martedì 22 aprile 2025

L’autoritratto “à la Marat” di Edvard Munch (1908-1909)

L’Autoritratto “à la Marat” di Edvard Munch, realizzato tra il 1908 e il 1909, si configura come una delle opere più intime, tormentate e al tempo stesso rivoluzionarie della produzione dell’artista norvegese. Cruciale non soltanto per il suo chiaro e audace riferimento storico-artistico — ovvero la citazione esplicita de La morte di Marat di Jacques-Louis David — ma anche perché segna, in modo visivo e simbolico, una fase di profonda crisi personale, un attraversamento dell’abisso, un momento di sospensione e transizione nella traiettoria umana e creativa di Munch. Quest’immagine, più che una semplice fotografia, è un documento esistenziale, una soglia oltre la quale l’artista sembra mettersi completamente a nudo, non solo fisicamente, ma anche spiritualmente e psicologicamente.

L’opera è stata concepita nel periodo in cui Munch era ricoverato presso la clinica del Dr. Daniel Jacobson a Copenaghen, un istituto specializzato per il trattamento di disturbi mentali e nervosi. L’artista si trovava in uno stato di estrema vulnerabilità: dopo anni di tormenti interiori, segnati da alcolismo cronico, crisi depressive, ossessioni paranoiche e un crescente senso di alienazione, Munch aveva toccato un punto di rottura. Il ricovero, avvenuto in seguito a un violento esaurimento nervoso, non fu soltanto un tentativo medico di contenere i sintomi, ma divenne per lui un’esperienza totalizzante di resa e di rinascita. L’ambiente asettico della clinica, i giorni scanditi da rituali terapeutici, il silenzio, la lontananza dalla vita mondana e artistica: tutto ciò gli offrì uno spazio di raccoglimento e di autointerrogazione che si traduce in questa immagine densa di significati.

Il riferimento al celebre quadro di David non è semplicemente citazionistico, ma profondamente sovversivo. Là dove La morte di Marat glorifica il corpo dell’eroe rivoluzionario come martire di un ideale politico, Munch smonta ogni retorica eroica. Il suo corpo non è glorificato, bensì abbandonato, disfatto, assolutamente umano. Mentre David pone Marat in una posa che richiama la Pietà cristiana, circondato da dettagli che ne mitizzano la morte, Munch svuota la scena di ogni ornamento. Il suo corpo nudo e pallido, steso su un letto o una superficie che richiama vagamente la vasca, è immerso in un ambiente spoglio, inospitale, dove la freddezza cromatica e la nudità dell’inquadratura creano un senso di desolazione più che di compassione. Il risultato è una rappresentazione che più che esprimere eroismo, evoca annientamento, perdita, dissoluzione dell’identità.

Il fatto che Munch abbia scelto la fotografia come mezzo per quest’opera è di per sé significativo. In un momento in cui l’artista è al culmine della crisi, la pittura — sua tradizionale forma d’espressione — sembra non bastare più. La fotografia, con la sua immediatezza, la sua crudeltà documentaria, diventa il mezzo più efficace per registrare senza filtri la propria condizione. Ma anche questa fotografia, lungi dall’essere solo un documento, è costruita con una precisa intenzione estetica. Il corpo di Munch, collocato in primo piano e in una posizione obliqua, occupa lo spazio con un’asimmetria che disturba e disorienta. Il volto, parzialmente reclinato, ha qualcosa di remissivo, mentre il braccio disteso evoca un gesto di resa totale. L’immagine nel suo complesso è dominata da un senso di sospensione: sembra trattenere il respiro in un momento che è né vita né morte, né follia né lucidità.

La clinica, in questa rappresentazione, assume quasi i contorni di un luogo mitologico, una sorta di Ade interiore dove Munch affronta i propri fantasmi, le proprie paure più profonde. Non è solo un luogo di cura, ma uno spazio liminale, al confine tra ciò che era e ciò che sarà. E il bagno — elemento che ritorna spesso nella sua iconografia — diventa qui più che mai simbolico: non è solo il richiamo alla scena del delitto di Marat, ma anche metafora della purificazione, della possibilità di una rinascita attraverso il dolore. Acqua e nudità si fondono in una dimensione rituale, in un’esperienza che ha qualcosa di sacrale nella sua crudezza.

In questa immagine, Munch sembra voler dire addio non solo alla propria giovinezza e alla stagione della sregolatezza creativa, ma anche a una concezione dell’arte come puro gesto espressivo. Dopo il ricovero, infatti, la sua produzione muterà radicalmente. I colori si faranno più accesi, le forme più solide, le composizioni più serene. Si potrebbe dire che la clinica non solo gli ha restituito la sanità mentale, ma gli ha permesso di ripensare radicalmente il proprio linguaggio artistico. L’Autoritratto “à la Marat” diventa così un testamento visivo di un’identità che sta per morire, per lasciare spazio a una nuova stagione.

