sabato 26 aprile 2025

Il corpo nell'arte contemporanea in trasformazione

La retorica di Jago: tra pathos e strategia del consenso

L’arte di Jago si colloca in un territorio delicato, interstiziale, dove l’estetica classica incontra il bisogno emotivo contemporaneo. La sua retorica visiva è fortemente ancorata a un’idea sacrale e archetipica della figura umana: non a caso, i soggetti ricorrenti sono il corpo nudo, il dolore, la maternità, l’infanzia esposta, la solitudine. Tuttavia, pur affondando le radici nella grande tradizione scultorea occidentale – da Michelangelo a Bernini – Jago ripulisce, epura, distilla le sue forme da ogni eccesso barocco, portando l’immagine del corpo sofferente a un grado estremo di intelligibilità immediata.

Qui emerge la prima forma di retorica: quella dell’universalità emotiva. Il dolore non è personale, non è politico, non è specifico: è dolore umano, depurato da contesto, reso assoluto. E in questa assolutezza, facilmente riconoscibile, ci si specchia il pubblico globale, desideroso di esperienze estetiche intense ma non disturbanti. L’arte di Jago commuove, sì, ma non urta. Fa piangere, ma non costringe a ripensare il proprio sistema di valori. È un’arte che rassicura, anche quando mostra lo strazio.

La seconda forma di retorica è quella dell’accessibilità: Jago si propone esplicitamente come artista “del popolo”, contrario all’ermetismo dell’arte concettuale e alla chiusura autoreferenziale delle élite culturali. È una posizione che, se da un lato merita attenzione per il suo intento democratico, dall’altro apre a una questione più sottile: è davvero democratica un’arte che non chiede di pensare, ma solo di sentire? Che si offre come esperienza immediata, già interpretata, già emozionante?

Non si tratta, naturalmente, di disconoscere la forza tecnica o la bellezza oggettiva delle sue opere – qualità indiscutibili. Si tratta, piuttosto, di chiedersi a quale idea di arte ci stiamo abituando, e quale idea di società essa riflette.


Fenomenologia dell’artista-mediatico: il corpo dell’artista come opera

Per comprendere pienamente il “caso Jago”, è necessario andare oltre l’analisi delle singole opere e avvicinarsi a una vera e propria fenomenologia dell’artista-mediatico. Jago non è solo un autore di sculture. È anche, e forse soprattutto, un regista della propria presenza, un performer della sua arte, un costruttore di narrativa biografica. Ogni suo gesto – dalla lavorazione del marmo alla scelta di restaurare una chiesa abbandonata – è parte di un dispositivo narrativo totalizzante, in cui l’artista è insieme autore, soggetto e medium.

In questo senso, Jago incarna un modello inedito di artista postmoderno: non più l’intellettuale che interpella il mondo, ma il creatore che si lascia guardare mentre crea. La sua “bottega in diretta streaming” non è solo un modo per rendere visibile il processo artistico: è un modo per restituire sacralità al gesto manuale, per incarnare – letteralmente – l’idea romantica dell’artista solitario, umile, devoto alla materia.

Ma questa sacralità è anche costruita, amplificata, teatralizzata. Ogni inquadratura, ogni fotografia delle sue mani sporche, ogni lacrima versata di fronte alla propria opera compiuta, è parte di una liturgia visiva contemporanea, dove l’aura – quella che Benjamin aveva diagnosticato come estinta nell’epoca della riproducibilità tecnica – viene riscoperta e ricostruita, questa volta attraverso i social, le dirette, i documentari, le interviste emotive.

Il pubblico – anche quello più giovane – riconosce in Jago una figura di artista “puro”, immune al cinismo postmoderno, legato al fare, alla pietra, alla fatica vera. E in questa figura trova conforto, ammirazione, partecipazione. Ma proprio qui si innesta il meccanismo di autolegittimazione che rende il fenomeno Jago quasi invulnerabile: chi osa criticarlo, rischia di essere percepito come elitario, arrogante, distante dal “sentire popolare”.


La critica silente e il tabù dell’eccesso di consenso

Un altro aspetto interessante è la quasi totale assenza di dissenso esplicito nel panorama critico. Non mancano le perplessità sussurrate, gli interrogativi tra le righe, ma le vere stroncature sono assenti. Questo non perché manchino motivi di dibattito, ma perché l’apparato simbolico costruito da Jago è oggi così potente, così radicato nel consenso trasversale, da risultare quasi inattaccabile.

