sabato 19 aprile 2025

Corpo inerte in Andrea Mantegna, Giuseppe Sanmartino fino a Luciano Fabro

Nel silenzio sospeso di opere, separate da secoli ma unite da una medesima vertigine spirituale, si distende il corpo: ora in pittura, ora in marmo, ma sempre offerto allo sguardo come reliquia della sofferenza.

Il Cristo morto di Andrea Mantegna, dipinto tra il 1475 e il 1478, e Il Cristo velato di Giuseppe Sanmartino, scolpito nel 1753, dialogano attraverso il tempo con una forza che supera le differenze di tecnica, di stile, di epoca. Due gesti radicalmente diversi, ma ugualmente devoti, che sfidano lo spettatore a superare la superficie, a interrogare non solo la morte, ma il senso stesso della visione. E in questo senso, il confronto non è solo estetico o teologico: è anche profondamente umano, esistenziale, emotivo. È un incontro tra sguardi, tra epoche, tra concezioni diverse della finitudine e del divino, che si svolge nel luogo sacro e laico insieme dell’arte.

Nel Rinascimento padano, Mantegna affronta il tema della Passione con una lucidità glaciale. La sua è una pittura che non vuole compiacere, non cerca l’estasi mistica né l’eleganza formale. L’artista costruisce un’immagine volutamente spietata, quasi documentaria. Il corpo del Cristo giace frontalmente, rigidamente disteso su una lastra fredda, i piedi forati sporgono in primo piano con una frontalità che sfida le regole prospettiche dell’epoca. Lo spettatore è costretto a guardare da vicino, ad avvicinarsi al dolore come a un tavolo settorio, come se quel corpo fosse già oggetto di dissezione, non più solo di contemplazione. L’arte di Mantegna, qui, si fa scomoda, spigolosa, ci respinge e ci attira, ci obbliga a mettere in gioco la nostra stessa posizione. Eppure, in questa nudità disarmante, si avverte un senso di solennità, una sacralità antica che non si fonda su decorazioni o aureole, ma sulla verità brutale dell’evento.

Ma è proprio in questa crudezza che Mantegna raggiunge una forma altissima di pietà. Il dolore non è mai spettacolarizzato, eppure è onnipresente: nelle mani aperte, nei lineamenti contratti, nella solitudine della composizione. Ai lati, presenze appena trattenute – la Madonna, forse San Giovanni, forse Maria Maddalena – emergono da una penombra densa, quasi senza tempo. Eppure non gridano, non piangono: osservano, come noi. I vasetti di unguento, appoggiati con disordine e mestizia, diventano i soli segni rituali in un’immagine spoglia di orpelli. Qui tutto è essenziale. Tutto è verità. La morte, nel Cristo di Mantegna, non è sublimata: è un fatto, è un corpo. È già storia. È già corpo postumo, oggetto di lutto e di memoria. E questa memoria, nel suo farsi carne pittorica, ci riguarda profondamente: ci interroga su come guardiamo, su quanto possiamo sopportare dello sguardo, e su cosa rimane di noi nel momento della perdita.

Due secoli dopo, a Napoli, Giuseppe Sanmartino prende una strada diametralmente opposta. La sua scultura è l’esatto contrario della secchezza mantengnesca: è un miracolo di morbidezza, di suggestione, di mistero.

Il Cristo velato, commissionato da Raimondo di Sangro per la Cappella Sansevero, si presenta come un corpo disteso anch’esso, ma avvolto in un sudario che sembra vivo, mosso da un respiro sottile. Eppure è tutto marmo. Il miracolo tecnico di Sanmartino non è soltanto virtuosismo: è un mezzo per dare carne all’invisibile, per far sì che la pietà cristiana si trasformi in emozione tattile. Ogni piega del velo, ogni increspatura della stoffa, ogni trasparenza illusoria del marmo porta il nostro sguardo a desiderare di toccare, di accarezzare quel corpo, come se fosse ancora caldo, ancora abitato dallo spirito. In questa materia che finge l’impalpabile, si cela un messaggio alchemico e spirituale, dove il corpo di Cristo non è solo simbolo, ma epifania tangibile del mistero.

Qui il dolore non è negato, ma contenuto. Le membra del Cristo sono rilassate, la testa inclinata con dolcezza, le mani poggiate con grazia. E tuttavia, sotto il velo trasparente, si avvertono ancora le piaghe, si intravedono le spine, i chiodi, le ferite. L’illusione del velo – che in realtà non è steso sopra il corpo, ma scolpito nello stesso blocco di marmo – serve non per nascondere, ma per proteggere. È come se la morte fosse stata vinta dalla bellezza, e la bellezza, a sua volta, fosse divenuta epifania. Sanmartino non mostra la morte, la evoca. Non la illustra, la rende sacra. Il pathos che emana dalla sua opera non è urlato, ma filtrato attraverso una calma maestosa, come se il corpo stesso fosse avvolto da una luce interiore, una pace che viene da altrove. Una pace che non ha bisogno di parole, perché tutto è già detto nella perfetta imperfezione di quelle pieghe, nel silenzio che scivola tra il marmo e la fede.

