Questa è, per me, un’operazione tanto necessaria quanto sentita di un libro che ho deciso di recuperare solo ora fra le mie sparse recensioni. Ci ho messo del tempo ma spero ne valga la pena per il lettore.
Il volume di cui cercherò di parlare, non si limita a raccontare il dietro le quinte di un film raro e controverso come Splendori e miserie di Madame Royale (1970, di Vittorio Caprioli), ma si propone come una vera e propria esplorazione della cultura omosessuale italiana in un momento di forte tensione sociale e trasformazione. L’importanza dell’opera risiede nella sua capacità di tenere insieme – con una scrittura accessibile eppure colta – la dimensione storica, quella estetica e quella affettiva.
Meroni e Locati Luciani procedono con una metodologia che si potrebbe definire "partecipata": raccolgono interviste, testimonianze, materiali d’archivio, frammenti di critica coeva, ma soprattutto restituiscono a queste fonti una vita, una voce. Non si limitano a catalogare informazioni: le animano, le fanno riverberare nel presente, con un tono che mescola rigore filologico e commozione. È come se gli autori sapessero che raccontare Madame Royale non significa soltanto raccontare un film, ma dare parola a una comunità che per lungo tempo è stata costretta ai margini, quando non completamente cancellata.
Uno degli aspetti più significativi del libro è l’inquadramento storico e sociale della figura di Alessio, il protagonista del film interpretato da Ugo Tognazzi. Alessio non è una macchietta, né un oggetto di scherno: è un essere umano pieno di contraddizioni, fragile e coraggioso insieme, segnato da un mondo che non sa accettarlo. Come sottolineano con intelligenza gli autori, Splendori e miserie di Madame Royale è uno dei primissimi tentativi nel cinema italiano di rappresentare un omosessuale senza caricarlo solo di toni farseschi o tragici. La compassione di Caprioli nei confronti del suo personaggio, e l’interpretazione sorprendentemente trattenuta di Tognazzi, fanno del film un raro esempio di narrazione empatica in un contesto culturale che al tempo trattava l'omosessualità perlopiù come devianza o barzelletta.
Meroni e Locati Luciani colgono perfettamente anche il paradosso insito nella ricezione critica e commerciale del film. Da un lato, Madame Royale non fu capito né apprezzato dal grande pubblico dell’epoca, rimasto spiazzato da un’opera che sfuggiva ai codici più riconoscibili della commedia all'italiana. Dall’altro, la critica, pur riconoscendone alcuni meriti, lo archiviò rapidamente, complice una diffusa ritrosia a confrontarsi seriamente con temi considerati scabrosi. Il libro riesce a far emergere tutta l’ambiguità di questa ricezione, sottolineando come il coraggio di Caprioli sia stato, in fondo, quello di chi lavora ai bordi del sistema senza rinunciarvi del tutto, costruendo una forma di resistenza sommessa ma tenace.
Uno degli elementi che rende il libro ancora più prezioso è la capacità di inserire Splendori e miserie di Madame Royale in una genealogia cinematografica più ampia, che comprende film coevi come Una giornata particolare di Scola o La patata bollente di Steno. In queste opere, a vario titolo, l’omosessualità emerge come elemento di crisi o di interrogazione sociale, ma Madame Royale ha qualcosa di unico: non tematizza semplicemente l’alterità, ma la assume come prospettiva narrativa interna. Alessio è visto dal di dentro, non attraverso lo sguardo giudicante degli "altri". Questo punto di vista interno, che Meroni e Locati Luciani mettono bene in evidenza, segna una differenza radicale rispetto ad altri film dell'epoca.
Se una piccola criticità può essere segnalata, è il fatto che l'analisi pur molto ricca tenda a soffermarsi meno sull'estetica filmica vera e propria. Ad esempio, sarebbe stato interessante approfondire di più il modo in cui Caprioli lavora sulla messa in scena degli interni torinesi, sui colori opachi, sulle inquadrature che sembrano quasi stritolare il protagonista. Il registro visivo del film – sospeso tra un realismo spoglio e un senso di claustrofobia psicologica – meriterebbe forse un'analisi tecnica più articolata. Tuttavia, questo non toglie nulla al valore del lavoro svolto, che si concentra coerentemente sulla dimensione culturale e umana.
Approfondimento: il significato di Madame Royale oggi
Il libro si chiude – o meglio, si apre – a una riflessione implicita ma potente sulla contemporaneità. Madame Royale ci parla ancora oggi perché mette in scena non tanto un’omosessualità stereotipata, quanto l’esperienza universale dell’esclusione, della solitudine, della lotta per la dignità. Alessio non chiede compassione: chiede di essere riconosciuto. In un'epoca come la nostra, in cui l'attenzione ai diritti LGBTQ+ è cresciuta ma non ha cancellato stigmi e discriminazioni, la figura creata da Caprioli e raccontata da Meroni e Locati Luciani risuona con una forza inattesa.
Il fatto stesso che sia stato necessario, oggi, un lavoro di riscoperta come Quelle come me testimonia quanto resti ancora da fare per restituire piena cittadinanza culturale a opere e a vite che la storia ufficiale ha preferito dimenticare. Il libro è, sotto questo profilo, anche un atto politico: non solo una storia di un film, ma una dichiarazione d’esistenza. Come Alessio, come Madame Royale, come "quelle come me", noi tutti siamo chiamati a reclamare visibilità, memoria, ascolto.
Meroni e Locati Luciani, con la loro scrittura attenta e affettuosa, ci ricordano che il cinema – e forse l'arte tutta – ha senso proprio quando riesce a dare voce a chi la società vorrebbe ridurre al silenzio. Quelle come me è allora, oltre che una lettura appassionante, un invito alla resistenza culturale, alla custodia delle memorie vulnerabili, alla rivendicazione di quella fragile ma indispensabile "diversità" che rende più umano il nostro essere nel mondo.
Confronto con altri testi di storia del cinema queer italiano
Nel panorama ancora relativamente esiguo della critica dedicata al cinema queer italiano, Quelle come me occupa un posto a sé, sia per il taglio adottato sia per l’energia affettiva che lo attraversa.
