Billy Wilder, con il suo stile tagliente e il suo occhio spietato per la psicologia umana, non ha solo diretto un film: ha messo a nudo il cuore di un’industria che crea i suoi miti per poi divorarli senza pietà. Lo ha fatto con un’ironia feroce, con un tono tra il macabro e il tragico, e con un senso della messa in scena che trasforma ogni dettaglio della storia in un tassello essenziale per comprendere la follia che si cela dietro il sipario dorato di Hollywood.
Il film, uscito nel 1950, arrivava in un momento in cui il cinema stava vivendo una trasformazione profonda. Gli anni d’oro delle grandi star del muto erano ormai un lontano ricordo, il sonoro aveva ridefinito le regole del gioco, e la televisione stava iniziando a minacciare il predominio del grande schermo. La stessa industria che un tempo aveva esaltato i divi, trattandoli come semidei, ora si sbarazzava di loro come di vecchie pellicole logorate, incapaci di reggere il confronto con le nuove generazioni di attori e registi.
In questo scenario, Viale del tramonto si poneva come un atto d’accusa, un film che, pur essendo girato con i mezzi della Hollywood classica, sembrava quasi volerla smascherare dall’interno. Il ritratto che ne emerge è quello di un mondo spietato, in cui la gloria è effimera e la caduta è inevitabile.
UNA STORIA DI FANTASMI, MA SENZA SOPRANNATURALE
La villa di Norma Desmond, con i suoi interni opulenti ma polverosi, con i suoi corridoi avvolti nell’ombra e le sue stanze colme di fotografie ingiallite, è a tutti gli effetti una casa infestata. Ma i fantasmi che la abitano non sono spiriti nel senso tradizionale: sono i ricordi di un passato che non vuole morire, sono le illusioni di una donna che si rifiuta di accettare la realtà.Norma Desmond non è un semplice personaggio, ma un relitto di un’epoca ormai scomparsa. Vive intrappolata nella sua stessa leggenda, circondata da oggetti e simboli del suo antico splendore, incapace di concepire un’esistenza al di fuori della fama e dell’adorazione. Il suo stesso nome – "Desmond" – richiama l’idea della discesa (descent), della caduta da un’epoca di grandezza verso l’oblio.
L’intera narrazione si sviluppa come una sorta di seduta spiritica cinematografica: Norma cerca disperatamente di evocare il passato, di riportare in vita un’epoca che non esiste più, mentre Joe Gillis, lo sceneggiatore fallito, si ritrova progressivamente risucchiato nel suo mondo. Ma, come accade spesso nei racconti di fantasmi, chi si ostina a restare attaccato al passato finisce per essere consumato da esso.
IL GIOCO DELLA META-FINZIONE: CINEMA CHE PARLA DI CINEMA
Uno degli aspetti più geniali di Viale del tramonto è il suo gioco continuo con la meta-finzione. Il film non è solo una storia sulla vecchia Hollywood, ma è interpretato da attori che hanno vissuto sulla propria pelle il passaggio dall’epoca del muto a quella del sonoro.Gloria Swanson, che interpreta Norma Desmond, non era solo un’attrice qualunque: era stata davvero una delle grandi dive del cinema muto, una delle stelle più luminose degli anni ’20. Quando pronuncia battute come "Abbiamo avuto volti!", sta parlando con una consapevolezza che va ben oltre la semplice recitazione: è il grido di una generazione di attori che il sonoro aveva reso obsoleti.
Lo stesso vale per Erich von Stroheim, che interpreta Max, il devoto maggiordomo di Norma. Nella finzione, Max è il suo ex-marito e il regista che l’aveva resa famosa; nella realtà, Stroheim era stato un regista di culto del cinema muto, un autore visionario le cui opere erano state spesso mutilate dagli studi di Hollywood. Quando nel film vediamo Norma proiettare una pellicola del suo passato, il film in questione è Queen Kelly (1929), un vero film diretto da Stroheim e interpretato da Gloria Swanson.
Anche la comparsa di Cecil B. DeMille nei panni di se stesso aggiunge un ulteriore livello di realtà alla finzione. DeMille era stato il vero regista di Gloria Swanson negli anni ’20, e la scena in cui Norma lo visita agli studi della Paramount non è solo una sequenza narrativa, ma un frammento di storia del cinema che si intreccia con la trama del film.
IL RITRATTO DELL'ARTISTA SENZA TEMPO
Al centro della tragedia di Norma Desmond c’è un tema che va oltre la Hollywood degli anni ’50: il rapporto tra l’artista e il tempo. Cosa succede a un artista quando il mondo non ha più bisogno di lui? Come si sopravvive alla propria stessa leggenda?
Il cinema, con la sua capacità di immortalare i volti e le immagini, ha sempre avuto un rapporto ambiguo con il tempo: da un lato, rende eterno ciò che filma; dall’altro, rende evidente il passare degli anni, mostrando in modo crudele l’invecchiamento delle star. Norma Desmond è una donna che non può sopportare questa verità: nella sua mente, lei è ancora la stessa giovane dea che dominava lo schermo, e nulla può convincerla del contrario.
La sua ossessione per il ritorno sulle scene non è solo una questione di vanità: è un tentativo disperato di rimanere viva, di continuare a esistere in un mondo che sembra averla cancellata. La sua follia non è altro che il risultato della sua incapacità di accettare che il tempo non si può fermare.
IL DESTINO DI JOE GILLIS: IL CINISMO NON SALVA DALLA TRAGEDIA
Se Norma rappresenta il passato che non vuole morire, Joe Gillis è il presente che cerca di sopravvivere. È un uomo cinico, disilluso, che si è adattato alle regole del gioco di Hollywood e che non ha più illusioni sul mondo in cui vive. Eppure, proprio come Norma, è intrappolato: non nel passato, ma nella sua condizione di fallito, di uomo senza via d’uscita.Il suo destino è segnato fin dall’inizio: può tentare di fuggire, può cercare di costruirsi un’altra vita con Betty, ma in fondo sa che non ci riuscirà. Norma lo ha ormai avvolto nella sua rete, e la sua morte non è altro che il naturale epilogo di una storia in cui la speranza è solo un’illusione.
Quando il film si chiude con Norma che avanza verso la macchina da presa, persa nel suo delirio di grandezza, Viale del tramonto ci lascia con una delle immagini più potenti della storia del cinema. Norma è ormai oltre la realtà, oltre il tempo, oltre la ragione: è diventata un’icona, un simbolo eterno della gloria e della caduta.
E mentre lei pronuncia la sua ultima battuta – "Mr. DeMille, sono pronta per il mio primo piano", noi sappiamo che, nel bene e nel male, lo sarà per sempre.