sabato 21 giugno 2025

«Quell’oscuro oggetto del desiderio»: il paradosso del desiderio e la catarsi della frammentazione nel cinema di Luis Buñuel

“Quell’oscuro oggetto del desiderio” (1977), ultimo film di Luis Buñuel, non è soltanto la chiusura di una carriera straordinaria, ma anche una summa poetica e filosofica delle tensioni che hanno attraversato tutta la sua opera: un testamento visionario e rigoroso, nel quale convivono con lucidità estrema il desiderio, l’assurdo, la ripetizione, la frustrazione e l’enigma dell’identità. Tratto dal romanzo La femme et le pantin (1898) di Pierre Louÿs, già adattato varie volte per il cinema (tra cui da Josef von Sternberg con Marlene Dietrich e da Julien Duvivier), Buñuel ne stravolge la struttura lineare e il sentimentalismo decadente per trasformarlo in un congegno metacinematografico sul fallimento dell’eros come via di conoscenza e come promessa di totalità.

L’intervento più radicale, e per molti versi spiazzante, è la decisione di dividere il ruolo della giovane Conchita tra due attrici profondamente diverse per presenza scenica, tono e linguaggio corporeo: Ángela Molina, sensuale, calda, volubile; Carole Bouquet, algida, controllata, imperturbabile. Non si tratta, come è stato superficialmente detto, di un vezzo surrealista o di un gesto provocatorio fine a sé stesso, bensì di un’operazione teorica potentissima, che agisce contemporaneamente sul piano della rappresentazione e su quello della ricezione. Il desiderio, suggerisce Buñuel, non è mai unitario: l’“oggetto” non si dà mai intero, ma solo in frammenti, in immagini mutevoli, in riflessi che si contraddicono. Il soggetto desiderante – Mathieu, il maturo gentiluomo interpretato da Fernando Rey – si trova così a inseguire non una donna reale, ma una molteplicità di segni, un prisma inafferrabile. L’unità narrativa e identitaria di Conchita viene scardinata fin dal principio, rendendola una figura quasi mitologica, un simbolo dell’eterno femminino nel suo aspetto più contraddittorio, ora oggetto di brama, ora carnefice erotico, ora pura astrazione.

La cornice narrativa del film – con Mathieu che racconta agli sconosciuti compagni di viaggio, in treno, la propria storia d’amore e ossessione – introduce fin da subito uno scarto temporale e percettivo: la narrazione non è mai neutra, ma sempre inficiata dal ricordo, dalla rilettura soggettiva, dall’ambiguità dell’esperienza. Ogni sequenza è intessuta di simboli, soglie, interruzioni, come se Buñuel volesse minare qualsiasi pretesa di progressione lineare o di catarsi. L’amore, in questo universo buñueliano, è intrinsecamente frustrante: ogni tentativo di congiunzione erotica è sabotato dalla donna, o meglio dal desiderio stesso, che genera continui ostacoli, attese, punizioni. La verginità di Conchita – che si proclama tale ma danza mezza nuda in un cabaret – è metafora di un’eterna promessa mai mantenuta. Mathieu, nella sua posizione di borghese educato, benestante, razionale, è continuamente messo in scacco da un’alterità che sfugge a ogni tentativo di definizione, di possesso o di dominio.

Il discorso buñueliano si svolge qui su un doppio binario: da un lato quello individuale, intimo, psicologico (il maschio anziano e il suo smarrimento di fronte a un corpo giovane e refrattario); dall’altro quello sociale, storico, collettivo. Attorno alla vicenda privata, infatti, si muove un mondo attraversato da attentati, da un terrorismo indistinto e insensato, da episodi di violenza arbitraria e grottesca. Questa violenza, spesso rappresentata in modo paradossale (come nel caso del gruppo anarco-ecologista che rapisce Mathieu per poi rilasciarlo inopinatamente), funziona da contrappunto ironico al dramma interiore: come se Buñuel ci dicesse che il caos del desiderio è lo stesso caos che governa il mondo, e che non vi è armonia possibile tra istinto e ragione, tra eros e logos.

Il desiderio, in “Quell’oscuro oggetto del desiderio”, non ha alcuna possibilità di risolversi nella soddisfazione. Anzi, la dinamica stessa della storia è costruita su una spirale di attese frustrate, di slanci interrotti, di gesti violenti e pentimenti immediati. L’ossessione di Mathieu si trasforma progressivamente in prigionia, e la figura di Conchita assume contorni quasi sadici, in un continuo gioco di attrazione e repulsione. Ma se la donna è sfuggente e spietata, l’uomo non è meno colpevole: il suo desiderio è intriso di paternalismo, di controllo, di volontà di possesso. E proprio in questo scontro – non tra due persone, ma tra due polarità simboliche – si genera l’inquietudine profonda del film.