A differenza di opere più sistematiche come Queer Italy: Contexts, Antecedents and Representations (Miguel Andres Malagreca) o Omosessualità e cinema italiano (Mauro Giori), il libro di Andrea Meroni e Luca Locati Luciani non si propone tanto di mappare l'intero fenomeno attraverso categorie teoriche, quanto di raccontare un film specifico – Splendori e miserie di Madame Royale – come evento culturale, biografico, emotivo.
Questo spostamento d'accento, da una logica classificatoria a una narrazione partecipe, è tutt’altro che banale.
Mentre molti studi accademici sembrano interessati a sottolineare il ritardo italiano rispetto alle esperienze queer internazionali (spesso con implicito giudizio negativo), Meroni e Locati Luciani adottano un'ottica più empatica: non si soffermano sui limiti ideologici del film, sulle sue ambiguità rappresentative, ma cercano piuttosto di evidenziarne la forza in quanto testimonianza vulnerabile e sincera di un'epoca ancora incapace di dare pieno diritto di cittadinanza alla diversità sessuale.
Questa strategia narrativa si avvicina più al lavoro di autori come Andrea Pini, che nel suo Quando eravamo froci racconta l’Italia omosessuale degli anni Cinquanta e Sessanta attraverso storie di vita vissuta, testimonianze, immagini e atmosfere, piuttosto che attraverso un filtro analitico. Come Pini, Meroni e Locati Luciani ci ricordano che prima delle teorie c’erano le persone, le loro fragilità, i loro tentativi di esistere, di amare, di sopravvivere.
Al contrario, in Lo schermo velato: cinema e omosessualità (Vito Russo), Splendori e miserie di Madame Royale viene trattato quasi come una curiosità laterale, un prodotto anomalo che non si inserisce pienamente nei codici di rappresentazione omosessuale allora dominanti. In quella prospettiva, il film di Caprioli sembra quasi un errore o un inciampo del sistema cinematografico italiano, incapace – secondo certe letture – di produrre figure queer autenticamente emancipate fino agli anni Ottanta e Novanta.
Meroni e Locati Luciani ribaltano questa visione: per loro Madame Royale è un gesto precoce e struggente, capace di esprimere, pur tra mille limiti, una forma di resistenza culturale autentica.
Inoltre, l’approccio di Quelle come me si distingue anche per la capacità di costruire un racconto stratificato: la vicenda produttiva del film, il contesto politico italiano (tra le ceneri del Sessantotto e l'inizio della strategia della tensione), l’evoluzione della figura pubblica di Ugo Tognazzi e il ruolo degli interpreti femminili (in particolare Jenny Tamburi), vengono ricostruiti non come semplici “cornici”, ma come parte integrante del significato profondo dell’opera.
Si tratta di una scelta che risuona con il metodo della "microstoria" culturale (pensiamo a Carlo Ginzburg), applicata però all’universo queer: non grandi narrazioni astratte, ma piccoli dettagli che, una volta intrecciati, restituiscono una visione potentemente complessa.
Ricezione internazionale di Splendori e miserie di Madame Royale
Se la fortuna critica di Splendori e miserie di Madame Royale in Italia è stata inizialmente tiepida e ambivalente, a livello internazionale il film ha conosciuto una parabola ancora più contraddittoria e frammentaria.
Al momento dell’uscita (1970), nonostante la partecipazione di Ugo Tognazzi – che aveva già cominciato a farsi notare anche all’estero – il film non riuscì a trovare una distribuzione significativa oltre i confini italiani.
Le ragioni sono molteplici: innanzitutto, la complessità del tema (un protagonista omosessuale travestito che si confronta con la marginalità e il crimine) risultava eccessivamente "problematic" per i mercati esteri ancora molto conservatori. In secondo luogo, il tono dolente e disilluso del film, lontano sia dalla commedia sexy italiana che dai melodrammi più tradizionali, rendeva Madame Royale difficilmente classificabile.
È interessante notare come in Francia, il film circolasse in alcune piccole sale di provincia a metà degli anni Settanta sotto il titolo Splendeurs et misères de Madame Royale, ma senza un vero battage pubblicitario. Solo in certi ambienti intellettuali parigini – grazie anche alla cinefilia militante di riviste come Cahiers du Cinéma – si cominciò a parlare del film, pur spesso fraintendendone la natura: visto con occhio ironico, talvolta perfino liquidato come "melodramma estremo", Madame Royale venne letto più come un caso di "camp non intenzionale" che come una seria esplorazione della marginalità queer.
Negli Stati Uniti, il film restò praticamente sconosciuto fino agli anni Novanta, quando iniziò a essere citato in saggi e retrospettive dedicate alla rappresentazione LGBTQ+ prima di Stonewall. In The Celluloid Closet (Vito Russo, 1981), il film non viene menzionato direttamente, ma il suo spirito echeggia tra gli esempi europei di rappresentazioni queer tristi, solitarie, tragiche, ancora imprigionate dentro il paradigma della "punizione" o della "rinuncia".
Negli ultimi quindici anni, la progressiva riscoperta della storia queer europea ha permesso una rivalutazione più equa del film. Alcuni festival internazionali come il Chéries-Chéris di Parigi, il MiX Milano, o il London LGBTQ+ Film Festival (BFI Flare), hanno inserito proiezioni di Splendori e miserie di Madame Royale all'interno di retrospettive sui pionieri invisibili del cinema queer.
In queste occasioni, critici e spettatori hanno potuto cogliere meglio la dolorosa modernità del film: la rappresentazione dell'eroe queer non come macchietta o mostro, ma come persona profondamente umana, complessa, travolta dalla violenza sociale.
In particolare, alcuni studiosi contemporanei come Michele Aaron (autrice di New Queer Cinema: A Critical Reader) hanno sottolineato quanto Madame Royale anticipi certe estetiche "del dolore queer" che emergeranno pienamente solo negli anni Novanta, con film come The Living End di Gregg Araki o Totally F*ed Up.
La figura di Alessio/Madame Royale, interpretata da Ugo Tognazzi, viene oggi riconosciuta come un archetipo ante litteram del queer doomed hero, capace di incarnare la tensione fra desiderio di vita e inesorabile condanna sociale.
Anche in Spagna e in America Latina, negli ambienti universitari e cinefili più sensibili, il film è stato recentemente riscoperto come esempio di “proto-queer mediterraneo”, ovvero come espressione di un’identità sessuale e sociale intrisa di cattolicesimo, colpa, senso di esclusione e bisogno di riscatto, elementi che trovano riscontro in altre cinematografie marginali dell'epoca.