Un artista che lavora tra Napoli e Roma, che ristruttura chiese sconsacrate con fondi propri, che promuove l’educazione artistica dei giovani, che scolpisce Madonne e bambini abbandonati con precisione classica: chi può prendersi la responsabilità di metterne in discussione il valore, senza passare per snob o cinico?

Eppure, l’arte, per natura, vive del dissenso, del contrasto, della crisi. Il fatto che l’operato di Jago venga quasi universalmente accolto con entusiasmo rivela forse un bisogno collettivo: quello di un’arte che non ferisca, che non inquieti, ma che confermi la bontà del sentimento. Non è l’arte a doverci mettere in discussione, ma semmai a rassicurarci, ad accarezzarci l’anima. In questa logica, Jago diventa il portavoce di un’estetica del conforto: potente, solenne, tecnicamente impeccabile, ma priva di ambiguità vere, di quell’osceno che l’arte, per secoli, ha saputo accogliere.


Il contenuto virale e la rinuncia al conflitto

Le sculture di Jago, nella loro perfezione formale, sono fatte per essere condivise. Si stagliano perfettamente su Instagram, sono riconoscibili a colpo d’occhio, commoventi nella misura esatta, estetiche senza essere scomode, emozionanti ma mai disturbanti. L’arte, nel suo caso, non è un linguaggio da decifrare, ma un sentimento da confermare.

In questo senso, il fenomeno Jago è rivelatore di una tendenza più ampia: la sostituzione del pensiero con la condivisione. Ciò che conta, oggi, non è tanto comprendere un’opera, quanto reagire ad essa, esprimere un’emozione, partecipare. Ma un’arte che smette di essere spazio del conflitto e si fa solo luogo di rispecchiamento rischia di perdere la sua dimensione più radicale.


Jago come specchio del nostro bisogno di sacro

Alla fine, forse il vero cuore del successo di Jago sta proprio qui: in una nuova, laica, ma potentissima richiesta di sacralità. In un mondo fratturato, individualista, cinico, l’arte di Jago offre figure redentrici, corpi sublimati, dolore visibile e riconoscibile, gesto umile e devoto. È un’arte che parla al cuore e non al sistema, che si offre come forma di consolazione collettiva, che restituisce all’artista il ruolo di “guaritore dell’anima”.

Ma proprio in questo sta la sua ambiguità: è davvero l’arte a salvarci, quando smette di inquietarci? O diventa solo un’altra forma di narrazione consolatoria, bella, dolce, ma ideologicamente spenta?



Il ritorno al corpo: genealogia di un’anatomia visibile

Nel XXI secolo, il corpo ritorna al centro della scena artistica come oggetto, soggetto, superficie, rovina, icona, resistenza. Ma per comprendere la natura di questo “ritorno” bisogna prima riconoscerne la discontinuità: non si tratta di una continuità con il corpo glorioso del Rinascimento o con quello erotico e idealizzato dell’Ottocento, né semplicemente con quello sovversivo delle avanguardie storiche. Il corpo che oggi torna è frammentato, iper-visibile, medicalizzato, digitale, ferito, esposto, e spesso de-soggettivato. È il corpo post-biopolitico, ma anche post-ideologico, ridotto a luogo di esposizione radicale o a residuo di umanità in crisi.

Questo corpo si muove lungo linee di frattura culturale: da un lato è investito da nuove forme di sacralità laica e di urgenza politica; dall’altro, è costantemente manipolato e spettacolarizzato, ridotto a icona visiva o a simulacro. Nella società contemporanea, dove l’identità è fluida, dove il trauma è diffuso e dove la realtà è spesso un costrutto mediale, il corpo sembra restare l’unica ancora concreta, ma anche il primo campo di battaglia simbolico.

La genealogia di questo corpo contemporaneo comincia con la rottura novecentesca: il corpo negato, mutilato, smembrato. Pensiamo ai corpi deformi e sofferenti di Francis Bacon, ai gesti estremi di Gina Pane, ai corpi performativi e dolenti di Marina Abramović. In queste pratiche, il corpo non era più un’unità estetica o una metafora teologica: era diventato un campo semantico instabile, una forma di interrogazione radicale sul limite, sulla presenza, sulla percezione. Era già un corpo concettuale, che parlava dei limiti della rappresentazione, della violenza dello sguardo, della politicizzazione della carne.