Dal punto di vista formale, Buñuel adotta uno stile di limpidezza ingannevole: la regia è sobria, il montaggio misurato, l’illuminazione naturalistica. Ma sotto questa superficie pacata si nasconde un magma visionario. Ogni scena è carica di tensione sotterranea, ogni dettaglio (una sedia, un velo, un piede nudo) può diventare segno di qualcosa di più profondo, di più oscuro. Le ripetizioni, le ellissi, le simmetrie, tutto contribuisce a costruire un tessuto filmico che è, in fondo, un discorso sull’impossibilità di raccontare il desiderio senza tradirlo. Il cinema stesso, in questo film, viene messo sotto accusa: può l’immagine restituire la verità dell’eros? O non è, piuttosto, destinata anch’essa a frammentare, a distorcere, a mistificare?

L’ultima scena, in cui i due protagonisti sembrano finalmente riconciliarsi, mentre sullo sfondo si odono notizie di un attentato, e una donna ricuce un velo lacerato, è quanto di più ambivalente Buñuel abbia mai filmato: è forse una promessa di pace, o è una preparazione alla prossima esplosione? È un gesto di cura o un’illusione ultima? Con questo epilogo, Buñuel chiude il cerchio del suo cinema: la realtà è illusione, l’amore è impossibile, l’identità è una finzione, e la verità – se esiste – sta nella lacerazione stessa, nel gesto che non si compie, nel desiderio che si annienta nel suo stesso movimento.

“Quell’oscuro oggetto del desiderio” è quindi un’opera monumentale nella sua sobrietà, radicale nella sua apparente compostezza. In essa, Buñuel non solo porta a compimento il proprio pensiero, ma lo lascia volutamente irrisolto, come un enigma che continua a mordere lo spettatore anche dopo la fine del film. Un’opera ultima, certo, ma che si comporta come un inizio, una soglia, un invito a guardare dentro il proprio desiderio, e a riconoscerne la natura fondamentalmente scissa, molteplice, contraddittoria. Un film che si colloca, senza alcun dubbio, tra i capolavori assoluti del cinema del Novecento.


I. Il desiderio come struttura negativa: genealogia di un vuoto

In "Quell’oscuro oggetto del desiderio", Luis Buñuel non si limita a rappresentare una relazione frustrata, ma costruisce un intero universo simbolico in cui il desiderio è pensato come principio di negatività. A differenza della tradizione romantica, che immagina il desiderio come tensione verso l’altro e la sua possibile integrazione, Buñuel segue una linea tragica e paradossale: il desiderio è ciò che separa, ciò che si mantiene solo se non trova mai compimento. In questo senso, l'oggetto del desiderio non è un corpo ma un vuoto carico di senso, un buco simbolico attorno a cui ruota l'intera esistenza del soggetto.

Mathieu, borghese colto e disilluso, non desidera Conchita come donna reale, ma come luogo di mancanza, come schermo su cui proiettare fantasie, pulsioni e paure. La sua ricerca erotica è in realtà una fuga dalla realtà: egli rincorre un'idea, una chimera, che non può essere posseduta perché non è mai esistita come tale. Conchita è la materializzazione di un archetipo impossibile: il desiderio, incarnato, è sempre incongruente, fuggente, bicefalo. Ogni tentativo di possesso si tramuta in umiliazione; ogni slancio affettivo, in esclusione.

Questo paradosso è perfettamente visibile nella struttura narrativa del film, in cui il desiderio non avanza verso una risoluzione, ma si avvolge su se stesso, come una spirale patologica. Mathieu si trova intrappolato in una coazione a ripetere che non produce alcun apprendimento. In tal senso, Buñuel anticipa in modo radicale le letture lacaniane del desiderio: non si desidera ciò che si può avere, bensì ciò che manca per principio.

II. Conchita-Molina/Bouquet: genealogia del doppio e decostruzione del femminile

L'operazione più celebre di Buñuel in questo film è la sostituzione dell'unità diegetica del personaggio femminile con un doppio corpo e doppio volto: Angela Molina e Carole Bouquet interpretano entrambe Conchita, ma in modalità divergenti e inconciliabili. Questa scelta, inizialmente scaturita da una necessità produttiva (una sostituzione dell’attrice originaria), diventa rapidamente una mossa teorica: Conchita non è un individuo, ma una molteplicità inafferrabile.

Molina è sensuale, carnale, imprevedibile. Bouquet è eterea, razionale, glaciale. Nessuna delle due è l'intero: sono due proiezioni, due sembianti del desiderio, due maschere su un volto che resta invisibile. In questo sdoppiamento si può leggere una critica feroce all’idealizzazione romantica del femminile, che spesso oscilla tra l'angelo e la puttana. Buñuel spezza questa logica binaria mostrando che nessuna donna può coincidere con l'immagine che il desiderante ha di lei.

L’alternanza di attrici produce una discontinuità percettiva che destabilizza lo spettatore e rivela il cinema stesso come costruzione arbitraria del senso. Il personaggio, nel cinema classico, è un'entità coerente. Buñuel ne disgrega la coerenza. Conchita è un collage, un montaggio di affetti e atti, ma priva di un'essenza unificante. In tal senso, la donna non esiste come unità narrativa, ma solo come intervallo tra due rappresentazioni.

