La vera impresa del romanzo è nella sua architettura. Vargas Llosa rompe la linearità temporale, incrocia monologhi interiori e punti di vista multipli, inserisce flussi di coscienza, rimandi che si srotolano come ferite. Questa scelta non è gratuita: riflette la frantumazione dell’identità dei personaggi, la loro incapacità di decifrare un mondo che li ha già condannati a scegliere tra essere vittime o carnefici. Il tempo, come lo spazio, è deformato dalla violenza: torna, si ripete, si decompone.
I personaggi non sono eroi. Sono anime rovinate che lottano nel fango, ciascuno cercando una forma di riscatto. Il Jaguar, figura centrale, non è solo il “duro” del gruppo: è un essere scisso, costretto a portare una maschera di spietatezza, ma tradito da gesti ambigui, quasi teneri, che raccontano un’infanzia spezzata. Il Poeta, con la sua malinconia e le sue letture segrete, rappresenta la possibilità dell’immaginazione come difesa – ma anche la sua impotenza. La morte del “Schiavo” è l’epicentro etico dell’opera: non importa tanto chi sia il colpevole, quanto il silenzio complice, la codardia istituzionale, l’abisso morale in cui tutti scivolano.
Vargas Llosa mette sotto accusa la pedagogia autoritaria e il machismo come malattie sistemiche. Lo fa senza proclami ideologici, ma lasciando che siano le relazioni, i dialoghi, le omissioni a parlare. La sua scrittura è precisa, tagliente, feroce. Non concede nulla alla commiserazione. Il dolore viene restituito con una lucidità spietata. La violenza non è solo fisica: è soprattutto psicologica, linguistica, esistenziale.
All’epoca della pubblicazione, il libro fu oggetto di censura e scandalo: le autorità militari peruviane tentarono di metterlo al bando. Ma è proprio questo rifiuto istituzionale a segnare la grandezza dell’opera: La città e i cani è un romanzo “scomodo”, nel senso più autentico e necessario del termine. Ci costringe a guardarci nello specchio deformante dell’autorità, a chiederci cosa siamo disposti a sacrificare per sopravvivere, cosa resti della coscienza in un mondo in cui la legge è solo uno strumento del dominio.
È un libro che ancora oggi inquieta, perché parla di tutti i luoghi dove l’individuo è schiacciato, silenziato, addestrato a dimenticare sé stesso. E perché la sua bellezza nasce proprio da questa tensione irrisolvibile tra resistenza e resa.
Fammi sapere se vuoi che lo metta a confronto con Conversazione nella cattedrale, o se preferisci un’estensione del commento alla dimensione stilistica e sperimentale del testo.
Estensione critica: la dimensione stilistica e sperimentale di La città e i cani
Ciò che fa de La città e i cani non solo un romanzo importante, ma un'opera di rottura, è il modo in cui Mario Vargas Llosa ha deciso di scriverlo: non con il tono piatto della denuncia sociale o con l’oggettività da reportage, ma con una costruzione narrativa ardimentosa, intrisa di sperimentazione tecnica e di una precisa volontà formale.
A un primo sguardo, la struttura può apparire disordinata, quasi caotica. Ma è un caos composito, organico, progettato con consapevolezza millimetrica. Vargas Llosa orchestra una narrazione polifonica, in cui le voci dei personaggi si intrecciano senza annunciarsi, in un gioco continuo di focalizzazioni mobili. La terza persona convive con lunghi flussi di coscienza in prima persona, senza segni grafici di separazione netta. È il lettore a dover orientarsi in un labirinto linguistico che riflette la disintegrazione morale del mondo raccontato.
Il tempo narrativo è volutamente scompaginato: si alternano piani temporali diversi, flashback dissimulati, ritorni improvvisi al passato che non vengono segnalati esplicitamente. Vargas Llosa adotta una narrazione discontinua, spezzata, dove la memoria dei personaggi si impone come materia viva, irregolare, sempre sul punto di tradirsi. Non c’è linearità, ma frammentazione: perché non c’è una verità unica, e perché nessun personaggio è mai davvero padrone della propria storia.
In questo senso, l’influenza di William Faulkner è fortissima, in particolare di L’urlo e il furore e As I Lay Dying. Ma ciò che Faulkner fa con la famiglia e la provincia americana, Vargas Llosa lo fa con l’istituzione e la metropoli peruviana. La lingua si fa veicolo di smarrimento e di tensione: nessuna voce è completamente affidabile, nessuna confessione è del tutto innocente. La narrazione si frammenta come si frammenta l’identità dei giovani cadetti, intrappolati tra le regole della caserma e le urgenze contraddittorie dell’adolescenza.
Un altro tratto fondamentale è l’uso del discorso indiretto libero, che consente all'autore di immergere il lettore nei pensieri dei personaggi senza mai staccarsi completamente dalla terza persona. Questo scivolamento continuo di piani – tra voce narrante e voce interiore – crea un effetto di vertigine, di sfaldamento percettivo. Spesso non si capisce più se stiamo leggendo ciò che un personaggio pensa, ciò che ricorda o ciò che teme. Ma proprio in questa ambiguità si apre la verità più profonda del romanzo: quella dell’identità come costruzione instabile, traumatizzata, ingabbiata.
Sul piano della composizione, Vargas Llosa costruisce il romanzo come un mosaico: ogni tassello è autonomo, ma solo nel montaggio finale – che non è mai definitivo, mai pienamente risolto – si intravede l’intero. Eppure, pur nella sua complessità formale, La città e i cani non è un’opera autoreferenziale o cerebrale. Al contrario: la sua forza emotiva è dirompente. La sperimentazione stilistica non è un esercizio di bravura, ma una necessità interna al racconto. Il disordine serve a raccontare il disordine. La molteplicità serve a restituire un mondo dove non c’è più una voce-guida, dove il centro morale è collassato.
Infine, è importante sottolineare che la scelta stessa di raccontare una storia così densa di violenza, omertà e sofferenza attraverso una forma narrativa complessa equivale a un atto di resistenza letteraria. Vargas Llosa rifiuta il linguaggio semplice, il realismo convenzionale, la trasparenza mimetica: perché raccontare il dolore richiede uno sforzo ulteriore, una lingua spezzata, piena di fenditure.
Nel panorama del romanzo latinoamericano del dopoguerra, La città e i cani si impone come un punto di svolta non solo per i suoi contenuti, ma per la radicalità con cui questi contenuti vengono plasmati in una forma nuova. È una dimostrazione, fin dall’inizio della sua carriera, che per Vargas Llosa la letteratura non è mai evasione, ma un campo di battaglia morale e formale insieme.
Se vuoi, posso anche estendere il confronto con Conversazione nella cattedrale per vedere come evolve questa stessa tensione stilistica. Ti interessa?