Con l’inizio del nuovo millennio, e in particolare dopo eventi simbolici come l’11 settembre 2001, la pandemia globale e l’emergenza climatica, il corpo rientra prepotentemente nell’immaginario artistico. Perché? Perché diventa il luogo del trauma e del reale, in un’epoca in cui tutto il resto – il linguaggio, le istituzioni, le immagini – sembra virtuale, manipolabile, precario. Il corpo è ciò che resta, ciò che resiste, ciò che soffre e chiede di essere ascoltato. È, paradossalmente, ciò che ancora può testimoniare. In un mondo che ha smarrito ogni forma di trascendenza stabile, il corpo si carica di una sacralità nuova, viscerale, quasi mistica. È il nuovo tempio e, insieme, il nuovo campo di battaglia.

Ma questo ritorno non è mai univoco né pacificato. Per alcuni artisti, è un ritorno alla forma; per altri, è una dichiarazione di crisi. Il corpo torna non per rassicurare, ma per interrogare, per mettere in discussione ciò che intendiamo per umano, per identità, per relazione.


Corpi scolpiti, corpi feriti, corpi postumani

Nel caso di Jago, ad esempio, il corpo ritorna nella sua forma classica, “scolpita”, ricomposta nella sua integrità mimetica. È un corpo che consola, che commuove, che aspira alla bellezza atemporale. Un corpo empatico, ma anche mitologico, fuori dal tempo. Jago recupera la sapienza tecnica e il valore sacrale della scultura rinascimentale per ridare al corpo una dignità iconica. Ma altrove, il corpo è ibrido, prostetico, mostruoso: pensiamo a Patricia Piccinini, con le sue creature che sembrano uscite da un esperimento genetico, e che interrogano la bioetica e l’idea stessa di famiglia, maternità, empatia. O a Anicka Yi, che porta il corpo fuori dal corpo, in una dimensione microbiologica e olfattiva, dissolvendone i confini in colonie batteriche, vapori, ambienti immersivi.

In un registro più tragico, le sculture di Berlinde De Bruyckere presentano corpi sfigurati, equini o umani, pendenti, curvati, privi di volto, come resti archeologici o reliquie di una tragedia invisibile. Qui la carne è rovinata, arcaica, dolente. È memoria e rovina insieme. Questi corpi, benché immobili, gridano: gridano attraverso la loro postura, il loro silenzio, la loro carne come ferita aperta.

Nell’arte queer, transfemminista e postcoloniale, il corpo è testimonianza vivente di marginalità e resistenza. Le fotografie di Zanele Muholi mettono in scena sé stessa come corpo nero queer continuamente in transizione, performando identità fluide e provocando una ridefinizione dei canoni visivi. Il performer Cassils, attraverso l’allenamento muscolare, l’autolesionismo, l’azione performativa, trasforma il proprio corpo trans in scultura vivente e atto politico: il corpo come superficie di resistenza, come manifesto vivente, come macchina semantica.

In tutte queste esperienze, il corpo non è mai solo un corpo, ma un linguaggio, un archivio, un campo semantico. Non è rappresentazione, ma presenza problematica. La carne è scrittura, memoria, protesta. E ogni gesto che la mostra, la trasforma o la espone, diventa atto critico.


La carne e il simulacro: il corpo come superficie critica

Oggi l’arte non lavora più soltanto sulla forma del corpo, ma sulla carne come superficie critica. Il corpo è sezionato, tatuato, medicalizzato, impiantato, digitalizzato. È registrato, documentato, reificato. L’opera non rappresenta più un corpo, ma è un corpo: o meglio, un’esperienza del corpo. Il corpo è luogo di esposizione, di rischio, di interruzione. È un palinsesto di segni.

In questo scenario, anche il corpo “perfetto” di Jago è soggetto a un paradosso: quanto più è perfetto, tanto più è distante dal corpo reale. Il suo marmo è vivo, ma anche muto; è vero, ma anche morto. È un corpo-miraggio, un corpo-simulacro. È verosimile ma non vulnerabile. Dall’altra parte, i corpi performativi, apparentemente più autentici, sono a loro volta incorniciati in dispositivi spettacolari – musei, biennali, social – che rischiano di anestetizzarne il potere critico.

E allora, cosa resta del corpo? Forse solo la sua capacità di essere attraversato: da traumi, da significati, da desideri. Il corpo come soglia e come enigma.