III. Il tempo del desiderio: circolarità e coazione a ripetere

La struttura narrativa del film è un loop. La storia inizia con una fuga (Mathieu getta dell'acqua su Conchita), e termina con una pace apparente, subito interrotta da un atto di cucitura che lascia presagire l'ennesima lacerazione. Questo andamento circolare non è solo forma, ma contenuto psichico: il tempo del desiderio è il tempo della ripetizione, dell'errore reiterato, del sogno da cui non ci si sveglia.

Il tempo della narrazione è deformato dalla soggettività di Mathieu, che rievoca i fatti su un treno, rivolgendosi a un uditorio passeggero e indifferente. L'intero film si configura come un racconto nel racconto, come una confessione opaca, forse falsa. Nulla ci garantisce che gli eventi siano avvenuti come raccontato: il film diventa così un sogno parlato, un delirio di memoria.

Buñuel gioca con la soggettività della visione, rendendo incerta la natura stessa delle immagini. La memoria, come il desiderio, è ricostruttiva, non oggettiva. Ogni sequenza potrebbe essere un desiderio mascherato da ricordo. In tal modo, il tempo non è più lineare ma topologico: si muove tra ritorni, deviazioni, ellissi. Mathieu è prigioniero di un tempo che non salva, che non insegna, che non trascorre.

IV. Eros e sadomasochismo: potere, punizione, godimento

Il rapporto tra Mathieu e Conchita è inscritto in un sistema di punizione e attesa. Ogni tentativo di accesso sessuale si traduce in un nuovo ostacolo. Conchita promette, seduce, si nega, umilia. Mathieu offre, implora, minaccia, ritorna. Il legame tra i due è fondato su una grammatica sadomasochista in cui il godimento non è dato dalla fusione, ma dalla distanza, dalla tensione, dalla ferita.

Conchita esercita il potere del desiderabile, non cedendo mai al pieno possesso. Mathieu è sempre sull'orlo del piacere, ma non vi accede. Questo schema riproduce in forma erotica la dinamica del potere: chi desidera è in posizione di inferiorità, perché si affida all'altro per la propria realizzazione. Conchita è l'oggetto-feticcio che si sottrae per confermare il suo valore. Mathieu è l'uomo che non conosce se stesso, perché cerca nell'altro ciò che non può dargli.

Il sadomasochismo in Buñuel non ha la teatralità delle perversioni classiche: è sociale, è linguistico, è istituzionale. Il desiderio borghese, educato, galante, si rivela profondamente violento, predatorio, coercitivo. L'amore non è un dono, ma una guerra. La donna non è una partner, ma una terra da conquistare e che si rifiuta.

V. La violenza del mondo: terrorismo, assurdo e destrutturazione del senso

Il mondo esterno, nel film, è abitato da un terrore che rasenta il comico: bombe, sequestri, minacce, tutto appare grottescamente scollegato dalla vicenda amorosa. Ma questa dissociazione è solo apparente: il terrorismo è l'espressione collettiva dello stesso caos che abita la psiche di Mathieu. L'intero universo di Buñuel è assurdo, dominato da forze irrazionali, e perciò autentico.

I gruppi sovversivi che appaiono nel film hanno nomi improbabili, ma i loro atti sono reali. Come il desiderio, la violenza esplode senza ragione. Buñuel mostra come la realtà borghese sia solo una superficie fragile, destinata a crollare sotto il peso dell'inconscio sociale. Il film non distingue più tra interno ed esterno, tra sogno e storia, tra eros e politica.

VI. Il gesto della cucitura: simbolo, riparazione, eterno ritorno

Il film si chiude con un gesto silenzioso: una donna ricuce un velo lacerato. Questo gesto, piccolo e carico di mistero, è il punto più alto del simbolismo buñueliano. Il velo, come il desiderio, si lacera ogni volta che si tenta di oltrepassarlo. Ricucirlo è un atto di cura, ma anche di illusione. Nulla si ricuce davvero. Ogni rammendo è provvisorio.

Conchita e Mathieu, nel frattempo, camminano insieme: sembrano riconciliati. Ma il gesto della cucitura suggerisce che il ciclo sta per ricominciare. L'oggetto del desiderio resta oscuro. La coppia resta una costruzione fittizia. Il desiderio, come l'inconscio, non conosce fine. L'amore non salva, ma ripete. E Buñuel, con questo film, ne offre la più feroce e sublime testimonianza.

VI. Il cinema come spazio del desiderio irrisolto: Buñuel e la sovversione dello sguardo

Nel cuore del dispositivo cinematografico di Buñuel, il desiderio non è solo tema, ma forma. Il film stesso desidera, si ritrae, si nega. Il montaggio, la scelta degli attori, il ritmo, tutto collabora a costruire un oggetto mancante, che mai si dona interamente allo spettatore. Se la storia d’amore tra Mathieu e Conchita è frustrata, anche lo spettatore vive un analogo destino: cerca un senso pieno, un’identità coerente del personaggio, una linearità narrativa — e riceve invece enigmi, sdoppiamenti, ripetizioni, silenzi.

Il cinema, per Buñuel, è la forma d’arte più vicina all’inconscio: come il sogno, agisce per slittamenti, condensazioni, metafore. Ogni gesto ha un doppio fondo, ogni parola un’eco. In questo film, però, la posta si alza ulteriormente: il desiderio non viene solo rappresentato, ma viene messo in scena attraverso la forma stessa del film. È lo sguardo stesso dello spettatore a essere interrogato: che cosa cerca? Che cosa vuole da Conchita? Perché accetta il gioco del doppio?

