In Pao Pao, la caserma diventa una sorta di palcoscenico dove si muovono figure che vanno oltre il cliché del soldato di leva: Tondelli fa emergere un’umanità caleidoscopica, spesso grottesca, immersa in rituali militareschi che sanno di farsa, ma anche di tragedia quotidiana. È un mondo chiuso, maschile, rumoroso, dove il corpo è osservato, disciplinato, esibito, e dove la tenerezza si fa largo solo sotto mentite spoglie.
Benché Pao Pao non sia dichiaratamente un romanzo sull’omosessualità (come lo sarà più esplicitamente Camere separate), il sottotesto omoerotico è potente e inquieto. La prossimità forzata tra corpi maschili, lo sguardo che si sofferma, le tensioni non dette, disegnano una geografia emotiva che parla di desiderio, ma anche di repressione e di vergogna. È l’omosocialità della caserma che diventa teatro di possibilità ambigue, censurate, spesso tragiche.
A livello stilistico, Tondelli adotta un impianto narrativo destrutturato, quasi sincopato. Il romanzo non segue una linea narrativa continua, ma è costruito su una successione di episodi, di quadri, di interruzioni. È una scelta che riflette lo straniamento della leva: il tempo è sospeso, iterativo, e la memoria si scompone in flashback emotivi. La frammentarietà è cifra anche della scrittura: una prosa ritmica, talvolta urlata, dove la lingua si fa veicolo di ribellione.
Il narratore, ex militare che rievoca con amara ironia i giorni della leva, compie un atto eminentemente politico: riportare alla luce un'esperienza rimossa, spesso mitizzata o ridicolizzata. La memoria è filtro, ma anche rivolta. Tondelli non scrive Pao Pao per esorcizzare, ma per rivendicare: l’inadeguatezza, la paura, il ridicolo diventano strumenti per destrutturare un immaginario virile e patriottico ormai logoro.
Se Pasolini aveva descritto l’universo maschile popolare con occhio sacrale, Tondelli lo fa con disincanto e distanza postmoderna. Il ragazzo di vita degli anni '80 non è più un corpo mistico ma un corpo spaesato, ridicolizzato, imprigionato in uno spazio che non gli appartiene più. Il pathos è sostituito da un’ironia talvolta crudele, ma sempre attraversata da un fondo affettivo. Il militare non è una prova di virilità, ma una disfunzione affettiva collettiva.
In Pao Pao, la voce di Tondelli si fa generazionale: racconta un’Italia pre-Berlusconi, ancora legata a certi riti di passaggio, a una virilità imposta, ma già profondamente mutante. Il romanzo è un documento prezioso sul passaggio dalla cultura del dovere a quella dell’identità, e resta una pietra miliare della letteratura queer (implicita) italiana.
In Pao Pao, la lingua non è mai neutra. È sfilacciata, spezzata, spesso urlata. Tondelli scrive come se stesse trattenendo un respiro troppo lungo: ogni frase è un’esplosione trattenuta, ogni paragrafo sembra nascere da un’urgenza. Il linguaggio militare – secco, ossessivo, fatto di acronimi e ordini – si scontra di continuo con improvvise accensioni liriche, momenti in cui la voce narrante si ritira e diventa intima, quasi pudica. È come se il testo oscillasse costantemente tra il dovere e il desiderio, tra la regola e l’irruzione del sentimento.
C’è una musicalità sincopata in tutto questo, un ritmo che somiglia al battito cardiaco quando si ha paura, o quando si ama senza poterlo dire. Tondelli non scrive come si parlava negli anni Ottanta: scrive come si cercava di non parlare, come si taceva. E in quel tacere c’è tutto il peso di una generazione che non aveva ancora trovato parole pubbliche per dire sé stessa.
