martedì 22 aprile 2025

“Girolimoni, il mostro di Roma” (1972): il cinema di denuncia e il potere della menzogna

Ci sono storie che fanno male, non solo perché raccontano un’ingiustizia, ma perché ci mettono davanti a un meccanismo che si ripete all’infinito. Una di queste è la vicenda di Gino Girolimoni, un uomo qualunque che il regime fascista trasforma nel mostro perfetto per coprire le proprie inefficienze.

Se il suo nome ancora oggi suona sinistro, se viene ricordato più per l’infamia che per l’ingiustizia subita, è perché il peso della calunnia è spesso più forte della verità. Ma nel 1972, Damiano Damiani, regista noto per il suo impegno civile e per la sua capacità di scavare nel lato oscuro del potere, decide di riaprire quel caso dimenticato e di trasformarlo in un film.

Ne viene fuori una delle opere più potenti del cinema italiano di denuncia, un film che non è solo il racconto di una tragedia personale, ma un atto d’accusa feroce contro la giustizia manipolata, contro il potere che schiaccia i deboli, contro il sensazionalismo della stampa e contro la tendenza, sempre attuale, di trovare un colpevole a ogni costo, anche quando è l’uomo sbagliato.

A dare volto e anima a questa storia c’è Nino Manfredi, che in quegli anni si sta affermando non solo come attore comico, ma come interprete capace di restituire con grande sensibilità il dramma dell’uomo comune. Il suo Girolimoni è un uomo che non alza mai la voce, che cerca di resistere all’ondata di follia che lo travolge, che si aggrappa alla razionalità finché può, salvo poi rendersi conto che contro certi meccanismi la logica non serve, la verità non serve, la giustizia è solo un’illusione.

Roma, anni ‘20: il mostro e la propaganda

Per capire il film bisogna immergersi nel contesto in cui si svolge la vicenda.

Siamo nella Roma degli anni ’20, una città che sta cambiando volto sotto il regime fascista. Mussolini, appena salito al potere, ha bisogno di consolidare il suo controllo e di dimostrare che il nuovo governo è capace di garantire ordine e sicurezza. In un Paese in cui la violenza politica è all’ordine del giorno e le libertà personali vengono progressivamente smantellate, il consenso si costruisce anche attraverso la paura e la propaganda.

Ed è proprio in questo clima che scoppia uno dei casi di cronaca più terribili della storia italiana.

In città, una dopo l’altra, alcune bambine vengono trovate uccise, vittime di abusi e violenze. La ferocia dei delitti è tale da generare il panico. La stampa, già sotto il controllo del regime, alimenta l’isteria collettiva parlando di un assassino spietato che si aggira per le strade di Roma, un orco che rapisce le piccole vittime per poi ucciderle senza pietà.

Il popolo ha paura. Il regime ha paura. Non perché gli stia particolarmente a cuore la sorte delle bambine, ma perché il dilagare della paura è un problema per un governo che si è presentato come garante dell’ordine assoluto.

C’è bisogno di un colpevole. E lo si deve trovare in fretta.

Le indagini però non portano a nulla. Non ci sono prove, non ci sono testimoni affidabili, non ci sono sospetti solidi.

Fino a quando la polizia non punta il dito contro un uomo qualsiasi.

Gino Girolimoni: il colpevole perfetto

Gino Girolimoni è un fotografo, un uomo tranquillo, senza particolari ambizioni, senza nemici, senza un passato torbido. Non è un santo, certo, ma non è neanche un mostro. È solo un uomo normale, uno come tanti.

Ed è proprio questo il problema.

Il regime non può permettersi di accusare qualcuno di potente, qualcuno di scomodo, qualcuno che potrebbe reagire. Così, come spesso accade nelle ingiustizie più grandi, si sceglie la vittima più facile.

Girolimoni non ha una posizione politica, non ha alleati potenti, non ha una rete sociale che possa difenderlo. Non è neanche particolarmente benvoluto, il che rende tutto ancora più semplice. È un uomo solo, e questo basta.

Bastano pochi indizi, pochi dettagli vaghi, e il meccanismo della gogna si mette in moto.

La stampa lo trasforma nel “mostro di Roma”.

I giornali pubblicano il suo nome a caratteri cubitali, lo descrivono come un maniaco, diffondono ritratti inquietanti, alimentano una narrazione che lo condanna ancor prima di entrare in un’aula di tribunale.

La gente inizia a ripetere il suo nome con disprezzo. Lo indicano per strada. Lo odiano senza sapere nulla di lui.

A quel punto il processo è solo una formalità. Non importa più se le prove contro di lui siano inconsistenti, non importa più se l’accusa sia traballante. Girolimoni è colpevole per definizione.

Ma c’è un dettaglio che il regime preferisce non rendere pubblico: in realtà, le indagini hanno portato a un altro sospettato, un pastore anglicano britannico. Un uomo con precedenti, un uomo che avrebbe potuto davvero essere il mostro che stavano cercando.

Peccato che accusare un cittadino inglese avrebbe creato un incidente diplomatico con il Regno Unito. E il regime, sempre attento all’immagine internazionale, non può permetterselo.

Così, Girolimoni rimane l’unico mostro possibile.

Fino a quando, senza troppe spiegazioni, viene rilasciato. Non perché qualcuno abbia avuto un improvviso rimorso di coscienza, ma perché la verità è troppo evidente per essere ignorata.

Ma la libertà, a quel punto, è solo un dettaglio. Per la gente, Girolimoni è e resta un mostro. E lo sarà fino alla fine dei suoi giorni.

Morirà dimenticato, portando con sé il peso di un’accusa ingiusta.

Il film di Damiani: una lezione ancora attuale

Ciò che rende grande il film di Damiani è che non cerca la facile commozione, non trasforma Girolimoni in un martire, non insiste sul pathos. Al contrario, mostra la banalità dell’ingiustizia, la sua crudeltà silenziosa, il modo in cui un uomo viene lentamente stritolato senza che nessuno si fermi a chiedersi se sia davvero colpevole.

Nino Manfredi è straordinario nel dare a Girolimoni un volto umano, stanco, segnato da un dolore che non può essere espresso a parole. Non è un eroe, non è un ribelle. È solo un uomo che cerca disperatamente di dimostrare la propria innocenza in un mondo che ha già deciso di condannarlo.

Ed è proprio questo che rende il film ancora oggi così potente.

Viviamo in un’epoca in cui le sentenze si scrivono sui social, in cui un nome sbagliato può distruggere una vita, in cui la verità conta meno della narrazione.

"Girolimoni, il mostro di Roma" non è solo un film su un’ingiustizia di un secolo fa. È un monito. Un avvertimento. Un promemoria di quanto sia facile trasformare un uomo innocente in un mostro e di quanto sia impossibile, una volta condannato, restituirgli la dignità perduta.