Lo spettatore è così collocato nella posizione di Mathieu: anch’egli insegue una figura sfuggente, che muta forma, che si nega e si concede a intermittenza. In questo senso, Quell’oscuro oggetto del desiderio è un trattato cinematografico sul desiderio come funzione dello sguardo. Laddove il cinema tradizionale promette pienezza (di senso, di forma, di significato), Buñuel inscena invece la mancanza come verità del vedere.

Questo è il gesto radicale dell’autore: non offrire mai allo spettatore la chiusura, la catarsi, la soddisfazione. Il film non finisce: esplode, con una bomba, e lascia una cicatrice. Mathieu e Conchita si incamminano di nuovo, ma il cerchio si riapre. L’oggetto del desiderio non può essere posseduto. L’amore è il luogo di un eterno ritorno mancato. E il cinema, come l’amore, non consola, ma svela.


Il desiderio come esperienza dell’impossibile

Attraverso questo film, Buñuel porta a compimento la sua opera di smascheramento. Il desiderio non è una spinta naturale verso la soddisfazione, ma un dispositivo ideologico, un meccanismo psichico che ci tiene in scacco. Mathieu, come tutti noi, insegue un oggetto che non esiste. Lo ama proprio perché non lo può avere. Conchita non è una donna, ma il nome stesso dell’impossibilità.

Il cinema di Buñuel si offre dunque come rito laico di disillusione. Non più spazio del sogno, ma luogo della verità. E la verità è che siamo tutti prigionieri di un desiderio che ci condanna a desiderare ancora. Non c’è risoluzione. Non c’è accesso. Solo il gesto ripetuto, la spirale che ci risucchia, l’eterno ritorno di un amore mancato.


VII. Il doppio e l’unità impossibile: Angela Molina e Carole Bouquet come dispositivi narrativi, mitologici e psicoanalitici

La scelta di affidare il ruolo di Conchita a due attrici è stata spesso vista come un vezzo surrealista, una provocazione. In realtà, è uno degli snodi concettuali più alti dell’opera di Buñuel, dove la molteplicità del corpo femminile si fa cifra dell’irriducibilità del desiderio. Angela Molina, bruna, mediterranea, viscerale, incarna l’aspetto erotico, carnale, instintuale del desiderio maschile: è la Conchita che danza, che provoca, che si offre come visione corporea. Carole Bouquet, algida, elegante, francese, con una dizione limpida e uno sguardo impenetrabile, rappresenta invece l’aspetto intellettuale, inafferrabile, astratto dell’oggetto amato.

Questa scissione non è soltanto visiva o psicologica: è ontologica. Le due attrici non sono due personaggi diversi, ma due modalità incompatibili dell’essere. Buñuel disgrega l’unità identitaria per mostrare che l’oggetto del desiderio è sempre un collage, un fantasma composto, un’impossibile totalità. L’unità del soggetto amato è una costruzione retroattiva, mai data nell’esperienza.

Conchita è così sorella delle figure femminili della mitologia classica e moderna: come Lilith e come la Beatrice di Dante, è un’apparizione che guida e tormenta, mai del tutto terrena, mai pienamente umana. Questa molteplicità si riflette anche nella costruzione scenica: i cambiamenti tra una Conchita e l’altra sono bruschi, non segnati da dissolvenze o spiegazioni. In ciò, Buñuel infrange la convenzione di continuità narrativa e chiede allo spettatore una conversione percettiva: non si tratta di capire il film, ma di esperirlo come frammentazione interna, come stato alterato.

In chiave lacaniana, le due Conchita corrispondono a due ordini: l’Immaginario (Molina) e il Simbolico (Bouquet), ma nessuna di esse è accesso al Reale, cioè alla verità del godimento. Mathieu, come ogni soggetto desiderante, è condannato a girare intorno a un buco: il punto dove l’oggetto manca. Il film non è solo racconto di una passione frustrata, ma disegno in negativo di una mancanza strutturale.


VIII. La dialettica servo-padrone del desiderio e l’eterno gioco della dominazione erotica

A prima vista, Mathieu sembra incarnare un cliché buñueliano: il borghese sessualmente represso, l’uomo colto ma vittima delle sue pulsioni, figura ricorrente fin dai tempi de Il fascino discreto della borghesia o de Il fantasma della libertà. Ma qui il personaggio si carica di ulteriori ambiguità. Non è solo il desiderante, ma anche la vittima designata di un’architettura relazionale più profonda: quella del dominio erotico come struttura di potere.

Conchita si offre e si ritira con la precisione crudele di una dominatrice. Le sue strategie di differimento sono perfette: accenna una carezza e poi scompare, si spoglia ma si richiude in una porta, inscena una disponibilità solo per ribadire l’impossibilità dell’atto sessuale. Il letto diventa il luogo di un torto, un campo di battaglia in cui ogni promessa è rovesciata. In questa danza di approssimazioni fallite, Buñuel porta in scena il modello hegeliano del signore e del servo riletto in chiave libidica: chi desidera, è schiavo.

