sabato 28 giugno 2025

Perché non recensisco più i libri di Matteo Righetto (e perché non è una questione di giudizio)


Negli anni passati, ho letto con sincero interesse — e direi con un coinvolgimento affettivo più che critico — i libri di Matteo Righetto. Ne scrivevo, li recensivo, lo feci con "La pelle dell'orso" (preistoria, per me e per lui: mi ringraziò, ricordo) con attenzione, e mi sembrava di trovare in quelle pagine qualcosa che parlava a una parte di me che aveva bisogno di raccoglimento, di radicamento, di un certo tipo di silenzio interiore che il suo paesaggio narrativo riusciva a evocare con naturalezza. Era una letteratura che non gridava, che non cercava lo scandalo né la provocazione, ma piuttosto un’adesione profonda a una visione del mondo fatta di misura, di attesa, di ascolto. Mi sentivo in sintonia con quel ritmo, con quello sguardo.

Il mondo che Righetto mette in scena — montano, ruvido, ma anche animato da un senso morale antico — mi appariva come un rifugio, non nel senso della fuga, ma in quello di una riconciliazione possibile con la realtà, pur nei suoi lati più duri. La sua scrittura mi ricordava che esistono ancora storie raccontate senza cinismo, con un respiro lungo e quasi epico, che parlano della terra, delle origini, del legame con la natura non come tema, ma come condizione esistenziale. Allora mi sembrava non solo legittimo, ma necessario, occuparmi di quella narrativa. Ne sentivo l’urgenza.

Ma con il tempo — e qui la dinamica è così delicata che quasi mi sfugge — ho avvertito un allontanamento. Un distacco lento, non traumatico, non polemico. Non c’è stata una rottura, nessun punto di disaccordo netto o delusione improvvisa. Non ho mai chiuso un suo libro con irritazione, né mi sono mai detto: “Questo non lo leggerò più”. È accaduto piuttosto come quando un paesaggio che un tempo ci commuoveva, smette — senza spiegazioni — di emozionarci allo stesso modo. Lo si guarda, si riconosce la sua bellezza, se ne apprezza ancora la coerenza, ma qualcosa, nel nostro sguardo, è cambiato.

Il cambiamento è avvenuto in me, più che nei suoi libri. E me ne rendo conto proprio perché ho continuato a seguirne le uscite, almeno da lontano. Ma quella che un tempo era una risposta calda, interiore, ora è diventata più tiepida, più attenuata. Non che i suoi romanzi abbiano perso valore. È solo che io, come lettore e come critico, ho cominciato a desiderare altro. Storie che non consolano ma interrogano, personaggi più ambigui, linguaggi più spigolosi. Eppure non con disprezzo, né con un senso di superiorità: semplicemente con un’altra urgenza.

Quando leggo oggi le sue trame, ben congegnate, precise, corrette, avverto un senso di déjà vu. Non è colpa dell’autore — e mi sembra importante sottolinearlo — se io ho l’impressione di riconoscere subito la traiettoria del racconto. Forse sono io che, avendo letto molto, tendo ormai a cercare forme più ellittiche, meno trasparenti, forse più imperfette ma più vive. Una scrittura dove anche il paesaggio non è solo teatro o specchio morale, ma scena di conflitto, di perdita, di trasformazione senza redenzione.

Nei personaggi di Righetto ritrovo sempre una certa purezza, una linearità di sentimenti e motivazioni che, un tempo, mi appariva come un atto di fede nella bontà possibile degli esseri umani. Ma ora, forse anche per le ferite che il mondo ha continuato a infliggere a tutti noi, quella linearità mi parla meno. Cerco, nelle figure letterarie, tensioni più laceranti, dissonanze, contraddizioni non risolte. Questo non perché creda che la complessità sia sempre superiore alla semplicità — anzi, so quanto sia difficile scrivere in modo essenziale e profondo al tempo stesso — ma perché sento il bisogno, ora, di un’altra forma di interrogazione.

Non recensisco più Matteo Righetto perché la mia scrittura critica non troverebbe oggi un punto di appoggio autentico. Recensire, per me, non è mai stato un gesto neutro. È sempre stato un dialogo interiore, a volte anche uno specchio. Se mi accorgo che non saprei più trovare le parole giuste, che non riuscirei a dire qualcosa di nuovo o di necessario, preferisco tacere. Il silenzio, in questi casi, non è rifiuto, ma rispetto. È un modo di riconoscere che un percorso comune può concludersi con naturalezza, senza drammi, senza bisogno di giudizi.

La mia non è, quindi, una rinuncia polemica. Non c’è astio, né noia, né insofferenza. Solo una maturazione diversa. Come quando due persone che un tempo si cercavano ogni giorno, si accorgono che le loro vite hanno preso direzioni diverse. Si conservano la stima, magari un ricordo affettuoso, ma non si cercano più. Non c’è niente di tragico in questo, anzi: è il segno che si è vissuto, e che si continua a vivere.

Forse un giorno tornerò a leggere un suo libro e mi sorprenderà, mi restituirà qualcosa che avevo dimenticato. Forse quel paesaggio mi parlerà di nuovo, in un’altra stagione della mia vita. Non lo escludo affatto. Ma per ora, non recensisco più Matteo Righetto perché non ne sarei capace senza forzature. Perché non mi sento più toccato da quelle storie come una volta, e non voglio fingere un entusiasmo che non ho.

Questo testo non vuole essere un commiato, ma una riflessione pacata sul tempo che passa anche tra le letture. La letteratura, per fortuna, è un campo aperto, in cui ci si può sempre incontrare di nuovo, anche dopo essersi persi di vista.