Rispetto ai suoi contemporanei, Tondelli occupa una posizione singolare. È vicino a certi eccessi di Aldo Busi, certo – entrambi amano sporcarsi con la carne, con l’inadeguatezza, con ciò che l’Italia democristiana avrebbe preferito non vedere. Ma mentre Busi teatralizza l’identità queer in una lingua barocca e pirotecnica, Tondelli preferisce rimanere ai margini, suggerire, raccontare il desiderio più con la frustrazione che con l’esibizione. È più trattenuto, più malinconico. Se Busi sfonda la porta, Tondelli resta dietro la tenda, osserva.
Diversissimo da Tabucchi, che in quegli stessi anni scrive pagine rarefatte sulla memoria e sul sogno, Tondelli racconta una realtà affettiva più sporca, più corporea. Eppure, come Tabucchi, anche lui sa che la memoria è una costruzione, e che ogni racconto del passato è sempre un atto di invenzione. Pao Pao è, in fondo, un tentativo di costruire un archivio sentimentale là dove tutto – la caserma, la virilità, l’istituzione – ha cercato di impedirlo.
Quando Pao Pao uscì nel 1982 per Feltrinelli, era un libro più diretto, più ruvido, più “sudato”. Lì, il desiderio scivolava tra le righe senza imbarazzo, e il corpo maschile – sempre osservato, spesso toccato, talvolta desiderato – occupava uno spazio centrale. Era un libro che parlava del maschile non come modello, ma come problema. E lo faceva con una forza che poteva spiazzare.
Ma nel 1991, pochi mesi prima della morte, Tondelli rimaneggia il testo. Nella nuova edizione, pubblicata da Bompiani, il romanzo cambia tono. Non rinnega nulla, ma smussa. Le zone più “calde”, più ambigue, vengono alleggerite. Il desiderio si fa più implicito, la scrittura più sorvegliata. È come se Tondelli volesse togliere volume alle parti che avrebbero potuto essere fraintese, per rendere più nitido il suo sguardo sulla memoria.
È una scelta comprensibile, forse inevitabile. In quel momento Tondelli è diventato una figura pubblica, un mentore per tanti giovani scrittori, l’anima del Progetto Under 25. Ma è anche un uomo che sa di essere malato, che sta cominciando a fare i conti con il tempo. La revisione di Pao Pao non è una censura, è un congedo: un modo per affidare alla carta una versione più matura e disillusa di sé.
Quando si mettono a confronto la prima edizione di Pao Pao (Feltrinelli, 1982) e quella uscita postuma per Bompiani nel 1991, si ha la sensazione di leggere due libri simili eppure diversi, come se tra le righe fosse passato il tempo – e con lui la vita, la disillusione, la consapevolezza.
Nel 1982, Tondelli scrive da dentro il fuoco: l’esperienza della naja è ancora viva, la lingua è tesa, sporca, a tratti brutale. I corpi dei commilitoni sono osservati con desiderio, a volte con feticismo dichiarato: l’odore della pelle, i pettorali nudi nella camerata, il languore del sonno condiviso. Il protagonista non censura nulla: guarda, desidera, scrive. La scrittura vibra, si contamina, non si difende.
Nel 1991, invece, l’autore è cambiato. Rilegge il testo, lo ripulisce, lo rimonta. Alcuni passaggi vengono smorzati, altri silenziati. La lingua si fa più sobria, meno esplosiva. La sensualità rimane, ma è sfumata, si nasconde tra le pieghe di un aggettivo, tra le pause. Non è un atto di codardia: è una scelta. Tondelli non ha più bisogno di gridare. Scrive per lasciare traccia, non per rivendicare. La distanza tra le due versioni non è solo linguistica: è esistenziale.
Com’era stato accolto “Pao Pao”? E come lo leggiamo oggi?
Alla sua uscita, Pao Pao venne accolto con freddezza. Dopo l’esplosione di Altri libertini, molti si aspettavano un seguito altrettanto dirompente. E invece Tondelli portava il lettore dentro una caserma, tra fucili e camerate, parlava di disciplina, di gerarchia, di maschi chiusi con altri maschi. Un ambiente che puzzava di sudore e di silenzi. Per qualcuno era una scelta minore, una deviazione. Per altri, semplicemente, era troppo.