L’erotismo buñueliano è sempre sadiano, ma mai esplicitamente pornografico: è nell’attesa, nel ritardo, nel gesto che si interrompe, che si produce il massimo della tensione. Non l’atto, ma l’impedimento all’atto è ciò che eccita, che mantiene vivo il gioco. Mathieu, nel suo oscillare tra violenza e tenerezza, tra paternalismo e umiliazione, non è padrone di nulla: è un soggetto imploso, travolto da un’energia che non può né dominare né comprendere.

Anche socialmente, la relazione è ribaltata: Mathieu è il ricco, Conchita la serva. Ma in questa messa in scena del potere economico e patriarcale, Buñuel fa esplodere ogni sicurezza: la serva si emancipa attraverso il corpo, anzi: attraverso il suo uso sapiente del non-corpo, della sottrazione. Non si concede, non si vende, non si piega: incarna un potere enigmatico che non può essere assimilato.


IX. Terrorismo, trauma e il perturbante politico: un'Europa nella spirale del desiderio collettivo

La presenza del terrorismo nel film – spesso trattata con uno humour glaciale – ha suscitato interpretazioni discordanti. C’è chi ha letto questi episodi come semplici inserti surreali, chi invece vi ha visto un riferimento alla Spagna franchista, o alla Francia attraversata dalle tensioni post-sessantottine. Ma Buñuel non cerca spiegazioni: costruisce corrispondenze simboliche. Le esplosioni che squassano le strade non sono diverse, nella loro imprevedibilità, dagli scatti d’ira o dalle improvvise gelosie che attraversano la relazione tra Mathieu e Conchita.

Il desiderio amoroso e la violenza politica sono due forme della stessa frustrazione ontologica. Entrambi partono da una mancanza, da una ferita non elaborata, da un sogno di totalità impossibile. Le azioni del misterioso gruppo terrorista “le donne e gli uomini della borsa” sembrano insensate, proprio come gli impulsi di Mathieu. L’universo del film si regge su un’architettura di eventi privi di senso, eppure densissimi di significato. È l’irruzione del perturbante freudiano in chiave storica: l’inconscio della civiltà che torna a galla come gesto violento, non elaborabile.

Quell’oscuro oggetto del desiderio può essere letto anche come una diagnosi dello smarrimento europeo nel passaggio tra modernità e postmodernità: l’identità è frantumata, il soggetto non si possiede più, l’Altro è opaco. Il terrorismo diventa metafora del desiderio collettivo che non trova sbocco, che si rivolta contro se stesso. Non è un film sul terrorismo: è un film terroristico nel suo modo di sabotare ogni attesa.


X. Il tempo circolare e la coazione a ripetere: Buñuel come narratore dell’eterno ritorno

L’inizio del film è un racconto a posteriori, ma ciò che segue non ha una vera linearità temporale. Il film ritorna costantemente su se stesso, come se fosse prigioniero di un ciclo, un eterno ritorno che non ha via d’uscita. Mathieu racconta la storia su un treno, e già questa cornice ha qualcosa di ironicamente “psicanalitico”: la conversazione tra sconosciuti, lo spazio chiuso, il viaggio simbolico.

Ma ciò che conta è che nulla cambia. Ogni episodio tra Mathieu e Conchita ripete lo stesso schema: attrazione, avvicinamento, illusione, frustrazione, violenza, pentimento. Non ci sono variazioni evolutive. Non ci sono progressi. Il desiderio, come il trauma, si incista nel tempo e si ripete. La scena della porta chiusa, del letto negato, dell’occhiata sfuggente torna più volte, con piccole differenze. È la messa in scena della coazione a ripetere freudiana, quell’inerzia psichica che ci riporta sempre alla scena primaria, senza mai risolverla.

E l’ultima sequenza – con la donna che cuce un velo su una bambola sfigurata – suggella tutto ciò: è il gesto simbolico della “riparazione”, ma anche della messa a punto infinita. Mathieu e Conchita camminano via insieme, forse riconciliati, forse sul punto di ricominciare. Poi, la bomba. La fine che è solo un’altra variazione sul tema dell’interruzione. Buñuel non concede redenzione, ma solo consapevolezza: l’oggetto del desiderio è sempre già andato.


XI. Da Pierre Louÿs a Luis Buñuel: metamorfosi dell’erotismo decadente in metafisica del desiderio

La genesi intertestuale di Quell’oscuro oggetto del desiderio si radica profondamente nel sostrato letterario e simbolico dell’erotismo fin de siècle, in particolare nell'opera di Pierre Louÿs La femme et le pantin (1898). Romanzo strutturato come una confessione di sottomissione maschile alla femminilità indecifrabile, il testo di Louÿs è la narrazione di una disfatta erotica, dove l’uomo, convinto di dominare, viene progressivamente annientato da un oggetto amoroso che si sottrae, si nega, si dissolve. La Spagna del romanzo è uno sfondo esotico, teatrale, pulsionale. La donna, Conchita Pérez, è una creatura fatale, costruita secondo il canone orientalista e misogino del tempo: è la “danzause” andalusa, la cortigiana inaccessibile, l’incarnazione dell’eccesso sensuale e dell’arbitrio erotico.