Il confronto tra le due opere, sebbene apparentemente improponibile, rivela invece una profonda complementarità. Dove Mantegna esibisce la carne nella sua disgregazione, Sanmartino la trasfigura nella purezza del marmo. Dove uno insiste sulla materia, l’altro scivola verso lo spirito. Ma entrambi, a loro modo, mettono in scena il mistero cristiano della morte e della redenzione. Entrambi impongono al pubblico non uno sguardo passivo, ma una partecipazione interiore, una vera e propria immersione emotiva e intellettuale. Non si tratta semplicemente di osservare due capolavori, ma di entrare in dialogo con essi, lasciandosi attraversare dal loro silenzio, dai loro simboli, dalla loro irriducibile alterità. Ogni piega del sudario e ogni ferita dipinta sono inviti all'empatia, ponti tra l'arte e la coscienza, tra il visibile e l'invisibile.

C’è in Mantegna il rigore laico dell’umanista, che guarda alla morte come a un’ultima soglia tangibile, misurabile, umana. Il Cristo, lì, è un corpo che ha sofferto, è stato tradito, crocifisso, esposto. È il corpo del martire, dell’uomo. In Sanmartino, invece, il corpo è già oltre: ha attraversato la soglia, è divenuto simbolo, emblema, visione. La fede barocca ha trasfigurato la carne, l’ha resa preghiera muta. Lì dove il Rinascimento smaschera, il Barocco vela – ma in entrambi i casi, la potenza emotiva dell’immagine resta inalterata, anzi, si moltiplica nella tensione tra i due. Come se la nudità assoluta dell’uno e il pudore assoluto dell’altro fossero due facce della stessa verità: quella che la morte di Cristo non si può spiegare, ma solo contemplare, e forse amare. E quell'amore, che si fa forma, che si fa arte, è il vero ponte tra queste due visioni distanti eppure vicinissime.

E allora, in quel varco che si apre tra la pittura e la scultura, tra la precisione analitica di Mantegna e l’estasi pietrificata di Sanmartino, si insinua il nostro sguardo contemporaneo. Un occhio che non può che restare sospeso, oscillante, muto. Perché l’esperienza che ci propongono queste due opere non è soltanto quella della visione, ma della responsabilità: vedere il Cristo morto, in entrambe le versioni, significa accettare il peso della sofferenza, della perdita, della finitezza. Significa, forse, riconoscere in quelle membra offerte anche la nostra fragilità. Il dolore di Cristo, sia che si mostri senza veli o che si nasconda sotto un sudario di pietra, diventa lo specchio del nostro stesso limite, della nostra stessa ricerca di senso. E ci invita, nel silenzio dell'opera, a una forma nuova di preghiera: quella che si fa sguardo, attesa, compassione.

Ciò che queste due immagini ci restituiscono – nella loro distanza, nel loro diverso modo di raccontare lo stesso istante – è una comune vocazione: quella di essere, entrambe, soglie. Varchi fra il visibile e l’invisibile. E, forse, fra la morte e la salvezza. Ma anche varchi tra epoche, tra culture, tra linguaggi. La forza del Cristo di Mantegna è la sua brutalità onesta; la potenza del Cristo velato è la sua dolcezza estatica. Due estremi che si toccano, due forme dell’arte che si fanno teologia muta, due testimonianze indelebili della capacità dell’uomo di dare forma all’ineffabile. E nel farlo, di creare immagini che non cessano di parlarci, di interrogarci, di scuoterci. O, semplicemente, di commuoverci. Perché in fondo, al centro di entrambe le opere, non vi è solo un corpo, ma una domanda: che cosa significa essere umani davanti al dolore, davanti alla bellezza, davanti al mistero della morte? Ed è in quella domanda, lasciata senza risposta, che l'arte trova la sua verità più profonda.



Ci si rende conto che Il Cristo morto di Mantegna e Il Cristo velato di Sanmartino non sono solo due capolavori dell’arte occidentale, ma due esperienze liminari, due soglie percettive oltre le quali l’umano e il divino smettono di essere categorie opposte e si fondono nel corpo martoriato, esposto, velato o denudato del Redentore. Guardare queste opere significa, in fondo, accettare che la bellezza più profonda nasce dalla ferita, e che la morte – nell’arte come nella vita – non è mai conclusione, ma trasformazione, passaggio, soglia.

Mantegna ci getta di fronte a un enigma visivo che non possiamo risolvere: un corpo che, nella sua fisicità cruda, nella sua frontalità impietosa, diventa domanda. Domanda su cosa rimanga del divino una volta che il corpo è spezzato, su cosa resti della fede quando la resurrezione non è ancora avvenuta. È un Cristo senza aura, senza luce, ma proprio per questo assolutamente presente: non come simbolo, ma come carne; non come Dio, ma come uomo. Uno scandalo, forse, ma anche una rivelazione: che la salvezza possa nascere proprio da quella nudità disarmata, da quella verità così umana da risultare insopportabile.

Sanmartino, al contrario, ci guida in una direzione opposta ma altrettanto abissale. Il suo Cristo non ci sfida, ci accoglie. Non ci turba, ci commuove. Eppure, non c’è in lui nulla di retorico: sotto la bellezza del velo scolpito, sotto la grazia delle linee, si nasconde un dolore che non ha bisogno di essere mostrato per essere sentito. È la potenza del non-detto, del non-visto, che ci raggiunge attraverso la perfezione formale. E in quella perfezione, paradossalmente, non c’è compiacimento, ma un atto d’amore. Sanmartino non vuole colpire lo spettatore: vuole consolarlo. Lo invita a sostare, a sentire, a contemplare.