Quello che emerge da questa ampia ricostruzione è che Quelle come me di Andrea Meroni e Luca Locati Luciani ha un merito storico e politico immenso: sottrae Splendori e miserie di Madame Royale al limbo dell’oblio o del fraintendimento, e lo riconsegna alla memoria culturale queer come uno dei suoi tasselli più autentici e più struggenti.
In un’epoca che tende a celebrare solo le icone vincenti e glamour dell’identità LGBTQ+, recuperare una figura come quella di Madame Royale – fragile, imperfetta, tragica – significa riappropriarsi anche della parte più difficile, ma più vera, della nostra storia comune.
Come cambia la percezione di Madame Royale nelle diverse generazioni queer italiane
Il modo in cui Splendori e miserie di Madame Royale è stato visto, interpretato e interiorizzato dalle varie generazioni queer italiane racconta, a suo modo, una storia parallela: la storia della trasformazione profonda del rapporto che le comunità LGBTQ+ hanno avuto con la propria rappresentazione cinematografica.
Negli anni Settanta e Ottanta, per chi scopriva la propria omosessualità in Italia, Madame Royale era una figura ambigua e scomoda. Il film, pur rappresentando un raro tentativo di mettere in scena una soggettività gay non caricaturale, era avvertito come specchio doloroso di una condizione esistenziale ancora schiacciata dal senso di colpa, dalla clandestinità e dall'esclusione sociale.
Per la generazione cresciuta nell’ombra dei pregiudizi più feroci – quella che aveva vissuto l'epoca in cui l'omosessualità era letteralmente un tabù, un “non detto” – la parabola tragica di Alessio/Madame Royale suonava quasi come un monito: una rappresentazione troppo vicina alla realtà vissuta per essere completamente accettata, e al tempo stesso troppo distante da un’idea positiva di sé che ancora faticava a emergere.
Negli anni Novanta, con l’avvento di una nuova consapevolezza identitaria e politica, molte giovani persone LGBTQ+ italiane cominciarono invece a guardare al film con sospetto.
Nel clima di orgoglio, visibilità e rivendicazione inaugurato dal movimento queer contemporaneo, la figura di Madame Royale appariva ormai datata, intrisa di autocommiserazione e sconfitta. Non a caso, in molte rassegne cinematografiche a tema LGBTQ+ del periodo – come il festival Da Sodoma a Hollywood a Torino – Madame Royale veniva presentato più come documento storico che come opera capace di parlare al presente.
È solo negli ultimi quindici, vent’anni, con l’affermarsi di un approccio più fluido, post-identitario e intersezionale alle narrazioni queer, che Madame Royale ha conosciuto una vera e propria rivalutazione.
Le nuove generazioni, cresciute nella molteplicità dei linguaggi queer e trans, si sono mostrate capaci di rileggere il film senza giudicarlo in base a categorie rigide di "buona" o "cattiva" rappresentazione.
Al contrario, la vulnerabilità di Alessio, la sua oscillazione continua tra bisogno d’amore e senso di inadeguatezza, la sua marginalità esistenziale vissuta senza eroismi, sono stati riscoperti come elementi di verità emotiva.
Questo recupero ha reso Splendori e miserie di Madame Royale non solo un "pezzo di storia", ma un archetipo struggente di quella condizione queer che non si lascia mai pienamente normalizzare: un'esperienza dell'identità come spaesamento, ferita, ricerca incessante di uno spazio di appartenenza che il mondo stenta ancora a concedere.
In questo senso, il film si è trasformato in una sorta di "classico postumo", un’opera che parla non tanto di una fase storica superata, ma di una dimensione dell’esperienza queer che continua a esistere sotto traccia, anche nell'epoca della (presunta) piena accettazione.
Le influenze culturali: Pasolini, Genet, Visconti
A rendere Splendori e miserie di Madame Royale un oggetto tanto particolare nel panorama cinematografico italiano non è soltanto la sua trama, ma anche il modo in cui assorbe e rielabora alcune influenze culturali di altissimo rilievo: Pier Paolo Pasolini, Jean Genet e Luchino Visconti.
L’eco di Pasolini è forse la più evidente, benché Caprioli si muova su coordinate estetiche diverse. Come Pasolini in Accattone (1961) o Mamma Roma (1962), anche Madame Royale è attratto dalla marginalità, dal sottoproletariato urbano, dalle vite ai bordi della rispettabilità borghese.
Il protagonista Alessio, come Accattone, è una figura destinata alla sconfitta, incapace di redimersi, ma capace di conservare una sua dignità tragica.
Tuttavia, mentre Pasolini sacralizza la marginalità, trasformandola quasi in un luogo di purezza antropologica, Caprioli la rappresenta in maniera più dimessa, quotidiana, senza mitologie: Madame Royale non è un martire sacro, è una persona stanca, imperfetta, piena di contraddizioni.
L’influsso di Jean Genet, invece, si avverte nella costruzione del protagonista come figura ambivalente, sospesa tra vittima e carnefice, tra innocenza e colpa.
Come i personaggi di Notre-Dame des Fleurs o Querelle de Brest, anche Alessio è invischiato in un mondo di desideri proibiti, legami torbidi, degrado morale ed erotismo disperato.
Il travestimento, nel film, non è tanto una celebrazione della libertà di genere quanto una maschera tragica, un modo per sopravvivere in un mondo ostile. Questa visione profondamente genettiana della soggettività queer – come lotta, come performance obbligata, come travaglio identitario – pervade tutto il racconto.
Infine, l’ombra di Visconti si staglia nell’estetica stessa del film: nella cura quasi maniacale per gli ambienti degradati ma carichi di memoria, nella costruzione melodrammatica dei rapporti affettivi, nella percezione costante della decadenza come stato esistenziale.
Se in Rocco e i suoi fratelli (1960) Visconti raccontava la dissoluzione dei legami familiari nel mondo industrializzato, Caprioli mostra la dissoluzione dei legami umani tout court, in un’epoca in cui la diversità sessuale equivale ancora a esclusione, solitudine, perdita.
Tutti e tre questi riferimenti – Pasolini, Genet, Visconti – convergono in Madame Royale senza mai essere esplicitamente dichiarati.
