C’è qualcosa di profondamente poetico, e allo stesso tempo disturbante, nell’atto di coprire un volto. È un gesto arcaico, quasi rituale, che attraversa le culture e le epoche: ci si maschera per gioco, per protezione, per paura, per bisogno di diventare altro. Eppure, nel Novecento, con l’avvento del culto dell’immagine, della psicanalisi, della società dello spettacolo, quel gesto assume un sapore ancora più ambiguo. È in questo clima che, senza proclami né manifesti, nasce uno dei sodalizi artistici più enigmatici del secolo: quello tra Saul Steinberg, artista, illustratore e intellettuale raffinato, e Inge Morath, fotografa dallo sguardo discreto eppure implacabile. La loro collaborazione prende forma in un’opera tanto semplice nella sua esecuzione quanto abissale nella sua potenza evocativa: la Mask Series.
Il progetto, che nasce da un’intuizione condivisa e si sviluppa con la leggerezza di un gioco infantile e la lucidità di un esperimento concettuale, ha inizio in un contesto apparentemente domestico: l’atelier di Steinberg, la casa, il giardino, i corridoi. Ambienti privati che diventano scena di un teatro muto. Steinberg, con pochi tratti di penna, trasforma cartoni da imballaggio e sacchetti del pane in maschere: volti geometrici, smorfie stilizzate, personaggi irreali eppure sinistramente familiari. Inge Morath li fotografa non come se fossero soggetti da ritrarre, ma come se li incontrasse per caso — li sorprende, li lascia emergere. Le sue inquadrature sono essenziali, spesso frontali, prive di effetti. Eppure proprio in questa semplicità risiede la forza magnetica della serie: nulla distrae dalla scena primaria del volto negato e reinventato.
Il cortocircuito che si genera è affascinante. Le fotografie mettono in crisi la distinzione tra realtà e finzione, tra documentazione e performance, tra identità e rappresentazione. Ogni figura mascherata sembra oscillare tra la presenza e l’assenza, tra l’umano e il burattino. E mentre la maschera diventa volto, il volto reale scompare — non è censura, ma sublimazione. Il corpo, vestito in abiti quotidiani, radicato in ambienti domestici o urbani, continua a testimoniare una realtà concreta, ma la testa, sostituita da un’astrazione disegnata, spalanca un altrove. È come se il corpo dicesse "eccomi", mentre la maschera rispondesse "non sono io".
Il risultato è una vertigine. Non si sa più chi si sta guardando, né cosa. Ogni immagine è una soglia. La fotografia, che per convenzione associamo alla verità e alla memoria, qui diventa specchio opaco, strumento di straniamento. Non si fotografa per ricordare, ma per dimenticare ciò che è noto e aprirsi a ciò che è perturbante. Steinberg non costruisce maschere mimetiche, ma totem. Ogni volto-cartone sembra appartenere a un archetipo: il borghese, il politico, l’intellettuale, il clown, il passante, l’alienato. Eppure nessuno di essi è riducibile a una caricatura: sono volti pieni di umanità disfunzionale, fragili, teneri, a volte ridicoli, mai disumani.
Il fatto che Morath non cerchi di estetizzare queste figure, ma al contrario le accosti con uno sguardo quasi documentaristico, rafforza la sensazione che qualcosa di vero — forse più vero del reale — si stia rivelando. In ogni scatto c’è un silenzio che urla, una pausa che interroga. Le figure mascherate si stagliano contro il fondo della realtà, ma sembrano provenire da un sogno, da un altrove in cui tutto è simbolo, e niente è definitivo. La Mask Series diventa allora una sorta di manuale per sopravvivere al paradosso dell’identità contemporanea: essere sé stessi attraverso la finzione, dire la verità attraverso il disegno, apparire per poter esistere.
E non è un caso che tutto ciò accada in America, negli anni del boom economico, del conformismo, delle riviste patinate e delle pubblicità rassicuranti. Steinberg, nato in Romania, fuggito dal fascismo, approdato negli Stati Uniti con lo sguardo inquieto di chi ha già visto troppo, interpreta quella società con una lucidità impietosa. Le sue maschere sono il suo modo di dire: “Attenti, dietro ogni sorriso c’è un meccanismo”. Morath, austriaca, ex traduttrice, testimone della guerra e dei suoi orrori, sa bene quanto la realtà possa mentire. La sua fotografia non si limita a registrare: scava. Scava nel gesto, nella posa, nella materia, fino a rendere visibile ciò che normalmente viene rimosso: il fatto che ogni volto, anche il più sincero, è già un travestimento.
E così la Mask Series si rivela un’opera filosofica. Non illustra una tesi, ma ne suscita cento. Chi siamo, se il volto che mostriamo è sempre anche una costruzione? Dove finisce la persona e comincia il personaggio? È la maschera a mentire, o è la nostra pretesa di essere autentici a essere una bugia più profonda? Steinberg e Morath non offrono risposte, ma pongono le domande con una leggerezza che solo i grandi artisti riescono a maneggiare. Non c’è pathos, non c’è denuncia. C’è un sorriso obliquo, una piccola risata trattenuta, il gusto infantile del travestimento, e insieme la malinconia adulta di sapere che dietro ogni gioco si nasconde una ferita.
E se si volesse cercare una chiave emotiva, una parola che possa raccogliere il senso più intimo di questa opera, forse sarebbe tenerezza. Una tenerezza inquieta, sottile, fragile. Perché ogni maschera, per quanto ridicola o grottesca, sembra proteggere qualcosa di troppo delicato per essere mostrato. Ogni volto di cartone è uno schermo, sì — ma anche un rifugio. E in questo rifugio si cela la possibilità di un’altra verità: non quella della trasparenza, ma quella del pudore. Una verità che non urla, non si impone, ma si lascia intuire, come un sussurro dietro un sipario abbassato.
Ciò che la Mask Series ci chiede non è di scegliere tra il vero e il falso, tra il volto e la maschera. Ci chiede di abitare quella soglia. Di riconoscere che l’identità non è mai una superficie liscia, ma un palinsesto, un’eco, un disegno sopra un altro disegno. E che forse, per comprenderci davvero, dobbiamo accettare il paradosso: non smascherarci, ma scegliere consapevolmente quale maschera indossare — e farne, se possibile, un atto di poesia.