Così, tra l’atrocità visibile di Mantegna e il sublime implicito di Sanmartino, si apre un dialogo che non ha bisogno di parole. Un dialogo fatto di silenzi, di sguardi, di pieghe e ferite. Un dialogo che ci riguarda perché in ognuno di noi si combatte la stessa tensione: tra il bisogno di vedere e la necessità di velare, tra il desiderio di conoscere e la paura del mistero, tra la carne che ci lega al mondo e lo spirito che ci chiama altrove.

E allora forse non si tratta di scegliere tra i due, né di confrontarli per stabilire un primato. Si tratta, piuttosto, di lasciarsi guidare da entrambi, di percorrere con loro il cammino che va dal corpo alla visione, dalla morte al senso, dalla materia allo spirito. In quel cammino, così arduo e così umano, l’arte ci accompagna come un viatico: un velo sottile tra noi e l’invisibile, tra la forma e il significato, tra ciò che siamo e ciò che potremmo essere.

In fondo, non è questo il compito più alto dell’arte sacra? Non spiegare il mistero, ma renderlo percepibile. Non definire la fede, ma incarnarla. Non imporre un dogma, ma offrire una rivelazione. E in quel gesto, in quella sospensione, il Cristo di Mantegna e quello di Sanmartino non sono altro che due volti dello stesso enigma: l’enigma del dolore che si fa bellezza, del corpo che si fa verbo, dell’arte che si fa preghiera. O, forse, miracolo. Ma un miracolo che accade solo quando siamo disposti a guardare davvero.



La ricezione critica del “Cristo morto” di Mantegna: un corpo che non smette di interrogare

L’immagine di Cristo che Andrea Mantegna offre nel suo celebre Cristo morto, oggi alla Pinacoteca di Brera, è una ferita aperta nella storia dell’arte occidentale. Non tanto e non solo per l’eccezionalità dello scorcio prospettico, che ancora oggi lascia esterrefatti studiosi e visitatori, ma per la radicale verità emotiva che questa tavola incarna. Non c’è, in tutta la pittura del Quattrocento italiano, una rappresentazione della morte tanto spoglia, diretta, priva di orpelli simbolici. Cristo è lì, steso, defunto, e la sua divinità sembra essersi ritirata, lasciando solo una carne muta, con i piedi piagati che sporgono verso lo spettatore. È un’opera che va ben oltre l’esercizio di virtuosismo anatomico.

Eppure, proprio questa nudità spirituale e compositiva ne determinò a lungo la marginalità critica. Nei primi secoli, la fortuna del dipinto fu discontinua. Se Vasari non gli riserva parole entusiastiche, è perché la sua cultura figurativa si fonda ancora sul primato dell’armonia classica, dell’ordine formale, del decoro. Mantegna, con questo Cristo che sembra uscito da una sala autoptica, non poteva trovare cittadinanza nel pantheon dell’arte “bella”. Solo nel tardo Settecento, con l’emergere di una sensibilità pre-romantica, la tela inizia a suscitare un'attenzione nuova. Goethe, pur non avendola vista dal vivo, ne annota l’esistenza nei suoi taccuini del viaggio in Italia, mentre alcuni antiquari milanesi ne fanno oggetto di culto sotterraneo, ammirandone l’“orrenda perfezione”.

Con l’Ottocento, e l’irruzione del romanticismo visivo, l’opera cambia statuto: da anomalia a profezia. Lo scorcio drammatico, la frontalità della morte, l’assenza di sublimazione — tutto ciò che aveva scandalizzato i classicisti, viene ora esaltato. Théophile Gautier, nel suo viaggio italiano, la definisce “un’immagine che non consola, ma costringe alla pietà assoluta”. Baudelaire, pur non citandola esplicitamente, sembra alluderle nei suoi Tableaux parisiens, dove il corpo del defunto si fa “pietra d’angoscia” per il passante moderno. Il Cristo morto diventa insomma una metafora della condizione umana: un Dio che muore, ma senza epifania, un corpo sacro ma assolutamente umano.

Nel Novecento, è il trauma collettivo delle due guerre mondiali a rilanciare la potenza icastica dell’opera. Quando il mondo scopre i corpi martoriati delle trincee e dei lager, il Cristo di Mantegna torna a parlare: non è più solo una figura religiosa, è un cadavere emblematico della fragilità dell’umano. Critici come Roberto Longhi e Lionello Venturi ne mettono in luce la capacità anticipatoria: un realismo non documentario ma empatico, che tocca la soglia del dolore. Lo stesso cinema vi attinge: Pasolini, come già detto, ma anche Tarkovskij, in Stalker, sembra evocare quell’immobilità incisa nel silenzio.