Non si tratta di citazioni pedanti o di omaggi postmoderni: piuttosto, il film sembra impregnato di un comune sentire culturale, di una consapevolezza tragica della condizione queer che attraversa la grande letteratura e il grande cinema europeo del Novecento.
Ed è proprio questa stratificazione di influenze, questo lavorio sotterraneo di riferimenti alti e dolorosi, che oggi consente a Splendori e miserie di Madame Royale di essere riscoperto non come semplice "documento storico", ma come autentico oggetto culturale capace di continuare a parlare a chiunque si sia mai sentito esiliato dal mondo.
Come Splendori e miserie di Madame Royale anticipa alcuni topoi del cinema queer contemporaneo
Guardando oggi Splendori e miserie di Madame Royale con gli occhi del cinema queer contemporaneo, ciò che colpisce è la sorprendente modernità di alcuni suoi tratti tematici e narrativi, che all'epoca risultarono probabilmente troppo spiazzanti per essere pienamente compresi o accolti.
Il film di Caprioli, infatti, non si limita a raccontare una storia "sul" mondo omosessuale, come poteva accadere in altri prodotti coevi o successivi; piuttosto, si inoltra nella rappresentazione delle soggettività queer in modo che prefigura molte linee che diventeranno centrali nel cinema LGBTQ+ dagli anni Novanta in poi.
Un primo elemento riguarda la complessità psicologica del protagonista. Alessio/Madame Royale non è né il mostro grottesco né la vittima passiva: è una figura ambigua, attraversata da desideri contraddittori, capace di momenti di tenerezza ma anche di gesti discutibili.
Questa rappresentazione stratificata, sfuggente, va molto oltre le semplificazioni stereotipate che avrebbero dominato il cinema mainstream italiano per decenni.
In questo senso, Caprioli anticipa quella “opacità queer” di cui teorici come José Esteban Muñoz parleranno anni dopo: l’idea che l'identità queer non sia un'essenza da esibire né un problema da risolvere, ma un campo di tensioni irrisolte.
Un secondo aspetto riguarda il tema della marginalità urbana come spazio esistenziale queer.
Nel film, Roma appare non come scenario monumentale, ma come una città oscura, periferica, costellata di bar equivoci, pensioni sordide, cortili decrepiti: una Roma notturna e minoritaria che prefigura, ad esempio, l’estetica delle città queer decostruite nei film di Gus Van Sant, Todd Haynes, Pedro Almodóvar.
L’ambiente non è un semplice sfondo, ma parte integrante della condizione queer: è nel degrado, nell'ombra, che si costruisce la fragile rete di relazioni, solidarietà, desideri.
Anche il travestimento viene trattato in un modo modernissimo: non come gag farsesca o come trucco carnevalesco, ma come dispositivo identitario, come strategia di sopravvivenza, come forma (dolorosa e splendida) di autoaffermazione.
In questo, Madame Royale anticipa la centralità che il drag, il cross-dressing e le performance di genere avranno nei racconti queer contemporanei, da Paris Is Burning fino a Pose.
Infine, è straordinario notare come il film non proponga nessuna “redenzione” finale.
Non c’è una normalizzazione, una "conversione" all'eterosessualità, né una tragica punizione catartica alla maniera dei film queer hollywoodiani degli anni Cinquanta e Sessanta. La fine è dolorosa, certo, ma è il compimento di un percorso interiore, non l’espiazione di una "colpa".
Anche questo lo rende, retrospettivamente, un film pionieristico, che parla la lingua — dolente, complessa, resistente — del queer cinema più autentico.
Il clima politico e sociale dell’Italia di fine anni Sessanta: un riflesso oscuro
Per capire fino in fondo il senso di Splendori e miserie di Madame Royale, bisogna immergersi nell'atmosfera dell'Italia di fine anni Sessanta, una stagione tanto mitizzata quanto carica di contraddizioni e oscurità.
Il 1969 è l'anno dell'autunno caldo, delle lotte operaie, della contestazione studentesca, ma anche delle prime ombre della strategia della tensione, delle bombe di matrice neofascista, della crescente polarizzazione politica.
È un'Italia che da una parte si sta aprendo — lentamente, dolorosamente — a nuove libertà, e dall'altra si irrigidisce in paure profonde, in derive repressive.
Nel contesto culturale, mentre esplodevano le sperimentazioni artistiche e si tentava di sfondare i tabù sessuali, l'omosessualità continuava a essere vista come una devianza, quando non addirittura come un reato (il reato di "atti osceni" era ancora usato per colpire le persone LGBTQ+).
Non esistevano né movimento di liberazione omosessuale né spazi politici visibili per le soggettività queer. L’omosessualità era relegata al mondo clandestino della prostituzione, dei locali notturni, della marginalità sociale.
Madame Royale, in questo scenario, è dunque l'incarnazione tragica di una comunità costretta a vivere nascosta, ai margini, spesso vittima non solo del disprezzo della società, ma anche della propria interiorizzazione dello stigma.
Il rapporto tra Alessio e il commissario di polizia — carico di paternalismo, ambiguità, inconfessato desiderio — rispecchia perfettamente l'ipocrisia dell'epoca: chi rappresentava la legge poteva essere, nel privato, attratto da ciò che pubblicamente condannava.
Questo tema della doppia morale, della tensione irrisolta tra desiderio e repressione, attraversa tutto il film e costituisce uno dei suoi legami più profondi con il clima del tempo.
Ma c’è di più: nel raccontare il progressivo isolamento del protagonista, il suo sprofondare nella povertà, nel disamore, nella violenza, Caprioli coglie anche l'aspetto meno celebrato della stagione sessantottesca: il fatto che, pur nel tumulto delle lotte sociali, le minoranze sessuali rimasero in gran parte escluse dai discorsi di emancipazione.
Il "nuovo mondo" che si cercava di costruire era spesso pensato ancora in termini eteronormativi e maschili.
In questo senso, Splendori e miserie di Madame Royale è un film profondamente politico, anche se in modo obliquo: non proclama, non denuncia, ma mostra — con pudore e disperazione — la solitudine a cui era condannata ogni esistenza queer in un'Italia che cambiava troppo lentamente, o forse cambiava lasciando indietro proprio chi più aveva bisogno di essere visto.
L'influenza (o l'assenza di influenza) di Splendori e miserie di Madame Royale sulla rappresentazione queer nel cinema italiano successivo
Parlare dell'influenza di Splendori e miserie di Madame Royale sul cinema italiano successivo è, in un certo senso, parlare anche di una grande rimozione.