Il corpo come bisogno spirituale: sacro e carne nella contemporaneità

Il ritorno al corpo risponde anche a un nuovo bisogno di sacro. Non sacro religioso, ma sacro come ciò che non si può ridurre, ciò che sfugge alla logica del profitto, della performance, dell’efficienza. In quest’ottica, il corpo di Jago appare come un corpo-redentore, un corpo taumaturgico. Le sue Madonne, i suoi feti, le sue Pietà scolpite con dedizione liturgica, riportano l’arte al tempio, alla cripta, al silenzio sacro. Sono corpi che chiedono rispetto, compassione, ascolto.

Eppure, anche questa sacralità può nascondere un rischio: quello di una nostalgia idealizzata, di un ritorno a un corpo che forse non è mai esistito. Un corpo intero, immobile, bianco, maschile, eterno. È un corpo che consola, ma che non interroga, che protegge, ma non include. È il corpo di un’umanità sognata, senza conflitto, senza storia.


Il corpo come sintomo della crisi

In definitiva, il ritorno al corpo nell’arte del XXI secolo non è un semplice revival figurativo. È una risposta sintomatica a una crisi più vasta: una crisi del linguaggio, della presenza, della verità. Il corpo diventa il luogo dove questa crisi si iscrive, si fa visibile, si rende carne.

Che si tratti della bellezza neoclassica di Jago o delle mutazioni bio-politiche di Cassils, il corpo oggi chiede di essere riconosciuto, non tanto come oggetto estetico, ma come soggetto vulnerabile, come documento politico, come soglia spirituale. Il corpo non è mai univoco, e proprio nella sua ambivalenza risiede la sua forza: può essere utopia e sintomo, miracolo e rovina.

E allora, la domanda non è tanto “che corpo rappresentiamo?”, ma “quale corpo siamo disposti a diventare?”. Un corpo ideale, che consola, o un corpo reale, che ci inquieta? Un corpo eterno, o un corpo che muore ogni giorno? Sta al pubblico – e alla critica – il compito di abitare questa tensione, senza ridurla a forma né a slogan.



Corpi agenti, materie affettive: Karen Barad, Rosi Braidotti e la nuova carne del pensiero

Nel ritorno al corpo dell’arte contemporanea pulsa una nuova concezione della materia: non più inerte, passiva, modellabile, ma attiva, relazionale, affettiva. È una materia che sente, che reagisce, che entra in relazione con l’umano e lo oltrepassa. Una materia che è già forma di vita, e forma di pensiero. È in questo contesto che le teorie di Karen Barad e Rosi Braidotti offrono strumenti potenti per comprendere il significato radicale del corpo artistico oggi.

Karen Barad, fisica e filosofa, propone una teoria chiamata realismo agenziale, in cui la materia non è una cosa, ma una pratica di intra-azione. Non esistono soggetti separati e oggetti indipendenti, ma configurazioni relazionali in continua trasformazione. Il corpo, da questa prospettiva, non è un’entità chiusa, bensì un nodo temporaneo di relazioni materiali, discorsive, energetiche. Barad parla di “apparati”, ovvero di quei dispositivi — culturali, tecnologici, epistemici — che rendono possibile l’emergere di un corpo come evento. In arte, questo significa che il corpo dell’opera non è mai finito: è una materia che continua a significare, che vibra, che è in becoming.

Questa visione filosofica suggerisce che l’arte non è più l’atto di mettere in scena un corpo fisico, ma l’esperienza di una rete di relazioni che include la materia, il linguaggio, il gesto e la percezione, tutti parte di un processo dinamico e non linearmente preordinato. In altre parole, il corpo artistico non è un'immagine immutabile, ma un agire continuo, che rimanda a una fisicità che emerge, interagisce, muta in risposta agli stimoli esterni ed interni, sempre in divenire. Un corpo che non può essere definito in termini statici, ma che è sempre già percorso da influenze, interazioni e conflitti materiali. Ogni corpo, che si tratti di una scultura, di una performance o di un’installazione, diventa un processo continuo di costruzione e decostruzione che sfida la visione tradizionale dell’opera d’arte come un oggetto concluso.

Rosi Braidotti, dal canto suo, offre una riflessione che si intreccia perfettamente con la visione baradiana. La sua teoria del postumano affermativo propone una lettura del corpo che va oltre la fine dell’umano tradizionale per abbracciare una materialità postumana, una carne che è attraversata da molteplici soggetti, identità e forze. La sua idea di "corpo" non è più un’entità separata dal mondo che lo circonda, ma è una soggettività fluida, in continuo interscambio con il proprio ambiente e con gli altri corpi. La teoria di Braidotti sottolinea che l'essere umano, così come lo conosciamo, è un prodotto di una serie di interazioni biotecnologiche e culturali, e pertanto il corpo postumano è sia un insieme di connessioni materiali che una rete di significati sociali, storici e culturali.

