mercoledì 25 giugno 2025

Educare l’umano nell’era digitale: tra corpo, pensiero e relazione

Viviamo immersi in un tempo che accelera: non solo nel senso della velocità con cui si succedono le innovazioni tecnologiche, ma soprattutto nel modo in cui esse si impongono come nuove strutture dell’esperienza, della conoscenza, della relazione. In questo scenario sempre più frammentato, ipermediato, attraversato da algoritmi, intelligenze artificiali e ambienti digitali onnipresenti, l’idea stessa di essere umano sembra traballare. Siamo ancora in grado di definire chi siamo, come apprendiamo, cosa ci connette gli uni agli altri? Quali sono i fondamenti cognitivi, pedagogici e morali della nostra umanità nell’epoca delle reti neurali artificiali e della realtà aumentata?

A queste domande – urgenti, complesse, difficilmente eludibili – tenta di rispondere il libro Oltre la tecnofobia. Per un’educazione umana nell’era digitale, scritto a sei mani da Vittorio Gallese, Alessandro Moriggi e Pier Cesare Rivoltella. Ma l’obiettivo dell’opera non è quello di proporre una nuova dottrina né di risolvere il problema attraverso l’ennesimo manifesto tecnocritico o tecnofilo. Al contrario, ciò che rende questo saggio particolarmente significativo è la sua capacità di decostruire la contrapposizione manichea tra apologia e demonizzazione del digitale, per costruire invece una terza via, riflessiva, rigorosa, capace di articolare le domande fondamentali del nostro presente all’incrocio tra filosofia, neuroscienze, scienze cognitive e pedagogia. Un’impresa ambiziosa, certo, ma assolutamente necessaria.

Il punto di partenza del volume è una constatazione tanto semplice quanto cruciale: la tecnologia non è più uno strumento esterno, un semplice ausilio, ma un vero e proprio ambiente cognitivo e relazionale, in cui siamo immersi fin dalla nascita e che modella in profondità i nostri comportamenti, i nostri schemi percettivi, le nostre modalità di apprendimento, il nostro stesso modo di pensare e sentire. In questo senso, la tecnologia non è mai “neutra”: è un agente culturale che modifica la nostra idea di realtà. I suoi effetti non si limitano all’efficienza dei processi o alla rapidità della comunicazione, ma toccano direttamente il nostro essere-nel-mondo. Da qui la necessità, sentita dagli autori, di affrontare la questione non con l’occhio dell’esperto o del tecnico, ma con uno sguardo antropologico e formativo che restituisca complessità al dibattito e profondità alla riflessione.

Sul piano pedagogico, la proposta di Rivoltella appare chiara e coraggiosa: occorre riconoscere che l’educazione, oggi, non può più sottrarsi al confronto con i dispositivi e le logiche digitali, pena l’irrilevanza. Ma questo confronto deve avvenire non in termini puramente strumentali (insegnare a usare le tecnologie), bensì in senso critico e trasformativo: insegnare a pensare la tecnologia, a interpretarla, a farne oggetto di riflessione piuttosto che solo di consumo. Viene così messa in crisi l’idea che il digitale sia un semplice “ambiente di apprendimento” tra i tanti: esso è, piuttosto, una grammatica simbolica nuova, che impone una riprogettazione radicale dei dispositivi didattici, delle forme della trasmissione, dei tempi e degli spazi della formazione. Ma, soprattutto, chiama in causa la figura stessa dell’educatore, che non può più limitarsi a trasmettere saperi, ma deve farsi mediatore culturale tra mondi, tra generazioni, tra linguaggi.

Parallelamente, sul piano filosofico, Moriggi e Gallese pongono al centro una domanda fondamentale: quale concetto di soggetto sopravvive – o si trasforma – nel passaggio dalla cultura alfabetica e analogica a quella digitale e immersiva? Siamo ancora soggetti cartesiani, autonomi, riflessivi, razionali? O stiamo diventando entità ibride, attraversate da flussi informatici, da sovrascritture visive e sensoriali, in cui l’identità si dissolve in una pluralità di presenze, avatar, doppi digitali? La filosofia dell’autonomia, dell’intenzionalità, della coscienza viene messa in discussione dall’architettura stessa del mondo digitale, che tende a produrre automatismi, deleghe cognitive, accelerazioni performative. Eppure, il libro rifiuta qualsiasi atteggiamento nostalgico o apocalittico: non si tratta di denunciare la fine dell’umanesimo, ma di interrogarsi su che tipo di umanesimo possiamo ancora costruire. Un umanesimo incarnato, relazionale, capace di attraversare la complessità del presente senza farsi travolgere.

È proprio qui che interviene il contributo cruciale delle neuroscienze, che nel volume non hanno un ruolo ancillare, ma fondativo. Gallese, grazie alle sue ricerche pionieristiche sui neuroni specchio e sull’embodied simulation, offre un’argomentazione solida: la nostra mente è inseparabile dal corpo, e il corpo è costitutivamente sociale, aperto all’altro. L’esperienza umana non nasce dall’elaborazione fredda dei dati, ma dalla partecipazione affettiva e percettiva al mondo degli altri. Quando le tecnologie digitali si interpongono tra i corpi, quando sostituiscono la presenza con la rappresentazione, si producono mutamenti profondi non solo sul piano culturale, ma anche su quello neurobiologico. Non si tratta di evocare scenari distopici, ma di riconoscere che le modalità con cui interagiamo plasmano il nostro cervello, e che educare a un uso consapevole e critico della tecnologia significa anche educare a una nuova forma di empatia incarnata, capace di resistere alla disumanizzazione algoritmica.

L’intero volume, in definitiva, si configura come un tentativo di restituire dignità alla complessità. In un contesto culturale dominato dalla polarizzazione e dalla semplificazione – tra chi abbraccia la tecnologia come nuova religione del progresso e chi la demonizza come causa di ogni male sociale – Oltre la tecnofobia si distingue per equilibrio, profondità e responsabilità. Non offre risposte facili, ma strumenti concettuali e analitici per porre meglio le domande. Non propone soluzioni rapide, ma invita a costruire nel tempo un nuovo pensiero critico, capace di integrare saperi diversi e di agire nella formazione, nella ricerca, nella vita quotidiana.

È, in questo senso, un’opera che non si rivolge solo a filosofi, neuroscienziati o pedagogisti, ma a tutti coloro – educatori, insegnanti, genitori, studenti, cittadini – che sentono il bisogno di riappropriarsi della propria umanità in un mondo che tende a virtualizzarla. Un libro che interroga, stimola, talvolta inquieta, ma sempre con l’intento di aprire spazi di libertà e di coscienza. Un saggio che non teme la complessità perché sa che solo attraversandola possiamo costruire una cultura capace di abitare il digitale senza esserne abitati.