Ma col tempo le cose sono cambiate. Pao Pao ha iniziato a essere riletto, riscoperto, soprattutto nel mondo accademico e nei contesti queer. Quel che allora pareva un romanzo sulla leva, oggi appare come una delle rare esplorazioni italiane del desiderio maschile nei luoghi del maschile istituzionalizzato. Un libro che non ha paura di mostrarsi fragile, né di insinuare che anche dietro l’uniforme possa nascondersi un cuore che pulsa in un altro modo.
Critici come Giovanni Dall’Orto, Gian Carlo Ferretti e più recentemente Luca Baldoni, hanno restituito al libro il suo peso, il suo spazio: non tanto come romanzo militare, ma come romanzo del corpo. Corpo desiderato, corpo negato, corpo che non può parlare, ma che scrive.
Una genealogia queer: da Mario Mieli a Testori
Anche se Tondelli non è mai stato un autore militante, Pao Pao si inserisce con forza nel panorama dei testi queer italiani. Non è un pamphlet, non è un manifesto, ma è un racconto liminale, in cui l’identità si svela tra le righe, tra una battuta da caserma e una lettera non spedita.
La risonanza con Elementi di critica omosessuale di Mario Mieli è sotterranea ma presente: entrambi i testi aprono squarci su un altro modo di essere uomo, un altro modo di desiderare. E se Il corpo di Angelo Pezzana è una testimonianza dichiaratamente politica, Pao Pao è una confessione travestita, che parla proprio perché non si dichiara.
Si potrebbe avvicinare anche a Porci con le ali di Lidia Ravera e Marco Lombardo Radice: se là il desiderio giovanile sfida le convenzioni della borghesia romana, qui lo fa tra le mura della disciplina militare. Sono due sguardi diversi, ma complementari: entrambi parlano di corpi che cercano voce.
E sullo sfondo, quasi in controcanto, si può intravedere anche Giovanni Testori – soprattutto nella sua scrittura più carnale, più scandalosa. In fondo, anche Testori ha raccontato il corpo maschile come campo di battaglia tra sacro e profano. Tondelli lo fa con più pudore, ma con la stessa intensità.
Tra America e caserme italiane: “Pao Pao” nella costellazione queer internazionale
Se allarghiamo lo sguardo oltre l’Italia, Pao Pao trova una sorprendente consonanza con certi testi nordamericani che, tra gli anni Settanta e Ottanta, raccontavano il desiderio omosessuale con un’urgenza simile, ma in contesti radicalmente diversi. È come se la voce di Tondelli dialogasse a distanza con autori come Edmund White, John Rechy, e più tardi anche con Dennis Cooper: scrittori che hanno attraversato il desiderio maschile non solo come esperienza erotica, ma come forma di conoscenza, di frizione con la realtà, e a volte di salvezza.
Con Edmund White, in particolare, esiste una parentela di sguardo. Il suo A Boy’s Own Story (1982), uscito lo stesso anno di Pao Pao, è un romanzo di formazione dove il desiderio è raccontato con tenerezza e inquietudine, tra sogni, vergogne, e un senso costante di distanza. Come Tondelli, White evita il melodramma e preferisce l’ambiguità: la scoperta di sé passa attraverso piccole umiliazioni, occhiate rubate, incontri mancati. Entrambi gli autori hanno la grazia di raccontare l’indicibile senza alzare la voce, e soprattutto senza moralismi.
Con John Rechy, invece, Tondelli ha in comune il corpo in primo piano. Se City of Night (1963) racconta il mondo dei prostituti maschi in un’America febbrile e marginale, Pao Pao ne restituisce un’eco più chiusa e disciplinata: la caserma al posto del marciapiede, la camerata al posto del motel. Ma in entrambi i casi, il desiderio passa per l’osservazione, per il linguaggio del corpo, per quella lingua sporca che non chiede permesso. Rechy è più dichiaratamente crudo, Tondelli più trattenuto – ma entrambi lavorano su una scrittura che non può fare a meno del corpo.