Con l’avvento della contemporaneità, il Cristo morto viene definitivamente elevato a “immagine critica”: artisti come Bill Viola, che lavora sul corpo e sulla spiritualità, lo citano nei loro video; la fotografia concettuale ne riprende le geometrie; le installazioni immersive — pensiamo ad Anish Kapoor — ne fanno eco visiva attraverso volumi orizzontali, sospesi tra vita e morte. È un Cristo che ha perduto la sua funzione liturgica per diventare simbolo di ogni trapasso: dell’individuo, della fede, dell’arte stessa. E così, anche il pubblico laico, post-cristiano, trova in questo corpo piagato una risonanza universale.



La ricezione critica del “Cristo velato” di Sanmartino: dal mito della perfezione alla soglia del sacro

Il Cristo velato, scolpito da Giuseppe Sanmartino nel 1753, ha invece conosciuto una traiettoria opposta, se vogliamo: da subito celebrato, da subito amato, da subito entrato nel mito. Ma con una ricezione che, nel tempo, ha oscillato tra l’ammirazione pura e la mitizzazione leggendaria, tra la visione artistica e quella quasi magica. E non è un caso. Perché quel velo scolpito — trasparente, aderente, increspato, morbido — sembra davvero impossibile. È la perfezione marmorea che si fa illusione sensibile, e proprio questa qualità, al confine tra arte e incanto, ha condizionato profondamente il modo in cui l’opera è stata letta, studiata, interpretata.

Nel Settecento, la fama del Cristo velato si diffuse come leggenda orale e visiva. I viaggiatori del Grand Tour, giunti a Napoli, lo consideravano una delle “sette meraviglie” della penisola. Il mito della sua creazione chimica — per trasformazione alchemica del tessuto in marmo — contribuì a farne non solo un capolavoro artistico, ma un oggetto sacro-magico, indecifrabile. La figura del principe Raimondo di Sangro, alchimista, massone, intellettuale borderline, funge da ponte tra razionalità illuminista e misticismo barocco: tutto ciò traspare dalla ricezione che il pubblico ne fece sin da subito.

Ma già nell’Ottocento si avverte una svolta. La cultura positivista tende a ridimensionare il mito, e gli studi accademici iniziano a riportare l’opera nel solco della grande scultura tardo-barocca napoletana. Ma ciò non toglie fascino all’opera: anzi, l’analisi tecnica (che conferma la lavorazione diretta del marmo) non fa che esaltare le doti di Sanmartino. Benedetto Croce, nei suoi scritti sull’arte napoletana, definisce il Cristo velato come “una commozione solidificata”, un ossimoro vivente tra forma e ineffabilità.

Nel Novecento, la ricezione diventa ancora più complessa. L’opera entra nei libri di storia dell’arte, ma anche nelle guide turistiche, nelle pubblicità, nei romanzi popolari. La sua immagine viene riprodotta ovunque: santini, fotografie, copertine. Diventa un’icona visiva popolare, ma non perde mai lo status di oggetto “inesplicabile”. Intellettuali come Pier Paolo Pasolini, ancora lui, ne colgono la potenza simbolica: in un appunto su Napoli, annota che “nessun corpo di Cristo è più erotico e casto insieme, più nudo e velato, più carnale e santo”.

Oggi, l’opera continua a esercitare una fascinazione trasversale. Il suo statuto è molteplice: è monumento barocco, capolavoro illusionistico, oggetto di culto laico, simbolo di Napoli. Le code davanti alla Cappella Sansevero sono più da evento contemporaneo che da visita museale. La sua immagine ha ispirato stilisti (Jean Paul Gaultier ha dichiarato di averne tratto un’intera collezione), designer, coreografi. Persino la musica elettronica vi si è accostata: un celebre visual dei Massive Attack ne reinterpreta il velo in versione digitale, sfaldandolo in pixel e luce.

Dal punto di vista critico, le letture recenti hanno evidenziato il potere metamorfico dell’opera. Non più solo “Cristo morto”, ma corpo sospeso: sospeso tra carne e spirito, tra vita e morte, tra visione e tatto. Il velo, più che coprire, rivela. E così la scultura diventa un paradigma del vedere contemporaneo: non si guarda per capire, ma per attraversare. La verità del corpo è nel suo restare intatto eppure misterioso.



Confronto iconografico: la frontalità del dolore contro la profondità del mistero

Dal punto di vista iconografico, le due opere rappresentano lo stesso soggetto — Cristo deposto, morto, esanime — ma lo fanno con due strategie visive radicalmente diverse. Mantegna pone il corpo frontalmente, su un letto di pietra, e lo mostra di scorcio, dalla pianta dei piedi fino al volto: uno scorcio prospettico che comprime lo spazio, costringe lo sguardo a percorrere il corpo come si percorre un trauma. Il volto è incassato nel cuscino, la bocca appena socchiusa, le mani ferite abbandonate ai fianchi. L’occhio dello spettatore è messo in una posizione violenta: guardare Cristo significa quasi prenderne il posto, o comunque essere costretto a riconoscersi in quel corpo che non ha più forza né destino.

Sanmartino, al contrario, opta per una visione classica, laterale, orizzontale. Il corpo del Cristo è disteso, simmetrico, visto di profilo leggermente rialzato, come se lo spettatore potesse camminargli attorno. Ma è il velo la vera chiave iconografica: trasparente, aderente, increspato, rende visibile il corpo rendendolo insieme irraggiungibile. L’occhio non entra nel corpo, scivola sulla sua superficie, resta sulla soglia. È una forma di contemplazione mediata, quasi ieratica. Dove Mantegna colpisce per crudezza visiva, Sanmartino seduce per illusione e grazia.