Buñuel, che da sempre disinnesca gli apparati ideologici delle narrazioni borghesi, assume la materia narrativa di Louÿs per piegarla, distorcerla, sublimarla. La sua Conchita non è una donna: è un enigma. O, meglio, è la figurazione di un desiderio che si rappresenta attraverso la molteplicità e la contraddizione. Non è più un soggetto “interpretabile”, ma un vettore di frattura. Là dove Louÿs innesta un racconto di decadenza sensuale, Buñuel orchestra un’anti-narrazione: i codici del melodramma sono rovesciati, i ruoli erotici svuotati, l’erotismo stesso ridotto a pantomima. In luogo dell’eccitazione, l’irritazione; al posto del piacere, l’impotenza; e sopra ogni cosa, un senso diffuso di derisione cosmica.

Il rapporto tra Mathieu e Conchita non si consuma: si ripete. Si frantuma e si ricompone in cicli infiniti, dove l'attesa è sempre tradita, e l'atto è sempre abortito. Questa iterazione, che Buñuel costruisce come una partitura quasi musicale – con motivi tematici che si ripresentano ossessivamente – è il vero cuore strutturale del film: non una narrazione, ma un rito iniziatico; non una trama, ma una cerimonia della frustrazione.

Lo sdoppiamento dell’attrice (Angela Molina e Carole Bouquet) è l’elemento più vistoso di questa poetica della molteplicità, ma va letto in profondità: non come semplice artificio metacinematografico, bensì come dispositivo ontologico. Le due Conchite sono due modi di apparire, due modulazioni di una stessa assenza: la sensualità bruna, carnale, spagnola (Molina), e l’algida, fredda, razionale bellezza parigina (Bouquet). Il desiderio oscilla tra questi due poli: corpo e spirito, godimento e negazione, calore e distanza. Eppure nessuna delle due è “vera”: la loro alternanza, arbitraria e mai spiegata, è l’immagine perfetta della scissione interna al desiderio stesso. Il soggetto desiderante, qui, non può mai possedere ciò che brama, perché il suo oggetto è impossibile da unificare.

Il film è la rottura sistematica della logica narrativa maschile: il protagonista racconta, cerca di spiegare, ordina i fatti, ma nulla tiene. Come se il linguaggio stesso – che dovrebbe controllare il reale – si sbriciolasse davanti al rifiuto della donna di essere nominata, identificata, posseduta. Il film è allora un trattato tragico sull’impotenza del logos: la Conchita di Buñuel non è il “pantin” di Louÿs, ma l’abisso dell’altro che si manifesta in forma umana solo per sfuggire, per illudere, per ingannare.


XII. L’oggetto del desiderio tra Lacan, Irigaray e Deleuze: una geofilosofia dell’assenza

Il lascito filosofico di Quell’oscuro oggetto del desiderio è di straordinaria portata. È stato, giustamente, considerato da numerosi pensatori come una delle parabole cinematografiche più rigorose e perturbanti del concetto lacaniano di objet petit a. Nella logica psicoanalitica, il desiderio è sempre desiderio di qualcosa che manca – ma ciò che manca non è mai l’oggetto reale, bensì un vuoto originario. Il petit a è proprio questo: un oggetto che funge da schermo, da intercapedine, tra il soggetto e la mancanza che lo fonda. Conchita, nella sua irreperibilità, nel suo continuo apparire e scomparire, è questo oggetto mancante, che seduce solo perché irraggiungibile.

Buñuel lo intuisce (forse senza mai dirlo): più Mathieu tenta di possedere Conchita, più il suo desiderio si intensifica proprio grazie all’impossibilità del compimento. L’eros qui non è un cammino verso la soddisfazione, ma una spirale intorno all’assenza. Ed è in questo punto che il film intercetta anche il pensiero di Luce Irigaray: la critica alla logica fallica, alla pretesa che l’altro – e in particolare la donna – debba rispondere a un codice binario di identità e differenza. Irigaray parla della necessità di una “lingua altra”, capace di dire la differenza femminile senza ridurla. Buñuel, nel suo linguaggio visivo, compie proprio questo tentativo: non dà mai una lingua univoca a Conchita. Le due attrici parlano in modo diverso, si muovono in modo diverso, abitano il mondo in modo inconciliabile. Ma proprio in questa inconciliabilità si affaccia il reale della differenza: l’impossibile.

Infine, il film trova una sua eco anche in Deleuze e Guattari, per i quali il desiderio non è una mancanza da colmare, ma una macchina produttiva, capace di generare immagini, concatenamenti, ritmi, flussi. Quell’oscuro oggetto del desiderio non rappresenta il desiderio: lo performa. Ogni scena è un atto di desiderio che si inceppa, si ripete, si deforma. Il film è un dispositivo macchinico che produce senso proprio attraverso la sua frustrazione, come se il desiderio non avesse più bisogno dell’oggetto per esistere, ma potesse bastare a sé stesso.