Il film di Vittorio Caprioli, pur così radicale nella sua messa in scena di una soggettività queer complessa, dolorosa, ambigua, non ha dato vita, immediatamente dopo, a una "scuola" o a una tradizione di cinema queer italiano.
Anzi: è come se, dopo il suo passaggio, la rappresentazione dell'omosessualità nel nostro cinema fosse tornata a chiudersi dentro a modelli più stereotipati, più caricaturali, più rassicuranti.
Negli anni Settanta, infatti, il cinema italiano — anche quello più sperimentale o politicamente impegnato — preferì nella maggior parte dei casi evitare un confronto diretto con il tema della soggettività queer.
Quando l'omosessualità compariva sullo schermo, era ancora spesso raccontata attraverso la lente del comico farsesco, della macchietta, oppure del dramma morale dove il personaggio omosessuale era destinato alla tragedia o all'eliminazione.
Basti pensare a come, nello stesso decennio, in film anche molto celebri, la figura del "frocio" venisse ancora usata come spauracchio o come spalla ridicola.
In questo senso, Madame Royale rimase un corpo estraneo: troppo intimo per essere accettato dai circuiti cinematografici più commerciali, troppo ambiguo per essere adottato dalla nuova sinistra cinematografica, che tendeva a vedere l'omosessualità come una questione secondaria, se non come un problema piccolo-borghese.
Una vera e propria ripresa di alcuni dei temi tracciati da Caprioli si sarebbe vista solo molto più tardi, a partire dagli anni Novanta e Duemila, con l'affermazione di registi come Ferzan Özpetek (Le fate ignoranti, Saturno contro) o Alessandro Avellis (Gli anni amari).
Anche se il tono, le atmosfere e i riferimenti culturali sono diversi, in questi film ritorna finalmente quella rappresentazione di personaggi LGBTQ+ complessi, non ridotti a macchiette o a simboli astratti, che Caprioli aveva proposto in anticipo di almeno trent'anni.
Si può dire, dunque, che l'influenza di Madame Royale è stata carsica, sotterranea: non ha generato un movimento immediato, non ha prodotto imitazioni, ma ha tracciato — in silenzio, in fondo a una memoria marginale — una possibilità diversa di raccontare vite queer, una possibilità che solo molto tempo dopo avrebbe cominciato a essere esplorata.
Un seme gettato in un terreno ancora troppo ostile, che avrebbe impiegato decenni a germogliare.
E se oggi, nel rivedere il film, molti spettatori queer riconoscono in Madame Royale un'antenata, una sorella maggiore, una figura familiare, è forse proprio perché il cinema italiano, per troppo tempo, ha lasciato che quella voce rimanesse sola, sospesa, in attesa di essere finalmente ascoltata.
Scene chiave di Splendori e miserie di Madame Royale: una lettura ravvicinata
Nel corso di Splendori e miserie di Madame Royale, Caprioli costruisce un ritratto sfaccettato e doloroso del suo protagonista attraverso una serie di scene che, pur nella loro apparente naturalezza, sono in realtà minuziosamente calibrate sul piano simbolico.
L'analisi ravvicinata di alcune di queste sequenze consente di cogliere appieno la finezza con cui il film interroga i temi dell'identità, dell'emarginazione, della memoria.
La scena dell'inizio: il trucco e lo specchio
Sin dalle prime battute del film, assistiamo a una scena di trucco davanti allo specchio: il protagonista, Alessio, si prepara a entrare nei panni di Madame Royale, la sua maschera teatrale.
È una scena che richiama inevitabilmente Genet (Querelle de Brest, Notre-Dame-des-Fleurs), ma anche il cinema di Fassbinder: la performance dell'identità queer viene mostrata nella sua costruzione materiale, senza mistificazioni, senza sentimentalismi.
Il trucco non è solo un artificio estetico: è un gesto di sopravvivenza.
La scelta di Caprioli di inquadrare a lungo il volto che si trasforma, insistendo sulla lentezza e la ripetizione del gesto, introduce il tema dell’identità come qualcosa di faticosamente "fabbricato", ma non per questo meno autentico.
Il rapporto con il "figlio adottivo"
Un'altra scena cruciale è quella in cui Alessio si confronta con il giovane ragazzo che considera, in un certo senso, il proprio "figlio adottivo".
Qui la scrittura del film si fa dolorosamente ambivalente: da un lato, c'è un gesto di generosità reale, di amore incondizionato; dall’altro, la percezione che questo amore sia segnato da una fondamentale solitudine, da una marginalità che nessun gesto di cura può davvero riscattare.
Il dialogo tra i due personaggi è secco, quasi quotidiano, e proprio per questo ancora più struggente: Caprioli evita ogni sentimentalismo, lasciando che il vuoto affettivo emerga tra le parole, più che nelle parole stesse.
La scena della festa borghese
In una delle scene più emblematiche, Alessio viene invitato a una festa dell'alta borghesia torinese: è una parentesi di falso riconoscimento, una concessione temporanea, quasi crudele, della società "normale".
Qui Caprioli mette in scena, con una finezza degna di Visconti, il gioco spietato dell'inclusione/esclusione: Madame Royale viene ammirata, vezzeggiata, ma sempre come un'esotica eccezione, mai come un soggetto pienamente appartenente a quel mondo.
La macchina da presa si sofferma sui dettagli — i sorrisi forzati, gli sguardi obliqui — rendendo palpabile la tensione tra il desiderio di accettazione e la consapevolezza della propria irriducibile alterità.
La scena finale: la solitudine come destino
Il film si chiude su una nota di desolazione struggente: Alessio, ormai smascherato e abbandonato, si ritrova solo in una Torino grigia, livida, indifferente.
Non c'è catarsi, non c'è redenzione.
Caprioli rifiuta l'illusione di un happy ending, scegliendo invece di rappresentare la marginalità come una condizione permanente, una forma di esistenza che chiede di essere riconosciuta, non guarita.
È una chiusura che anticipa il pessimismo esistenziale di molto cinema queer contemporaneo, in cui il lieto fine non è garantito — e anzi, spesso, non è neppure cercato.