Le luci giocano un ruolo opposto: Mantegna usa una luce fredda, metallica, che non consola. Sanmartino lavora con la morbidezza del marmo e delle ombre, e la luce — spesso radente — ne accentua la leggerezza materica. In un certo senso, sono due corpi in attesa: uno del sepolcro, l’altro di un miracolo.

E ancora: Mantegna affida il pathos alla disarmonia prospettica e alla frontalità estrema, portando la carne morta in primo piano come in un affresco anatomico. Sanmartino, invece, costruisce un’immagine scenica fluida, levigata, priva di urgenza: il corpo non è trafitto dalla visione, ma avvolto. Il primo ha qualcosa dell’ospedale o della fossa comune, il secondo dell’altare o della tomba gentilizia.

In Mantegna, il punto di vista obbliga a un’identificazione violenta, quasi voyeuristica. In Sanmartino, l’immagine invita alla contemplazione lenta, rituale, silenziosa. L’icona si fa processo, esperienza estetica e spirituale. E ogni piega del velo diventa una parola taciuta, una litania segreta.



Confronto simbolico: la carne come fine vs. la carne come soglia

Il Cristo di Mantegna è un corpo morto e basta. Non c’è glorificazione, non c’è resurrezione implicita, non c’è trasfigurazione. È simbolo della perdita, dell’abbandono, dell’irrevocabile. La composizione è spoglia, la scena quasi clinica. Se ci sono i segni della Passione — le piaghe, le lacrime delle Marie — essi non conducono alla speranza, ma si fermano nel presente del dolore. Mantegna non ci dice che cosa succederà dopo. E questa sospensione temporale lo rende un’opera modernissima: la morte come tempo reale, non come anticamera dell’eternità. Il Cristo è pienamente umano, e la sua divinità si è ritratta, lasciandoci soli.

Nel Cristo velato, invece, tutto parla di un altro tempo. Il velo è il simbolo stesso della soglia: tra vita e morte, tra visibile e invisibile, tra corpo e spirito. Quel velo non è solo un esercizio di bravura tecnica; è un dispositivo simbolico. Copre e rivela, nasconde e rivela, protegge e tradisce. Cristo qui è già oltre la morte, ma non è scomparso. Il suo corpo è intatto, quasi dormiente. C’è una promessa di risveglio, di resurrezione, o almeno di trascendenza. Il simbolismo è quindi ascensionale: dalla materia alla luce, dalla carne alla grazia.

Mentre Mantegna parla della fine assoluta, Sanmartino evoca un passaggio. Il primo è anti-liturgico, il secondo quasi sacramentale. La carne in Mantegna è luogo del dolore; in Sanmartino è strumento della rivelazione.

E non solo. In Mantegna, il Cristo è esposto come un oggetto: il corpo è ormai estraneo alla vita, senza più affezione. In Sanmartino, il corpo mantiene un’aura. È un corpo sacro, preservato, e il velo ne è la custodia mistica. Il primo ci mette davanti al cadavere di Dio, il secondo davanti al mistero del Dio-uomo. È la differenza tra laicizzazione del dolore e sacralizzazione della perdita.

Infine, un dettaglio simbolico fondamentale: gli strumenti della Passione. In Mantegna, ci sono gli unguenti, i tessuti, le lacrime. È la fine del rito. In Sanmartino, i chiodi, la corona di spine, l’insegna INRI: è ancora pieno rito. Il dolore non si è sciolto: è sacralizzato.



Confronto teatrale: l’urlo silenzioso contro il rito silenzioso

Entrambe le opere sono, in fondo, profondamente teatrali — ma in due modi opposti. Il Cristo morto di Mantegna è teatro del dolore nella sua forma più nuda. È un dramma senza scena, senza didascalie, dove l’attore principale — il corpo stesso — recita con la sua inerzia. Lo spettatore è interpellato con violenza, come se fosse chiamato sul palco, come se la morte non fosse solo rappresentata, ma agita. Il piano d’appoggio si fa palcoscenico della perdita, e lo spazio pittorico è il luogo dell’immedesimazione estrema. Il quadro non ha sfondo: tutto si consuma in primo piano, come nei drammi shakespeariani più crudi.

Il Cristo velato, al contrario, è una scena sacra. Un altare. Il corpo non recita, ma giace come un’ostia sacra, posta su una mensa invisibile. La teatralità è qui rituale, non drammatica. Non ci sono movimenti né grida né gesti estremi. È il silenzio che domina. Lo spettatore è spettatore devoto, non attore suo malgrado. Si cammina attorno a quel corpo come in un rito misterico. E il velo stesso — che si solleva e si increspa — è il sipario che non si alza mai del tutto. Un teatro dell’attesa, della sospensione, del non detto.

Nel primo caso, il teatro è tragico. Nel secondo, liturgico. In Mantegna, è la morte che invade la scena. In Sanmartino, è la soglia della resurrezione a prendere posto.