Questo momento di crisi, dunque, lungi dall’essere una parentesi patologica, rappresenta una vera e propria soglia iniziatica. È il punto in cui Munch, lacerato tra visioni interiori e realtà medica, tra delirio e consapevolezza, compie un gesto estremo: offrirsi allo sguardo dell’altro in tutta la propria fragilità. E proprio in questa fragilità, in questa assenza di difese, si cela una delle più alte forme di verità artistica. L’immagine non consola, non sublima, ma rivela. E in questo atto di rivelazione, che è anche un gesto di abbandono, Munch firma forse il più radicale dei suoi autoritratti.

Nel raffronto con altri autoritratti fotografici – siano essi prodotti da artisti coevi, come August Strindberg o Egon Schiele, o da autori posteriori come Claude Cahun, Francesca Woodman o Cindy Sherman – emergono interessanti linee di continuità e divergenza. L’autorappresentazione fotografica, specie nella modernità, si fa spesso gesto di radicale esposizione, ma anche di mascheramento. In Munch, al contrario di quanto accade in Sherman, che costruisce identità attraverso travestimenti e ruoli, il corpo nudo, disadorno e vulnerabile è tutto ciò che resta. Non c’è ironia, non c’è messa in scena: c’è un uomo, solo, in una stanza clinica, disteso in una posa che evoca direttamente la morte, il martirio, la fine.

La tensione tra l’autorappresentazione come documento e l’autorappresentazione come finzione è uno dei nodi centrali dell’arte novecentesca. In questo senso, l’“Autoritratto à la Marat” può essere letto come una precoce quanto potente prefigurazione di quella linea dell’arte fotografica che esplorerà l’identità attraverso la soglia del trauma. Pensiamo a Francesca Woodman, la cui opera, pur distante nel tempo, condivide con Munch il senso dell’invisibilità, della dissoluzione corporea, dell’identità come materia fragile. Ma mentre Woodman si riflette nell’ambiente, spesso mimetizzandosi con esso, Munch occupa brutalmente lo spazio, lo abita come corpo-fantasma, figura scolorita ma centrale, come un’ombra che reclama attenzione.

Il confronto può estendersi anche a Claude Cahun, artista francese che nei suoi autoritratti degli anni Venti e Trenta esplora la molteplicità del sé, il genere, la teatralità del corpo. Anche qui l’intento è di disarticolare l’identità, ma in Munch tutto è condotto verso un’estrema semplificazione: non c’è travestimento, non c’è doppio, c’è solo il corpo, stanco, abbandonato, disteso su un letto o forse su una lastra di marmo. Il riferimento alla “Morte di Marat” di David, seppur evidente nella postura e nella composizione, viene rovesciato nel suo significato: non più martirio glorioso, ma annientamento personale, non più eroismo pubblico, ma dolore privato. E se David aveva voluto offrire una visione sacrale della morte rivoluzionaria, Munch ci consegna una morte simbolica, intima, quasi clinica, priva di pathos ma ricca di silenziosa disperazione.

Anche nella fotografia ottocentesca troviamo esempi di autorappresentazioni drammatiche, come quelle del già citato Strindberg, che nei suoi esperimenti fotografici imprime il proprio volto deformato, spettrale, spesso in dialogo con visioni cosmiche o paranoiche. Munch non cerca la deformazione espressiva attraverso il mezzo tecnico, ma la ottiene attraverso la posa, la luce, il rapporto con lo spazio. Il corpo è reale, e proprio per questo disturbante. L’artista si pone come paziente osservato, ma anche come soggetto che osserva sé stesso da fuori: un doppio sguardo, clinico e poetico, lucido e disperato.

Rispetto ad altri autoritratti fotografici più celebrativi o mitizzanti – come quelli di Man Ray o di Duchamp travestito da Rrose Sélavy – quello di Munch non offre alcuna costruzione del sé come figura iconica o concettuale. È, piuttosto, una testimonianza cruda, forse una confessione. Eppure, proprio in questa nudità assoluta, in questa rinuncia a ogni estetizzazione, l’immagine assume un potere straniante e profondamente moderno. È un’opera che sembra dire: “Questo è ciò che resta. Questo è il fondo”.

Nel panorama degli autoritratti del Novecento, pochi hanno osato tanto nel sottrarsi all’immagine ideale dell’artista. Munch lo fa in modo radicale, consegnandoci un’immagine che è insieme documento di malattia, autoritratto psichico e gesto performativo. Come se la macchina fotografica fosse diventata, per un attimo, un bisturi: non per abbellire, ma per incidere. Il risultato è un’opera che ancora oggi ci costringe a guardare senza filtri, a interrogarci sulla verità del volto, del corpo, della coscienza in crisi.