Lo spettatore stesso è trascinato dentro questa spirale: si attende un climax erotico che non arriva mai, un punto di risoluzione che si nega sistematicamente. Si è, insomma, partecipi di una coreografia del desiderio che ha abolito la sua meta, lasciando solo il ritmo incalzante della sua assenza.


XIII. L’eredità buñueliana: metamorfosi contemporanee del desiderio

Il gesto di Buñuel ha avuto un’eco duratura, non solo nella teoria, ma nella prassi cinematografica. In David Lynch, ad esempio, troviamo una ripresa esplicita della logica del doppio, del perturbante, del desiderio senza oggetto. In Mulholland Drive, la dualità tra Betty e Diane è la proiezione onirica di un desiderio fallito; in Lost Highway, il soggetto si disgrega nel momento stesso in cui tenta di afferrare l’oggetto erotico. Lynch non imita Buñuel, ma ne eredita la struttura labirintica, la poetica della frustrazione, la logica antipsicologica dell’eros.

Lars von Trier, dal canto suo, porta l’erotismo buñueliano fino all’autoannientamento. In Nymphomaniac, l’oggetto del desiderio è oggetto di colpa, di vergogna, di tortura. La donna non è più enigma irraggiungibile, ma macchina del dolore, campo di battaglia tra pulsione e redenzione. Eppure, anche qui, si avverte l’influenza di Buñuel: il desiderio come forza cieca, irrazionale, che annulla il soggetto invece di realizzarlo.

Più recentemente, Julia Ducournau – in Raw e Titane – riformula l’oggetto del desiderio in chiave post-umana. Il corpo femminile è qui un campo di mutazione, di mostruosità, di metamorfosi. Il desiderio non è più mimetico o edipico, ma biomeccanico, sovra-simbolico. Anche questa è un’eredità buñueliana: l’impossibilità di pensare l’erotismo nei termini rassicuranti del soggetto e dell’oggetto. In Ducournau, l’oggetto si fonde con la macchina, con il metallo, con il trauma. È un’oscura creatura che nasce nel punto in cui il corpo smette di essere umano.

In tutti questi casi, ciò che si conserva è l’idea che il desiderio sia indecidibile, inesauribile, immaginario. E che il cinema – tra tutti i linguaggi – sia quello che meglio può darne una forma non definitiva, aperta, intermittente. Il lascito di Buñuel, allora, non è una lezione di stile, ma una filosofia incarnata. Un’etica dello sguardo che accetta la ferita, il fallimento, il desiderio senza pace.


XIV. Gli oggetti simbolici: borsa, bottiglia, velo – coreografia di una iconografia perturbante

In Quell’oscuro oggetto del desiderio, gli oggetti non sono mai meri accessori di scena, ma vettori di senso, protesi semiotiche che mettono in scena il desiderio, la violenza, la ripetizione e l’assurdo. In perfetta continuità con la lezione surrealista, Buñuel li dispone come segni mobili in una partitura enigmatica, oggetti che si caricano di un valore rituale, quasi liturgico, ma sempre soggetto a slittamento, ironia e sabotaggio.

La borsa, ad esempio, è uno dei primi e più emblematici oggetti della messa in scena. Mathieu, nel tentativo di offrire a Conchita un dono sontuoso, le regala una borsa di coccodrillo, simbolo borghese per eccellenza: desiderio d’accesso, ricatto economico, promessa di possesso. Ma la ragazza – o meglio, una delle due Conchite – la rifiuta con una naturalezza disarmante, addirittura con noia. La borsa, in questo gesto, cessa di essere un oggetto erotico e diventa un feticcio fallito. Non è lo strumento attraverso cui il maschio riesce a legare a sé l’oggetto del desiderio, ma l’indizio di quanto ogni gesto di dono, nel film, sia destinato a infrangersi contro l’inesplicabilità dell’altro.

La bottiglia d’acqua – quella lanciata sulla testa della donna da Mathieu in una scena di esplosiva tensione – è l’esatto contrario: non è un’offerta, ma un’aggressione, non un oggetto del dono, ma della collera impotente. Eppure anche qui, Buñuel scardina ogni psicologia: non ci mostra un uomo che agisce in base a un piano preciso, ma un essere mosso da un cortocircuito nervoso, improvviso, quasi animalesco. Il lancio della bottiglia è uno degli atti più violenti del film, eppure è “acquatico”, privo di sangue: anche la violenza qui è simbolica, frustrata, caricaturale. L’oggetto non ferisce, ma denuncia l’impossibilità di trovare un linguaggio reciproco.

E poi c’è il velo. Questo piccolo pezzo di tessuto, che una delle due Conchite porta sul volto in momenti chiave, è l’oggetto semiotico più denso, più stratificato, più insidioso. Conchita si vela e si svela secondo una logica che non è mai quella della modestia, ma della messinscena. Il velo non copre: amplifica. Nasconde per attrarre, simula un pudore che è deliberata provocazione. Mathieu – e con lui lo spettatore – è catturato in questo gioco perverso del vedere e del non vedere, dove il desiderio si moltiplica proprio nel momento in cui viene interdetto.