Ma andiamo oltre: il corpo di Mantegna è un attore consumato, esausto, tragicamente esposto. Quello di Sanmartino è un personaggio sacrale, che tace ma dice. Il primo muore per tutti, il secondo aspetta di essere riconosciuto. Il primo è pubblico, il secondo è intimo. L’uno è Epifania della carne, l’altro Teofania del velo.

Due corpi, due palcoscenici, due silenzi. E lo spettatore resta lì, tra pietra e marmo, a cercare di vedere ciò che non si può più toccare.

Il corpo, nella sua forma più elementare e sacra, è al centro di alcune delle rappresentazioni più potenti della storia dell'arte. La morte, come evento universale e ineluttabile, ha da sempre suscitato nelle menti degli artisti la necessità di tradurre, attraverso il linguaggio dell’arte, la condizione dell’umano che si confronta con il suo destino. Il Cristo morto di Andrea Mantegna (1475-1478) e il Cristo velato di Giuseppe Sanmartino (1753) sono due fra le opere che meglio rispondono a questo bisogno, ma se il primo incarna la cruda realtà del corpo senza vita, il secondo apre la porta a una dimensione più misteriosa e spirituale, dove il velo che avvolge il Cristo diventa simbolo di un passaggio tra il visibile e l'invisibile, tra il finito e l'infinito.

Entrambe queste opere, pur distanti nel tempo e nello stile, sono legate da un profondo dialogo sul corpo e sulla sua transizione dalla vita alla morte, che costituisce uno degli snodi fondamentali del discorso artistico occidentale. Se Mantegna mostra un corpo agonizzante e rigido nella sua forma più naturale, Sanmartino offre invece una visione del corpo che non è solo fisico, ma spirituale, che invita alla meditazione e alla riflessione sulla fine della vita come un cammino verso la trascendenza.

Tuttavia, il corpo, nel suo doloroso destino di morte, ha continuato a essere il cuore pulsante di riflessioni artistiche anche nei secoli successivi. In particolare, la fine del Novecento e l’inizio del XXI secolo hanno visto emergere nuove modalità di rappresentare la morte, che non si limitano più alla sua visibilità corporea, ma si confrontano con la sua assenza, con l’impossibilità di catturare l’essenza di una realtà che resta sempre oltre la portata dell'arte. In questo senso, la morte diventa più che una figura fisica: diventa un concetto da esplorare, un abisso da sondare attraverso l’interrogazione della forma e della materia.

La contemporaneità ha così introdotto una nuova modalità di riflessione sulla morte, che non più limitata alla rappresentazione fisica del corpo, ma capace di porsi come interrogativo sull’assenza e sull’impronta che la morte lascia dietro di sé. Un’opera emblematica in questo contesto è Lo spirato di Luciano Fabro, la quale non si limita a presentare un corpo, ma ci obbliga a confrontarci con la sua assenza, con il vuoto che essa lascia nel nostro spazio visivo ed emotivo. Fabro non intende solo evocare il corpo di Cristo, ma la sua mancanza, l’assenza che pervade la scultura come un’ombra, lasciando intatto il mistero della morte.

La morte come corporeità: il Cristo morto di Mantegna

Nel Cristo morto di Mantegna, la morte non è un concetto astratto, ma una realtà fisica che il pittore esplora con una precisione anatomica quasi chirurgica. La posizione distesa di Cristo sul tavolo funebre, la rigidità del corpo che emerge attraverso un angolo di visione estremamente ravvicinato e il contrasto tra la luce e l’ombra che accentua la sensazione di morte imminente, non fanno che enfatizzare il dramma della sua condizione. Ogni muscolo, ogni venatura, ogni linea del corpo trasmette il senso di una sofferenza fisica che sembra essere giunta al termine.

Il realismo estremo che Mantegna adotta è in netta contrapposizione a una tradizione di rappresentazioni più idealizzate, dove la morte di Cristo veniva vista come un atto sacro di redenzione. In Mantegna, la morte non è nobile né gloriosa, ma è al contrario un’immagine di disperazione e di sfinimento fisico. L’artista cattura il momento in cui la carne si separa dallo spirito, e lo fa in modo che lo spettatore non possa distogliere lo sguardo dalla cruda realtà della morte. La morte, così intesa, non è solo un concetto religioso, ma una costante riflessione sulla fragilità e sul destino della carne umana.

Questo tipo di rappresentazione della morte, che non edulcora la sofferenza ma la rende visibile in tutta la sua brutalità, trova un parallelo nelle opere di artisti contemporanei, come Damien Hirst, che esplorano la morte come una realtà fisica e inevitabile, ma anche come una possibilità di esplorare il senso della vita stessa. Hirst, con la sua famosa opera The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living, attraverso l’uso di un grande squalo conservato in formaldeide, riesce a creare una riflessione sull’ineluttabilità della morte, proprio come Mantegna aveva fatto secoli prima, ma con mezzi e simbolismi radicalmente diversi.