Il corpo diventa un territorio ibrido, non più solo fisico ma anche semantico, un vero e proprio crocevia di tecnologie, emozioni, esperienze e segnali esterni. Nel suo lavoro, Braidotti rifiuta qualsiasi nozione di un corpo chiuso, per aprire la via a un'arte che sia capace di esprimere questa contaminazione continua tra umano, non-umano, naturale e artificiale. Non più prigioniero di definizioni tradizionali, il corpo diventa una soglia mobile, che non solo riceve e restituisce segnali, ma che è anche capace di trasformare e essere trasformato in un continuo scambio.

In questo quadro teorico, le pratiche artistiche emergenti nel XXI secolo — come quelle di Anicka Yi, Tania Bruguera, Vivian Suter — trovano una nuova dimensione. Artisti come Yi, che usa odori e microbi come parte della sua arte, o Bruguera, che mette in scena situazioni in cui il corpo è esposto a forme di controllo sociale e politico, portano l'idea di corpo ad una livello nuovo, dove le sensibilità più viscerali, biologiche e fisiche sono strettamente legate a quelle più politiche, affettive e intellettuali. Qui il corpo non è solo presente come forma visibile, ma è anche una rete dinamica di esperienze, un corpo che pensa, che agisce e che trasforma il mondo. L’opera d’arte, infatti, diventa una configurazione di soggettività diverse che si incontrano, collidono, si contaminano, come in un processo di continua intra-azione che sovverte la tradizionale visione dell’artista come unico creatore e dell’opera come entità separata dalla vita.

In un contesto come quello della scultura contemporanea, la visione di Jago può essere letta come una riflessione sul corpo come “macchina di significato”. Il marmo, che solitamente è percepito come materiale imponente e statuario, diventa qui un corpo che parla attraverso la tensione e la morbidezza della carne scolpita. Non è più un “corpo” perfetto o idealizzato, ma un corpo sensibile, che trattiene le tracce del dolore, del trauma e dell’emozione. Il marmo, quindi, non è solo un materiale ma diventa una metafora vivente della sofferenza e della fragilità dell'esistenza, dove l’arte non è più solamente una riproduzione della bellezza, ma una riflessione sul corpo come evento di significato. Un corpo che pulsa, che trema, che si trasforma e che, proprio per questo, trova una sua verità nella carne, nel respiro e nel dolore.

Il confronto tra le teorie di Barad e Braidotti, unite a queste pratiche artistiche, ci suggerisce che l’arte del XXI secolo non si ferma alla superficie del corpo, ma ne scava la carne per rivelare la materialità affettiva che la attraversa. Non c’è più un corpo che è solo un contenitore passivo per un’anima o un’intelligenza, ma un corpo che è sempre in azione, che è un campo di forze in cui il pensiero, l’emozione, il desiderio e la materia si intrecciano e si fondono, creando nuove configurazioni di soggettività e di esperienza.

Le teorie di Barad e Braidotti non solo mettono in discussione la tradizionale separazione tra mente e corpo, ma aprono anche la porta a un’arte che non si limita a rappresentare il corpo, ma lo esperimenta, lo trasforma, lo contamina. L’opera d’arte diventa così il luogo in cui la materia, il pensiero e l’affetto si incontrano e si mescolano, dando vita a forme che non sono mai statiche ma in costante divenire, proprio come il corpo stesso.

Nel pensiero contemporaneo, quindi, il ritorno al corpo non è solo un recupero estetico o una nostalgia per l’umano, ma una ricerca di nuove modalità di esistenza e di relazione tra il soggetto e il mondo. Non si tratta più di rivendicare il corpo come simbolo dell'identità o della resistenza, ma di pensare il corpo come una matrice di possibilità radicali, in grado di creare nuove forme di conoscenza e di empatia attraverso la materialità affettiva che lo anima.