Il velo ha una lunga storia iconografica, dal velo delle Madonne a quello delle danzatrici orientali, e Buñuel lo sfrutta tutto: ogni sua apparizione è carica di ambiguità culturale, erotica e religiosa. È un oggetto che ricorda costantemente che ciò che si desidera non è mai il corpo in sé, ma la soglia tra il corpo e la sua immagine, la superficie attraverso cui il desiderio si proietta, si incarna, si differisce.

Oltre a questi, ci sono oggetti “secondari” – la valigia, il letto sfatto, la porta che si chiude, le sbarre – che agiscono quasi come segni musicali. Non portano un significato fisso, ma entrano in relazione con il ritmo narrativo del film, ne accentuano la struttura iterativa. Pensiamo, ad esempio, al gesto della chiave nella serratura: azione infinitesimale che, nel contesto buñueliano, diventa carica di erotismo, di sospensione, di sospetto. Ogni oggetto è potenzialmente esplosivo, ogni dettaglio è un residuo di senso che attende di essere decifrato – o forse solo contemplato nella sua enigmaticità.

Si potrebbe dire che l’intero film sia un oggetto simbolico: un “oggetto strano” (per usare l’espressione di Freud nel Perturbante) che ci si presenta come familiare – un racconto d’amore, una storia borghese – e poi si rivela inquietante, disturbante, perturbato. La stessa struttura del film – lo sdoppiamento, la ripetizione, la mancanza di risoluzione – si comporta come uno di quegli oggetti buñueliani: ci seduce, ci confonde, ci respinge.

L’oggetto del desiderio, in definitiva, non è né Conchita né uno dei suoi travestimenti: è il film stesso, che ci costringe a desiderare qualcosa che non può essere né afferrato né compreso.


XV. Il desiderio e la bomba: finale apocalittico e risata cosmica

Il finale di Quell’oscuro oggetto del desiderio è una conclusione che sfugge a ogni canonica lettura narrativa, un’apoteosi di ambiguità e di sovversione che lascia lo spettatore sospeso tra il grottesco e il tragico, tra il comico e l’inquietante. Buñuel, già maestro dell’iconoclastia, decide di chiudere il suo ultimo film con una scena carica di un simbolismo esplosivo e di una forza enigmatica che riassume e supera tutta la tensione accumulata nel corso della pellicola.

La detonazione della bomba che Mathieu sembra portare con sé è la manifestazione più esplicita dell’autodistruzione insita nel desiderio stesso, nel tentativo di possesso e dominio. La bomba non è un semplice espediente narrativo, ma un emblema della natura distruttiva di ogni relazione umana basata su un desiderio che è al contempo ossessivo e insoddisfatto. Il desiderio, in Buñuel, non conduce mai all’appagamento: è un ciclo infinito di tensione e frustrazione, di avvicinamento e allontanamento.

Il gesto di Mathieu, portatore di una bomba metaforica e letterale, rimanda a una critica profonda della società borghese e del suo culto illusorio della stabilità e del controllo. Mathieu, uomo borghese per eccellenza, si trasforma in un novello Prometeo, non più solo vittima del proprio desiderio ma artefice di una catastrofe annunciata, una figura tragica che incarna la condizione umana moderna: l’impossibilità di gestire la propria pulsione senza crollare in un abisso di autodistruzione.

In questa scena finale, Buñuel sospende il tempo narrativo, allentando le leggi della logica e della causa-effetto per aprire uno spazio di ambiguità radicale. La bomba è il sigillo di un universo in cui la realtà si dissolve in sogno, in incubo, in un gioco di specchi che rimanda al Surrealismo. Non a caso, la risata che segue l’esplosione ha una valenza ambivalente: è sia la risata liberatoria di chi si sottrae alle catene del desiderio irrisolto, sia la risata cosmica, inquietante e amara di chi contempla il nonsenso di un’esistenza che si consuma in un eterno ritorno del desiderio insoddisfatto.

Questa risata finale ha inoltre una dimensione metatestuale, come se Buñuel stesse salutando il mondo con un ultimo, irresistibile sorriso beffardo, consapevole della propria posizione di regista fuori dal tempo e dalle mode, che attraverso la sua opera ci ha consegnato uno sguardo profondamente destabilizzante sulla realtà.

Non è quindi solo il desiderio ad essere “oscuro” nell’oggetto del film, ma lo stesso atto di raccontare, di narrare il desiderio, che si manifesta come un’impresa impossibile, un paradosso che si consuma nell’atto stesso della rappresentazione. La bomba è metafora di questo paradosso: un elemento di distruzione che in realtà rivela l’insostenibile fragilità di ogni tentativo di fissare il desiderio in una forma definitiva.

Così, il finale di Quell’oscuro oggetto del desiderio si impone come un’epifania dell’assurdo, una dissoluzione catartica che lascia dietro di sé un alone di mistero e di inquietudine, una domanda aperta sul senso stesso del desiderio umano, sulla sua insaziabilità e sulla sua natura irriducibilmente enigmatica.

Con Quell’oscuro oggetto del desiderio, Buñuel consegna al Novecento una parabola definitiva sul desiderio, sul corpo, sullo sguardo. Un’opera che non si lascia comprendere, ma che ci comprende: un film che, come il desiderio, continua a bruciare nel punto in cui non possiamo toccarlo.