La morte come mistero e trascendenza: il Cristo velato di Sanmartino

Nel Cristo velato di Sanmartino, invece, la morte non è presentata in tutta la sua materialità, ma viene suggerita attraverso il gioco della trasparenza e della luce. La scultura di Sanmartino è una delle più straordinarie realizzazioni della scultura barocca, poiché non solo rappresenta il corpo di Cristo, ma lo fa attraverso il velo che lo avvolge, donando un senso di sacralità e di mistero che sfida l’osservatore a contemplare qualcosa che è al contempo fisico e spirituale. Il marmo, trattato con una tale maestria, sembra quasi respirare, rendendo il corpo di Cristo velato e sospeso tra la vita e la morte, tra il visibile e l’invisibile.

L’effetto che Sanmartino ottiene, con la resa quasi iperrealista del velo e del corpo sotto di esso, è quello di trasmettere un senso di pietà che non è solo fisico, ma profondamente spirituale. La morte, qui, non è solo una fine, ma anche una trasformazione, una transizione verso qualcosa di oltre, che non può essere compreso o rappresentato appieno. Il velo non nasconde, ma rivela, ed è proprio questo gioco tra visibilità e invisibilità che rende l’opera di Sanmartino tanto potente e evocativa.

Oggi, l'opera è oggetto di continua riflessione, anche nel contesto delle pratiche artistiche contemporanee che cercano di esplorare il rapporto tra il visibile e l'invisibile, tra il corporeo e lo spirituale. La ricerca di un equilibrio tra il corpo e l'anima, tra il mondo tangibile e quello intangibile, è un tema che risuona fortemente nel panorama dell'arte contemporanea, dove il confine tra il materiale e l’immateriale è sempre più fluido e incerto.

La morte come assenza: Lo spirato di Luciano Fabro

Con l’opera Lo spirato, Luciano Fabro inaugura una nuova fase nel modo di pensare la morte, concentrandosi non tanto sulla morte come evento fisico, ma sulla sua assenza. Il concetto di "spirato" richiama la sofferenza e la condizione di morte, ma non si limita alla rappresentazione di un corpo caduto. In questa opera, l’assenza del corpo è quasi più presente della sua stessa presenza: un vuoto che suggerisce l’impossibilità di rendere visibile l’impronta che la morte lascia nel mondo.

Fabro non realizza un corpo, ma il segno del suo passaggio. Il vuoto lasciato dalla morte, che qui si presenta come uno spazio immanente, è il vero protagonista dell’opera. La riflessione sulla morte, dunque, non si limita a un gesto di commemorazione del defunto, ma diventa un interrogativo che coinvolge l’osservatore nella sua stessa percezione del corpo e del suo destino. L’assenza del corpo in Lo spirato non è un’assenza definitiva, ma un invito a riflettere sull’indefinibilità del passaggio dal corpo alla sua mancanza. In questo modo, Fabro rinnova la tradizione artistica, sfidando le rappresentazioni fisiche e cercando una via che trascenda la forma, mentre nello stesso tempo non nega la sua presenza.

Lo spirato di Luciano Fabro, la scultura che esprime una riflessione profonda sulla morte, non si limita a un’interpretazione formale del corpo defunto, ma si addentra in un territorio più ambiguo, che lega la rappresentazione del corpo umano alla sua totale assenza. Fabro non utilizza la scultura per riprodurre la morte in modo realista, come avveniva nella tradizione classica, ma per evocarla attraverso una serie di sottrazioni e trasformazioni che sfidano le convenzioni artistiche e filosofiche tradizionali.

La potenza della sottrazione

In Lo spirato, Fabro non costruisce un corpo fisico, ma lo "de-costruisce" in un gioco di sottrazioni, un processo che va oltre la semplice rimozione della materia. La scultura non presenta la figura di un corpo definito, ma lascia che il materiale stesso, il legno, suggerisca la sua presenza attraverso una serie di vuoti e lacune. In questo approccio, Fabro non cerca di dare una rappresentazione compiuta, ma piuttosto di suggerire la presenza del corpo attraverso la sua assenza. L’arte, in questo caso, non è più una via per fare emergere una forma dal blocco di materia, ma per ridurre la materia stessa a un segno che parli di ciò che non è più.

La scelta della sottrazione implica un’intensa riflessione sul tema del vuoto, simbolo di un corpo che non c’è più, ma che, attraverso il residuo che lascia, afferma la propria esistenza in una nuova dimensione. La sottrazione è, dunque, il mezzo attraverso il quale Fabro affronta la finitezza e l’impossibilità di catturare la morte. La scultura non ha mai una forma compiuta, ma resta un insieme di tracce, segni e spazi vuoti che rimandano a qualcosa che è stato, ma che ora non c’è più.

Il marmo: Un materiale che  diventa organico e significativo

Il marmo, utilizzato da Fabro in Lo spirato, ha una valenza simbolica che va oltre la semplice scelta di un materiale per la scultura. Il marmo è un materiale che, pur essendo organico e vitale nella sua origine, porta con sé un senso di deterioramento e di caducità. In questa scultura, il marmo non è solo un supporto fisico, ma diventa un simbolo della transitorietà della vita. Il marmo si degrada, si trasforma, e, attraverso questo processo di cambiamento, evoca la natura effimera dell’esistenza umana. In Lo spirato, il marmo appare come un corpo che si sta lentamente disintegrando, un materiale che non è mai statico, ma che cambia continuamente sotto l’influenza del tempo, diventando una metafora visiva della morte stessa.