Adesso, torniamo al libro
Il volume Quelle come me si impone fin dalle prime pagine come un'operazione di restauro affettivo e culturale, che supera la semplice "riscoperta" cinefila per abbracciare un intento più profondo: restituire voce e dignità a una storia — quella di Splendori e miserie di Madame Royale — che la cultura ufficiale aveva emarginato, esattamente come aveva emarginato il suo protagonista.
Meroni e Locati Luciani scrivono con uno stile partecipe, a tratti appassionato, ma sempre sorretto da una solida ricerca documentaria.
La loro operazione è doppia: da un lato, raccontano la genesi e la produzione del film, svelandone i retroscena, i compromessi produttivi, il coraggio creativo; dall'altro, ne seguono le fortune e le sfortune critiche, cartografando l'oblio e le successive micro-revival che hanno accompagnato la sua storia.
Un grande pregio del libro sta nel fatto che non si limita a una narrazione cronologica: la storia del film viene intrecciata costantemente alla storia della rappresentazione queer in Italia e alla storia sociale e politica degli anni Sessanta e Settanta.
In questo senso, Quelle come me non è soltanto una "storia di un film", ma anche una microstoria culturale di un’Italia che aveva ancora grandissime difficoltà a riconoscere, figurare e accogliere le vite LGBTQ+.
Meroni e Locati Luciani ricostruiscono con precisione il contesto: i tentativi allora rarissimi di rappresentare l'omosessualità in modo complesso, i limiti censori, il peso schiacciante dei codici morali dominanti.
E soprattutto illuminano come Caprioli — senza retoriche, senza dichiarazioni programmatiche — riuscisse a toccare corde che oggi definiremmo "queer" in modo del tutto istintivo, anticipando sensibilità che sarebbero esplose decenni dopo.
Particolarmente riuscite sono anche le parti in cui gli autori si soffermano sulle ricezioni critiche dell’epoca: emerge chiaramente quanto il film sia stato frainteso, respinto, minimizzato, incasellato in schemi riduttivi.
Meroni e Locati Luciani non si limitano a registrare i giudizi: li analizzano, li contestualizzano, mostrando come anche la critica coeva fosse incapace di leggere fino in fondo il progetto di Caprioli.
In questo modo, il libro si fa anche specchio delle difficoltà culturali di un’intera stagione italiana nel pensare il "diverso".
Va detto che, nella sua seconda parte, Quelle come me indulge forse un po' troppo nell'accumulo di materiali di archivio (interviste, recensioni, ritagli), con il rischio di rallentare il ritmo della lettura.
Tuttavia, questa scelta nasce da una volontà chiara: documentare, dare peso e corpo a una memoria altrimenti fragile, quasi invisibile.
Un altro punto forte è il modo in cui gli autori riescono a restituire la grandezza umana di Vittorio Caprioli: non solo come regista, ma come artista capace di una sensibilità fuori dal tempo, capace di vedere nella figura della "checca" (come si diceva allora) non solo un motivo di riso o di scandalo, ma un vero personaggio tragico, degno di compassione, rispetto e complessità.
In definitiva, Quelle come me si impone come un testo necessario:
- per chi voglia ripensare criticamente la storia del cinema italiano;
- per chi voglia capire il lungo e difficile cammino della rappresentazione queer nel nostro paese;
- per chi sappia riconoscere che, a volte, la vera avanguardia non passa attraverso dichiarazioni clamorose, ma attraverso gesti silenziosi e profondissimi, come quelli di Caprioli.
È un libro che parla anche di noi: dei nostri desideri di visibilità, di riscatto, di appartenenza — e di quanto ancora, in fondo, ci sia da camminare.
Riferimenti letterari e culturali in Quelle come me: tra Cocteau, Genet, Visconti
Uno degli aspetti più raffinati di Quelle come me risiede nella sua capacità di collocare Splendori e miserie di Madame Royale all’interno di una rete culturale più ampia, che travalica i confini del cinema italiano, aprendosi a una genealogia più sottile e internazionale della sensibilità queer.
Meroni e Locati Luciani non si limitano infatti a raccontare la storia produttiva del film, ma si soffermano acutamente su quelle ascendenze artistiche e letterarie che, pur non sempre dichiarate apertamente da Caprioli, si percepiscono come filigrana spirituale nell'opera.
Jean Cocteau, anzitutto: il poeta-regista francese che aveva saputo conferire dignità tragica e poetica alle figure marginali, deformate, agli amori indicibili.
Caprioli sembra attingere inconsciamente — o forse con piena consapevolezza — a quell’universo in cui il travestimento, l’ambiguità, la fragilità diventano epifanie dell’anima.
Come Cocteau, anche Caprioli guarda ai suoi personaggi non come a caricature, ma come a creature sospese, vulnerabili, eppure eroiche nella loro ostinazione a esistere.
Ancora più forte, nel ritratto della miseria e della dignità di Alessio/Madame Royale, risuona Jean Genet.
Meroni e Locati Luciani richiamano in particolare l’atmosfera dei romanzi genettiani — Notre-Dame-des-Fleurs, Querelle de Brest — in cui i corpi scarti della società diventano sacri attraverso una scrittura che li esalta e li riscatta.
Il film, come Genet, racconta l’emarginazione non come degrado, ma come luogo paradossale di verità.
In questa prospettiva, Splendori e miserie di Madame Royale non si limita a mettere in scena una "checca" e il suo piccolo mondo di disperazione: costruisce un vero e proprio spazio poetico dove l’identità sessuale si intreccia con il tema, eterno, della sconfitta e della rivalsa.
Il legame con Luchino Visconti — soprattutto il Visconti degli anni Sessanta — si manifesta in modo meno immediato, ma ugualmente pregnante.
Meroni e Locati Luciani sottolineano come Madame Royale condivida con film come Rocco e i suoi fratelli o La caduta degli dei una tensione drammatica verso il destino e una attenzione malinconica ai corpi socialmente segnati.
La messinscena di Caprioli — il gusto per gli interni barocchi e claustrofobici, l'insistenza sui riti della rovina — richiama quella viscontiana arte di far parlare i dettagli: un mobile tarlato, una fotografia ingiallita, una stoffa lisa che diventa emblema della decadenza.
Ciò che emerge nitidamente dal lavoro di Meroni e Locati Luciani è che Splendori e miserie di Madame Royale non nasce nel vuoto: si inserisce in una costellazione culturale dove la rappresentazione della diversità — sessuale, sociale, esistenziale — è già stata tentata, in forme alte e spesso dolorose, da alcuni maestri.
