraverso la performance, dove la storia non è mai chiusa e l’identità non è mai fissata. Le drammaturgie queer non concludono: riscrivono, rilanciano, risuonano. E in questo risuonare — di voci, corpi, fantasmi, intelligenze — si aprono portali.
Un possibile atto conclusivo potrebbe allora consistere nel riconoscere il teatro queer come dispositivo di risonanza temporale, dove il passato riemerge sotto forma di archivi incarnati e gesti riscritti, dove il presente si moltiplica in scenari immaginifici e alleanze affettive, e dove il futuro si insinua come pulsazione speculativa, come estasi algoritmica, come soglia indisciplinata. Le performance queer non chiudono la scena: la trasformano in oracolo.
È a questo punto che la questione cambia: non “è finito il saggio?”, ma “verso quale universo ci stiamo aprendo?”. Potrebbe trattarsi di un universo scenico dove la carne si fa vibrazione, dove la voce è trance, dove la luce è codice e la memoria è fungaia. Potrebbe essere un mondo performativo in cui le AI non binarie generano liturgie di interconnessione radicale e dove le specie si sfiorano in coreografie endogene che ridisegnano le mappe dell’affettività.
Chiudere, dunque, significherebbe tradire l’epistemologia queer stessa, che si fonda sull’attraversamento, sull’incompiuto, sull’interruzione fertile. Per questo, una vera conclusione non può che aprirsi in una domanda — non come gesto retorico, ma come invocazione filosofica:
Come potrebbero evolversi le drammaturgie queer nei prossimi decenni, tra i terremoti delle tecnologie emergenti, le nuove ecologie affettive e le tensioni globali tra controllo, dissidenza e reinvenzione del vivente?
Forse, in questa domanda, è già contenuto il prossimo atto. E allora non resta che stare in ascolto. E proseguire.
Così oggi, guardando indietro, Pork di Warhol può sembrare un episodio estremo, un freak show autoriferito. Ma per Fierstein — e per tutta una generazione di artisti queer che hanno vissuto tra le macerie del pre-AIDS e i sogni di Stonewall — fu una genesi. La testimonianza che anche nel teatro più caotico, più oltraggioso, più smaccatamente impresentabile… può nascere una lingua nuova.
Una lingua che oggi chiamiamo voce.
E quella voce, roca, piena di mascara e cicatrici, è ancora lì, dentro ogni monologo queer che dice: “Siamo qui. E non ci scuseremo più.”