La superficie trattata con cura, che lascia emergere una texture raffinata e perfezione di lavorazione, porta con sé un effetto emotivo che va oltre la semplice materia. La luce che riflette sul marmo, che cambia continuamente a seconda del punto di vista dello spettatore, rende l’opera dinamica, come se fosse in continuo movimento, proprio come la memoria della morte. Questa interazione tra luce e marmo suggerisce una riflessione sul processo di corruzione e trasformazione che accompagna la morte, creando un’opera che non è mai statica, ma che muta continuamente, rispecchiando il continuo flusso di pensieri e emozioni che la morte suscita.

La forma assente: morte e memoria

L’aspetto più potente di Lo spirato è la sua capacità di non rappresentare mai il corpo in maniera esplicita. Invece di mostrare un corpo disteso, come nella tradizione artistica, Fabro sceglie di rappresentare solo la memoria del corpo, la sua assenza. Non c’è una forma definita, non c’è una figura che si possa riconoscere come quella di Cristo o di qualsiasi altra persona defunta. Ciò che resta è solo il segno di una presenza passata, che si percepisce nel vuoto che il corpo ha lasciato.

Questa scelta pone l’accento sul concetto di “mancanza” come centro dell’opera. Il corpo non è solo assente, ma la sua assenza è la forma che Fabro decide di mostrare. L’assenza diventa, quindi, la forma primaria, un vuoto che riempie l’opera di un significato potente. La scultura non è un oggetto fisico da osservare, ma un invito a riflettere sulla memoria, sulla transitorietà della vita e sulla difficoltà di rappresentare l’impossibile: la morte in sé, la fine definitiva di una forma. La morte non è una fine che può essere facilmente definita o rappresentata, ma un passaggio che lascia tracce, come quelle che Fabro cattura nell’atto di sottrarre materia.

Luce, ombra e trasformazione

Uno degli aspetti più affascinanti di Lo spirato è il gioco tra luce e ombra. La luce che colpisce il marmo non è uniforme, ma cambia a seconda della posizione dello spettatore, creando così un’illusione di movimento. Questo non è solo un effetto visivo, ma una riflessione sulla natura effimera e mutabile della morte. La morte, infatti, non è un concetto fisso, ma è qualcosa che cambia a seconda del punto di vista, qualcosa che, pur essendo definitiva, continua a muoversi nella mente di chi la osserva. In questo modo, la scultura di Fabro diventa un simbolo della mutevolezza dell’esperienza umana di fronte alla morte.

Le ombre che si creano non sono mai statiche, ma cambiano a seconda della luce, enfatizzando l’impossibilità di una visione totale e definitiva della morte. Ogni angolo da cui si guarda l’opera offre una diversa interpretazione, un’ulteriore riflessione sulla condizione umana, che è fatta di continue trasformazioni, cambiamenti e passaggi. La luce che si riflette sulla superficie della scultura non fa altro che accentuare il tema della transitorietà e della fugacità della vita.

La morte come tema universale

Lo spirato non è un’opera che si limita a rappresentare la morte in modo privato, come un evento isolato o personale, ma la eleva a simbolo universale. La morte, in Fabro, è una condizione che riguarda ogni essere umano, che si manifesta non solo come la fine di una vita, ma come la memoria e la traccia che ogni vita lascia nel mondo. L’opera diventa quindi un invito a riflettere non solo sul concetto di morte, ma anche sulla nostra condizione umana e sulla nostra capacità di confrontarci con essa.

Fabro non cerca di consolarsi o di trovare una risposta definitiva alla morte, ma piuttosto di mostrarla per quello che è: un vuoto, un’assenza che non può essere mai pienamente compresa. La sua scultura, attraverso la sottrazione e l’utilizzo di un materiale naturale e simbolico come il marmo, non è tanto un ritratto della morte, quanto una riflessione sulla memoria che essa lascia. L’assenza è, in questo caso, la forma principale attraverso cui Fabro ci invita a riflettere sulla nostra esistenza, sulla sua impermanenza e sull’impossibilità di catturare completamente la realtà della morte.

Arte come memoria e riflesso

Lo spirato di Luciano Fabro è un’opera che sfida ogni tentativo di rappresentare fisicamente la morte. La morte in Fabro non è una forma, ma un’assenza che viene evocata attraverso il vuoto e la sottrazione. Il marmo, come materiale organico e trasformabile, diventa la metafora di un corpo che non esiste più, ma che è presente come memoria, come traccia. La scultura non è mai una visione completa, ma una riflessione continua su ciò che è stato e che non c’è più. In questo modo, l’opera di Fabro non è solo un atto di arte, ma un atto di pensiero, una meditazione sulla morte, sulla memoria e sulla natura impermanente della nostra esistenza.

L’arte contemporanea si confronta con la morte non solo come un fatto fisico, ma come un concetto complesso, sfuggente, che non può essere catturato nella sua totalità, ma solo suggerito attraverso la riflessione sull'assenza, sul vuoto, sull’impronta lasciata nel mondo. Così, attraverso questo dialogo immaginario tra Mantegna, Sanmartino e Fabro, la morte continua a essere una delle tematiche centrali della pratica artistica, capace di rinnovarsi e di rispondere alle domande dell’uomo di ogni epoca.