sabato 21 giugno 2025

Ridere sull’orlo dell’abisso: strategie del racconto in “Nessun altro posto dove andare"

Tra le pieghe intricate e spesso poco esplorate della narrativa scandinava contemporanea, un panorama letterario che talvolta si irrigidisce in schemi estetici segnati dal disincanto, oppure resta imprigionato in modelli di denuncia sociale piuttosto convenzionali, emerge con forza il romanzo d’esordio di Thomas Korsgaard. Questa opera, lontana da facili categorizzazioni, si impone come una voce originale e spiazzante, capace di tessere una materia ruvida, quasi palpabile, e dolorosa al tempo stesso, che scava negli abissi di un’esistenza ai margini, senza però cadere nelle trappole della pietà o del sentimentalismo. Korsgaard non si limita infatti a narrare il disagio giovanile che si annida nelle zone periferiche e marginali della Danimarca rurale, ma costruisce un intero universo filtrato dallo sguardo – tanto ingenuo quanto consapevole – di un ragazzino di dodici anni, Tue. È da questa coscienza ancora in divenire, sospesa in un delicato e perenne equilibrio fra una lucidità sorprendentemente precoce e uno spaesamento affettivo profondo, che il racconto prende forma, articolandosi in un mosaico complesso e a tratti perturbante. A rendere ancora più singolare questa voce narrativa è l’umorismo involontario che la attraversa, capace di sdrammatizzare le pieghe più cupe della realtà ma senza mai attenuarne la portata dolorosa: un umorismo che complica continuamente la percezione stessa del lettore, mettendolo a disagio e allo stesso tempo avvicinandolo con intimità al mondo di Tue.

Il contesto in cui si svolge la vicenda è un margine vero e proprio, uno spazio segnato dall’isolamento fisico e morale: una fattoria remota e dimenticata, dove l’orizzonte si restringe a un paesaggio spoglio e a relazioni familiari segnate da un degrado sia economico che emotivo. La famiglia di Tue appare come un microcosmo in cui si concentrano tutte le tensioni di un’esistenza fragile e frammentata. Il padre, figura ruvida e opaca, sembra quasi incapace di esprimere affetto se non verso gli animali, presenze forse più facili da gestire rispetto ai nodi irrisolti delle relazioni umane. La madre, invece, si sottrae sistematicamente alla comunicazione con una sorta di ostinazione silenziosa, un rifugio nel silenzio che sembra avere l’ombra dell’afasia, di una resa interiore che lascia solo vuoto e incomunicabilità. Anche i fratelli di Tue si muovono come ombre smarrite in questo contesto, formando un coro muto che non riesce a offrire né sostegno né comprensione. Eppure, proprio in questo vuoto, proprio in questa deriva fatta di assenze e tensioni irrisolte, si accende la voce di Tue: non una voce di riscatto o di trionfo, ma piuttosto un tentativo di orientarsi nel nulla, di salvare qualcosa di sé, della propria esperienza, attraverso la parola che diventa l’unico appiglio possibile per non scomparire.

Il romanzo di Korsgaard si discosta nettamente dalla tradizionale idea di romanzo di formazione, quella narrazione lineare e progressiva che porta il giovane protagonista verso una maturazione definitiva e riconoscibile. Qui si costruisce invece un labirinto, una rete complessa di segni e frammenti in cui ogni dettaglio quotidiano assume un valore simbolico sfuggente e ambivalente. Una stella fluorescente appesa sopra il letto, la carcassa di una mucca nel campo, un furto improvvisato di cavi elettrici: ogni elemento diventa una tessera di un mosaico enigmatico, capace di rifrangere luci e ombre in modo refrattario, lontano da ogni interpretazione univoca. La narrazione diventa così una forma di orientamento instabile, un tentativo di sopravvivere alla frantumazione dell’esperienza e alla disgregazione del mondo circostante. Tue non dispone di strumenti culturali o sociali per decifrare appieno ciò che lo circonda, eppure sviluppa una capacità di osservazione quasi clinica, un’attenzione disarmata che, pur scivolando sovente nel comico o nell’assurdo, non perde mai di vista la tragicità sottesa alla sua condizione di escluso.

Fondamentale per la forza espressiva del romanzo è il registro linguistico scelto da Korsgaard, che plasma la voce di Tue come un flusso interrotto, una corrente fragile e al tempo stesso intensa in cui l’infanzia si affaccia su un abisso senza poter trovare appigli sicuri. Il racconto rinuncia a qualsiasi compiacimento lirico, ma evita anche la freddezza analitica; la parola diventa uno strumento duplice, di difesa ma anche di ferita aperta, un corpo vivo che registra senza filtri le contraddizioni del reale e le tensioni emotive che lo attraversano. Ogni risata che sgorga dalla narrazione ha il sapore di una distorsione, di uno scarto doloroso: è un riso che non consola, ma che mette a nudo le ferite, che sottolinea lo squilibrio strutturale tra chi osserva e ciò che lo sovrasta, tra l’innocenza e la brutalità del mondo.

Un elemento particolarmente delicato e reso con grande finezza è il tema del desiderio, che non viene mai tematizzato in modo esplicito o didascalico, ma si insinua piuttosto come una corrente sotterranea e laterale. Non assume una forma definita, né si dota di un nome, ma agisce nel silenzio del corpo, negli sguardi furtivi, nella vergogna che precede ogni parola pronunciata o taciuta. Korsgaard evita consapevolmente ogni etichetta identitaria, lasciando che la scoperta della sessualità si dispieghi per traiettorie frantumate, incerte, eppure cariche di una bellezza sottile e ambigua. Ciò che emerge è una tensione verso l’altro che non trova alcun riconoscimento o sfogo esterno, e proprio in questa sua indeterminatezza diventa uno dei punti più alti di verità e profondità psicologica del romanzo.

Non c’è spazio per un lieto fine, né per una redenzione facile o consolatoria. Tuttavia, nella struttura frammentata e talvolta dolorosamente disarticolata del racconto, si scorge una forma di resistenza sottile e potente: non quella di chi ce l’ha fatta, di chi ha vinto, ma piuttosto l’ostinazione muta di chi resta, di chi osserva e continua a raccontare nonostante tutto. Tue sopravvive non grazie a un’evoluzione netta o a un cambiamento risolutivo, ma per via di una singolare capacità di restare permeabile, di non spegnere l’immaginazione anche quando tutto sembra cospirare contro di essa. Non è un eroe e non è nemmeno una vittima; è piuttosto un sopravvissuto precario e fragile, che abita con una grazia ruvida e al contempo struggente il confine sottile e instabile tra il riso e il pianto, tra la speranza e il disincanto, con una complessità emotiva che sfugge a ogni tentativo di codifica.