Ma Caprioli aggiunge a quella costellazione un tratto tutto suo: una delicatezza sghemba, una malinconia lieve che non scivola mai né nell'autocompiacimento né nella pornografia della sofferenza.
In questo senso, Quelle come me aiuta il lettore a vedere il film per quello che è davvero: non un episodio isolato o eccentrico del cinema italiano, ma un tassello mancante di una storia culturale più ampia e più profonda, che attraversa la poesia, il teatro, il cinema europeo della seconda metà del Novecento.
Metodologia critica: tra archivi, testimonianze e ricostruzione narrativa
Uno degli elementi più preziosi e rari di Quelle come me è il lavoro filologico e archivistico che Meroni e Locati Luciani hanno condotto per restituire al lettore non solo il contesto di Splendori e miserie di Madame Royale, ma anche l’atmosfera culturale e politica che ne permise — o meglio, ne rese possibile a fatica — la nascita.
Il loro approccio, come emerge chiaramente lungo il testo, è meticolosamente documentario, ma senza mai scadere nella cronaca piatta o nella sterile erudizione.
Lavorando su fonti spesso disperse, su ritagli di giornale, su interviste d’epoca, e su materiali d’archivio in alcuni casi rarissimi (locandine, fogli stampa, recensioni regionali), i due autori riescono a ricostruire il quadro di ricezione del film nei suoi vari livelli: dalla critica cinematografica ufficiale, ancora fortemente intrisa di moralismi e pregiudizi, alla ricezione più clandestina e marginale nell'ambiente queer dell’epoca.
È evidente che la loro ricerca non si è limitata alle fonti “facili” o accessibili, ma ha coinvolto un paziente scavo storico, a volte compiendo autentiche operazioni di archeologia culturale: recuperare una recensione dimenticata, una dichiarazione estemporanea di Caprioli, perfino notizie indirette su come il film venne distribuito e — spesso — maltrattato dalla censura o ignorato dai circuiti ufficiali.
Accanto alla dimensione archivistica, Meroni e Locati Luciani adottano però anche una struttura narrativa coinvolgente: Quelle come me non è infatti un catalogo di dati, ma una storia raccontata, con uno sviluppo quasi romanzesco.
La narrazione procede per stratificazioni, come se gli autori seguissero, scena dopo scena, il viaggio stesso del film — dalla sua genesi incerta alla sua riscoperta come oggetto di culto.
Questa scelta di scrittura consente di restituire al lettore il sapore vivo dell’epoca: il Sessantotto che non era solo proteste studentesche, ma anche marginalità, ferite, esclusione; un'Italia ancora profondamente omofoba, incapace di dare voce ai suoi "Alessio", costretti a esistere ai margini non solo della società, ma perfino della cultura progressista.
Un altro punto metodologico cruciale è l’attenzione alla soggettività: Meroni e Locati Luciani non fingono di essere “neutri” o “oggettivi”, ma dichiarano — nella scelta delle fonti, nella struttura del racconto, nella loro partecipazione emotiva — una precisa alleanza con le vite queer spezzate o rimosse dalla narrazione ufficiale del cinema italiano.
Il loro è un atto politico oltre che critico: salvare, dare dignità, ricostruire, rammendare lacerti di memoria prima che si perdano definitivamente.
La costruzione del saggio è impreziosita da un uso sapiente delle citazioni, mai prolisso né ornamentale.
Ogni riferimento letterario, critico o cinematografico viene utilizzato per illuminare un punto, per far emergere una continuità o una tensione sommersa.
In questo modo, Quelle come me si configura come un libro che è insieme storico, letterario, poetico e politico: una summa rara di rigore critico e passione personale, dove l’attenzione ai documenti si fonde con l'urgenza di raccontare una storia che ci riguarda ancora, intimamente.
Il valore politico attuale di “Quelle come me”
In un’epoca come la nostra, in cui la memoria collettiva rischia costantemente di essere corrosa — assorbita dalla velocità mediatica, neutralizzata da narrazioni semplificate, oppure manipolata da derive neo-conservatrici — operazioni culturali come Quelle come me assumono un valore politico urgente e imprescindibile.
La ricostruzione appassionata e rigorosa che Andrea Meroni e Luca Locati Luciani compiono non riguarda soltanto la storia di Splendori e miserie di Madame Royale: riguarda il diritto alla memoria di intere generazioni queer italiane, spesso ignorate, fraintese o cancellate non solo dal mainstream culturale, ma anche, paradossalmente, da certi racconti ufficiali del progresso LGBTQ+.
Attraverso il racconto del film di Vasile e Caprioli, gli autori sollevano una questione più ampia: chi ha il diritto di essere ricordato? Chi decide quali storie sono “degne” di occupare uno spazio nella memoria culturale nazionale?
E ancora: in un'Italia che, nonostante le battaglie per i diritti civili, ancora oggi vede l’emergere di rigurgiti omofobi, transfobici e moralisti, quanto resta da fare perché la complessità delle vite queer venga davvero riconosciuta, onorata, tramandata?
In questo senso, Quelle come me è un libro militante nel senso più alto: non perché indulga in slogan o in facili rivendicazioni, ma perché pratica la resistenza attraverso il racconto, l’indagine storica, la restituzione della dignità a figure come Madame Royale / Alessio, il protagonista "deposto" e marginale che — proprio per la sua dolente esistenza fuori norma — diventa un simbolo universale.
Il valore politico dell’operazione si misura anche nella capacità di colmare i vuoti della narrazione culturale italiana: di mostrare che esisteva già negli anni Sessanta un cinema capace di sfidare i tabù di genere e di sessualità, nonostante l’isolamento, la censura, e la difficoltà di trovare pubblico e riconoscimento.
Riaffermare oggi l’esistenza e l'importanza di Splendori e miserie di Madame Royale significa infrangere l’illusione che la visibilità queer sia un dono recente o una concessione benevola del progresso contemporaneo: è invece il frutto di una lunga, dolorosa, spesso clandestina storia di resistenza.
C’è anche un altro aspetto politico rilevante: il metodo di Meroni e Locati Luciani — basato su archivi, testimonianze, microstorie — si oppone in modo radicale alla tendenza contemporanea alla semplificazione iconografica.