La pelle come confine sensibile: confronto con le teorie di Karen Barad e Rosi Braidotti

Il concetto di pelle come confine sensibile si colloca al crocevia tra filosofia, arte e biologia, offrendo una comprensione complessa e profonda della relazione tra corpo e mondo esterno. Tradizionalmente, la pelle è vista come il limite fisico tra l’individuo e l’ambiente, un confine che separa e al contempo unisce. È attraverso la pelle che il corpo sperimenta il mondo: dal caldo e freddo alle emozioni, dal tocco al dolore. Nel XXI secolo, questa visione si è evoluta, e il concetto di pelle come confine fisico è stato amplificato dalle riflessioni filosofiche di autori come Karen Barad e Rosi Braidotti, che propongono una visione della materia come interrelata e dinamica. Approfondire la pelle come confine sensibile ci permette di esplorare la soggettività corporea in modo più sfumato, sottraendo la pelle alla sua concezione passiva e mostrandola come una superficie attiva di intra-azione.

La pelle e la teoria della materia affettiva

Per comprendere come il concetto di pelle si inserisca nel dialogo tra le teorie della materia affettiva di Karen Barad e Rosi Braidotti, è importante riconoscere che entrambe le filosofe pongono la materia come qualcosa di molto più che un insieme di particelle fisiche. In particolare, la pelle si configura come una zona di contatto che non solo separa il corpo dal mondo, ma lo mette in relazione con il resto dell’universo.

Secondo Karen Barad, la materia è una rete di intra-azioni dove soggetti e oggetti sono co-creati, e la pelle non è solo un elemento del corpo, ma un campo dinamico di continua intra-azione. La pelle non è solo il limite di un individuo, ma il luogo in cui si intrecciano forze naturali, culturali ed emozionali. Così come la materia è sempre in movimento e in trasformazione, anche la pelle non è mai statica, ma è sempre in relazione, sia con l’ambiente esterno che con l’interno del corpo. Questo implica che la pelle è una soglia vivente, che non solo trattiene e difende, ma riceve e invia segnali, diventando essa stessa una forma di comunicazione tra il corpo e il mondo.

Nella sua prospettiva di realismo agenziale, Barad considera la pelle come un agente attivo, che vibra di significati a seconda delle condizioni in cui si trova. Non è una superficie semplice e passive, ma è permeata da una continua interazione tra le materie affettive — le emozioni, il linguaggio, le tecnologie — che la attraversano. Da qui l'idea che la pelle, anziché essere solo il confine che separa e protegge, è anche una finestra che lascia passare soggettività, esperienze e significati che vanno oltre il corpo individuale. Il confine della pelle, quindi, è mobile, permeabile, in grado di entrare in relazione con l'altro attraverso ogni scambio sensibile.

La pelle come superficie postumana

La teoria di Rosi Braidotti sul corpo postumano e la sua concezione della carne come materia viva si incrociano perfettamente con il concetto di pelle come confine sensibile. Braidotti invita a ripensare il corpo non come un’entità fissa e autonoma, ma come un luogo di contaminazione, una superficie cedevole che sfida le rigide divisioni tra soggetto e oggetto, umano e non-umano. La pelle, in questa prospettiva, non è solo un limite naturale, ma diventa **un territorio di espressione, di comunicazione e di resistenza.

Nel contesto della postumanità, la pelle assume nuove dimensioni simboliche. È il luogo che ci permette di riscrivere l’incontro tra organico e non-organico, tra biologico e tecnologico, rispecchiando il movimento di ibridazione che segna la nostra epoca. Così, la pelle come confine diventa la porta d’ingresso verso una nuova comprensione del corpo, dove il soggetto non è più definito da una solida identità, ma è, al contrario, un processo continuo di trasformazione. È una materia fluida, sempre in divenire, che diventa sensibile a forze che non sono solo biologiche ma anche storiche, sociali, culturali e affettive.

L'arte contemporanea e la pelle come confine sensibile

L’arte contemporanea esplora frequentemente il concetto di pelle, non solo come superficie fisica, ma come emblema di tensioni più profonde tra il soggetto e il mondo circostante. In opere come quelle di Orlan, Hernan Bas, e Emma Kunz, la pelle diventa il luogo di esplorazioni radicali, un confine che non si limita a delimitare, ma proietta il corpo in nuove direzioni. La pelle non è più solo un oggetto passivo da trattare, ma un campo di forze che si interroga sulla propria capacità di resistere, di trasformarsi, di assorbire e di comunicare.

Orlan, ad esempio, ha esplorato il corpo come campo di resistenza alle convenzioni di bellezza e identità, utilizzando la chirurgia estetica come strumento per sfidare i limiti della pelle. La sua arte non è solo un atto di trasformazione fisica, ma un modo di ridisegnare i confini sensibili del corpo, suggerendo che la pelle non è solo una barriera, ma una superficie che dialoga con i discorsi sociali, politici ed estetici. La pelle, in questo caso, non è solo il confine fisico tra l’individuo e l’esterno, ma il punto in cui la soggettività si negozia e si riscrive, in relazione a un mondo che cambia rapidamente.