Nel tempo dei “testimonial” e delle “icone” LGBTQ+ da copertina, Quelle come me ci invita invece ad ascoltare le voci fragili, storte, imperfette: quelle che non si prestano alla santificazione, che sfuggono agli stereotipi di successo, di glamour o di performatività vincente.
E questo atto di ascolto, di riscoperta e di narrazione diventa a sua volta un gesto di rivoluzione culturale.
Quelle come me si inserisce in quella tradizione di studi e narrazioni queer che non separano mai estetica e politica, ma vedono nell’arte — nel cinema, nella letteratura, nella memoria — un campo di battaglia in cui l’identità, la differenza, il desiderio e la giustizia sociale si intrecciano inesorabilmente.
In un’Italia che ancora fatica a riconoscere pienamente la pluralità dei suoi cittadini e cittadine, Quelle come me è, dunque, un atto di amore e di lotta: un richiamo a non dimenticare, a rimettere insieme le schegge disperse, a riconoscere in una figura come Madame Royale la dignità e la grandezza delle vite vissute nell’ombra.
La qualità letteraria e politica di "Quelle come me"
Quelle come me di Andrea Meroni e Luca Locati Luciani si rivela, a una lettura attenta e approfondita, un lavoro di raro equilibrio tra rigore storico, sensibilità narrativa e tensione politica.
Non si limita a fornire una cronaca del film Splendori e miserie di Madame Royale, né si appiattisce su una dimensione meramente documentaria: al contrario, costruisce un vero e proprio racconto critico, in cui la materia d'archivio si anima grazie a una scrittura capace di tenere insieme precisione e vibrazione emotiva.
Dal punto di vista letterario, il libro dimostra un rispetto assoluto per le fonti, senza mai rinunciare a uno stile personale: ogni passaggio si caratterizza per una chiarezza espositiva, una capacità di contestualizzazione storica raffinata, e una sottile vena empatica che evita sia l'enfasi melodrammatica sia il distacco accademico.
Meroni e Locati Luciani praticano una scrittura inclusiva, che non dà mai per scontato il sapere del lettore, ma allo stesso tempo lo invita a un percorso di consapevolezza complessa, stratificata.
L’approccio metodologico — basato su materiali rari, interviste, ricerche archivistiche, analisi comparate — conferisce al libro una solidità critica che lo distingue da molta saggistica recente dedicata al cinema queer italiano, spesso più impressionistica o celebrativa.
Quelle come me lavora invece sulle ombre, sulle contraddizioni, sulle zone grigie di una storia culturale dimenticata, restituendo alla figura di Madame Royale, e più in generale alle narrazioni queer italiane pre-anni '80, una profondità storica e simbolica.
Dal punto di vista politico, come abbiamo visto, il libro interviene in modo diretto nella battaglia per la memoria: riaffermando che esiste una genealogia queer italiana che ha diritto a essere riconosciuta, anche quando le sue figure non corrispondono agli standard rassicuranti dell'eroismo o della rispettabilità.
In tal senso, Quelle come me si colloca tra i testi più coraggiosi e necessari degli ultimi anni: perché non solo illumina un'opera misconosciuta, ma la inserisce in una costellazione più ampia di riferimenti culturali, politici, letterari e cinematografici che ridefiniscono radicalmente la percezione del passato.
Non si tratta dunque di un semplice "omaggio" a Splendori e miserie di Madame Royale, né di un'operazione nostalgia: si tratta di un atto di resistenza culturale che, attraverso il gesto della scrittura e della ricerca, restituisce alla comunità queer italiana strumenti di riconoscimento, di orgoglio e di interrogazione critica.
In definitiva, Quelle come me è un libro necessario non solo per chi si occupa di storia del cinema, di cultura LGBTQ+, di studi di genere o di italianistica, ma per chiunque creda che la memoria sia un atto politico e che il racconto delle vite fragili, marginali, offese sia uno dei compiti più alti della cultura contemporanea.
Quelle come me di Andrea Meroni e Luca Locati Luciani non è soltanto un saggio dedicato alla storia di Splendori e miserie di Madame Royale di Vittorio Caprioli: è un'operazione culturale e politica che interviene in modo preciso e necessario sulla memoria queer italiana.
In un panorama ancora segnato da rimozioni, stereotipi e amnesie collettive, questo libro ricostruisce — attraverso una metodologia rigorosa e una scrittura partecipe — la traiettoria nascosta di un film che aveva osato raccontare, in un'Italia ipocrita e repressiva, l'esistenza scandalosa e tragica di una figura omosessuale.
Meroni e Locati Luciani, lavorando su archivi dimenticati, fonti rare e testimonianze marginali, non si limitano a documentare: essi costruiscono una narrazione critica che inserisce Madame Royale in un contesto culturale più vasto, fatto di echi pasoliniani, suggestioni genetiane, visioni viscontiane.
Il loro approccio non indulge mai alla nostalgia né al folklore: mira invece a ricollocare il film come una tappa centrale — seppur dolente e imperfetta — nella storia della rappresentazione queer italiana.
Il libro riflette anche sulla ricezione del film all'estero, sulla sua capacità di anticipare topoi oggi centrali nel cinema queer contemporaneo, e sulla stratificazione di sguardi che si sono susseguiti nel tempo, tra generazioni LGBTQ+ diverse, mostrando come il mito di Madame Royale sia rimasto vivo, carsico, in attesa di una riscoperta consapevole.
Attraverso questa rilettura, Quelle come me afferma che la storia queer italiana esiste, che possiede una sua genealogia autonoma e complessa, e che è nostro compito politico ed etico restituirle la visibilità che le è stata negata.
Dal punto di vista letterario, il testo colpisce per la sua capacità di combinare precisione critica ed empatia narrativa: la scrittura è sempre attenta a non tradire la fragilità dei materiali, ma al tempo stesso sa caricarli di una risonanza emotiva e intellettuale che li rende vivi e attuali.
Politicamente, Quelle come me rappresenta un gesto di resistenza, un invito a guardare al passato non come a un archivio morto, ma come a un campo di forze ancora attive, capace di interrogare radicalmente il presente.
In definitiva, questo volume non parla soltanto di un film.
Parla di noi, della nostra storia, delle nostre battaglie per essere raccontati, e dell'urgenza di non perdere mai il filo della memoria, per continuare a costruire identità complesse, consapevoli, libere.