La riflessione sulla pelle, quindi, ci porta a una comprensione più complessa del corpo, non solo come contenitore fisico, ma come nodo di significati culturali, esperienziali e affettivi. In questa luce, il corpo diventa un agente vivente, capace di negoziare continuamente il proprio limite e di attraversarlo per relazionarsi con il mondo. L’arte contemporanea, attraverso il corpo e la pelle, non offre risposte definitive, ma invita a riflettere su come i corpi sentono e vivono il mondo, e su come possiamo ridefinire questi limiti, siano essi biologici, culturali o politici.

La pelle come confine sensibile, intesa sia come limite che come luogo di comunicazione e trasformazione, si pone come un crocevia di teorie filosofiche e pratiche artistiche che sfidano i tradizionali confini tra il corpo e il mondo. Le riflessioni di Karen Barad e Rosi Braidotti ci invitano a vedere la pelle non come una barriera passiva, ma come una zona di intra-azione vivente, sempre in movimento, che riflette la complessità dei nostri corpi postumani. L'arte contemporanea, attraverso il trattamento e la ridefinizione della pelle, esplora come il corpo possa essere sia un luogo di resistenza che un campo di trasformazione continua, un territorio fluido in cui la materia e la soggettività si intrecciano per creare nuove forme di relazione, di significato e di esistenza.


La pelle come confine sensibile nelle pratiche somatiche e coreografiche

Le pratiche somatiche e coreografiche rappresentano un terreno fertile e particolarmente fecondo per esplorare la pelle come confine sensibile, dove la nozione di corpo non è ridotta a mera fisicità, ma si espande e si interconnette a un'infinità di sensazioni, emozioni e movimenti. In queste discipline, la pelle è concepita come un territorio dinamico, una superficie che non solo separa, ma che diventa spazio di relazione, capace di assorbire, trasmettere e trasformare le sollecitazioni che provengono dall’interno e dall’esterno. La pelle, in quanto confine sensibile, non è più un semplice limite fisico, ma una superficie attiva e interattiva che comunica, reagisce e si modella in risposta agli stimoli corporei, emotivi e affettivi che il corpo stesso è in grado di percepire e manifestare.

Le pratiche somatiche e la pelle come superficie sensibile

Nell’ambito delle pratiche somatiche, l’accento è posto sull’ascolto delle sensazioni corporee e sulla consapevolezza profonda delle percezioni fisiche che attraversano il corpo. In questa prospettiva, la pelle diventa uno strumento privilegiato per attivare una consapevolezza somatica che va oltre la semplice percezione fisica e che abbraccia una profonda connessione tra corpo e mente. Non è un caso che le pratiche somatiche come la Feldenkrais Method, la Body-Mind Centering o l’Hatha Yoga abbiano posto il corpo e la pelle al centro della loro metodologia. Qui, la pelle non è solo la barriera che separa il corpo dall’ambiente esterno, ma un organo sensoriale che riceve e interpreta i segnali provenienti dall’ambiente, assorbendo emozioni, esperienze e stimoli. In questa interazione, la pelle agisce come un canale di comunicazione che, attraverso il contatto diretto con l’altro e con l’ambiente, permette una ridefinizione continua del corpo e della percezione di sé.

Le pratiche somatiche pongono il corpo in uno stato di apertura e di ricettività, dove la pelle diventa la superficie che accoglie le emozioni e le percezioni, sia di natura interna che esterna. La pelle non è più concepita come una mera barriera, ma come un territorio fluido che si adatta e si riscrive continuamente in base all’esperienza e alla consapevolezza corporea che il praticante è in grado di sviluppare. Questo approccio all’ascolto somatico permette di superare la rigidità del corpo fisico, facendone un corpo vivo, capace di esplorare le proprie potenzialità e di trasformarsi continuamente.

Inoltre, la pelle come confine sensibile nelle pratiche somatiche si intreccia strettamente con le emozioni e le memorie corporee, che si manifestano proprio attraverso le sensazioni che la pelle è in grado di captare. Il corpo è, infatti, considerato non solo un'entità fisica, ma anche una memoria storica, capace di registrare e trattenere esperienze emotive e psicologiche. In questa luce, la pelle diventa un archivio sensoriale, dove le tracce del passato e le esperienze vissute sono rese evidenti attraverso le reazioni fisiche e le sensazioni che emergono durante la pratica somatica. La pelle, come confine sensibile, è quindi un luogo in cui l’emotività e il corpo fisico entrano in relazione, creando una convergenza tra la sfera psichica e quella fisica, in un continuo processo di trasformazione.

La coreografia come mappa del corpo e della pelle

Nel campo della coreografia, la pelle acquisisce un ruolo ancora più esplicito come confine sensibile e superficie dinamica, che si fa spazio di relazione e di comunicazione tra il corpo danzante e il mondo. La danza contemporanea, infatti, è sempre più interessata alla soggettività del corpo e alla sua capacità di relazionarsi con l’ambiente e con l’altro. In questo contesto, la pelle non è più solo il confine esteriore del corpo, ma un interfaccia sensibile che risponde alle sollecitazioni esterne e interne, diventando un medium di trasmissione delle emozioni, delle sensazioni e dei significati che il movimento stesso genera. L’approccio alla pelle nella danza contemporanea va ben oltre la concezione tradizionale di corpo come oggetto, e diventa un luogo di esperimento e di espressione emozionale.

La coreografia contemporanea, in particolare quella che ha fatto dell’improvvisazione e del contact improvisation un suo punto di riferimento, pone al centro proprio il concetto di pelle come confine in continuo movimento e in continua trasformazione. In queste pratiche, la pelle diventa un elemento vivo, in grado di rispondere e reagire agli altri corpi in scena, creando una relazione che sfida i limiti fisici e che fa emergere una nuova forma di comunicazione sensibile. Il corpo, in questo caso, non è mai un oggetto statico, ma un sistema dinamico che esplora la propria fluidità, e la pelle ne è il punto di tensione e trasformazione.

I coreografi contemporanei, come William Forsythe, Alonzo King e Anne Teresa De Keersmaeker, hanno esplorato la pelle come confine sensibile in modo particolare, non solo in termini di contatto fisico, ma come spazio di negoziazione delle emozioni, dei desideri e dei conflitti che emergono durante il movimento. In questo senso, la pelle diventa non solo un luogo di relazione fisica, ma anche uno spazio di comunicazione affettiva che attraversa le dinamiche di potere e di intimità che la danza genera. Il corpo e la pelle diventano il veicolo privilegiato per l’esplorazione di tematiche sociali e culturali, come l'emarginazione, il potere e la liberazione.

La pelle come zona di affetto e di potere nelle pratiche coreografiche

La pelle, come confine sensibile, non è solo un territorio che separa e unisce, ma anche un spazio di potere, dove il contatto fisico diventa strumento di empowerment o di resistenza. Nel contesto delle danze sociali o di gruppo, la pelle diventa il punto in cui si esprimono le dinamiche di potere e le relazioni di dominio. Ad esempio, nel contact improvisation, il corpo in movimento diventa non solo un mezzo di comunicazione tra i danzatori, ma anche un veicolo di liberazione e di trasformazione delle dinamiche di potere che si instaurano attraverso il contatto fisico.

In questo senso, il corpo non è solo uno strumento di espressione artistica, ma anche uno strumento politico, che mette in discussione le convenzioni sociali e culturali legate al corpo e alla pelle. Il confine della pelle, come spazio di affetto e di potere, diventa così anche una zona di resistenza, dove il corpo, attraverso la danza e il movimento, sfida e reinterpreta le norme che regolano il comportamento fisico e sociale.

La pelle come territorio fluido

In definitiva, la pelle come confine sensibile nelle pratiche somatiche e coreografiche si configura come un territorio fluido e dinamico, in cui il corpo e le sue percezioni non sono mai statici, ma in costante mutamento. La pelle non è più un semplice limite fisico, ma un canale di comunicazione attraverso il quale il corpo interagisce con l’altro, con l’ambiente e con le emozioni che lo attraversano. La pelle diventa il luogo di incontro tra l’individuo e il mondo, tra il corpo e le sue relazioni sociali, culturali ed emotive. Le pratiche somatiche e coreografiche pongono l'accento su questo continuo dialogo tra il corpo, la pelle e l’ambiente, trasformando la pelle stessa in uno spazio di espressione e di esperienza sensibile che non è mai definitivo, ma sempre in evoluzione. La pelle, in questa prospettiva, diventa quindi non solo un confine, ma un territorio di trasformazione e di liberazione continua, dove il corpo, attraverso il movimento e la consapevolezza somatica, riscrive costantemente le proprie potenzialità e il proprio legame con il mondo.