E non è un caso che anche Dennis Cooper, più tardi, costruirà romanzi in cui la fascinazione per la violenza, la tenerezza e la distruzione diventa ossessione. Tondelli non arriverà mai a quell’estremo, ma in Pao Pao si intravede già l’ambiguità della tenerezza maschile: una carezza data per gioco, che forse voleva essere qualcosa di più; una notte in cui i corpi dormono vicini, e basta un respiro per immaginare l’impossibile.
Una letteratura che non grida
Quello che accomuna questi autori – White, Rechy, Tondelli – è il rifiuto della retorica e l’attenzione per l’intimo. Nessuno di loro scrive per rappresentare un “noi” collettivo: scrivono piuttosto per salvare un io che non riesce a dirsi ad alta voce. Pao Pao, in questo senso, è un libro profondamente queer proprio perché non si dichiara tale: lo è nei silenzi, nelle sfumature, nei gesti mancati. Non cerca di convincere, non vuole affermare identità. Semplicemente, esiste.
E in questa esistenza laterale, dolorosa e bellissima, si trova la sua forza. Una forza che oggi, rileggendolo alla luce delle scritture queer internazionali, non solo regge il confronto, ma si mostra come una delle voci più autentiche e complesse di quella stagione.
L’intimità spezzata: “Pao Pao” accanto a Hervé Guibert e Tony Duvert
C’è un filo sottile ma tenace che lega Pao Pao alla scrittura di Hervé Guibert: non tanto per i temi – Guibert è ossessionato dalla malattia, dalla morte, dalla fotografia – quanto per la postura. Entrambi gli autori scrivono con un senso di urgenza trattenuta, come se ogni pagina fosse una confidenza sussurrata a un interlocutore invisibile, o un diario che potrebbe essere letto da chi non dovrebbe. In À l’ami qui ne m’a pas sauvé la vie (1990), Guibert porta il lettore dentro una vita marcata dall’AIDS, ma lo fa con una lingua che è insieme affilata e tenerissima, come se la fragilità fosse l’unico modo onesto di esistere.
Anche Pao Pao, pur in un contesto molto diverso, ha questo sguardo che spoglia senza umiliare. Tondelli non cerca mai l’effetto, non ostenta nulla: la bellezza di un corpo addormentato, l’ansia prima della licenza, la malinconia di una lettera rimasta nel cassetto – tutto è raccontato con una leggerezza apparente, che in realtà è un’estrema cura del pudore. È una scrittura che sa cosa vuol dire non poter dire, e proprio per questo diventa più forte.
Con Tony Duvert, invece, il confronto è più scabroso – e più spiazzante. Duvert, in libri come Le bon sexe illustré (1974) o Journal d’un innocent (1976), mette in discussione ogni norma, ogni morale, ogni forma di educazione sessuale imposta dalla società. La sua scrittura è una provocazione costante, uno scandalo lucido e programmatico. Non si limita a raccontare il desiderio: lo scardina, lo rende ideologia, lo trasforma in filosofia.
Tondelli non condivide né i toni né gli eccessi di Duvert – eppure, in Pao Pao, si sente un eco sotterraneo: l’idea che il desiderio maschile possa esistere anche in ambienti ostili, che la tenerezza tra uomini non debba essere codificata, né necessariamente erotizzata, ma riconosciuta come possibilità reale. Dove Duvert attacca frontalmente il sistema, Tondelli lo scava da dentro. Non lo contesta apertamente, ma lo incrina con lo sguardo.
In fondo, entrambi praticano un certo tipo di autonomia: quella dello scrivere per dire ciò che altrove non si può dire. Solo che Duvert lo fa attraverso il fuoco teorico, Guibert con l’autofinzione acuminata, e Tondelli attraverso una forma più narrativa, quasi dimessa, ma proprio per questo più accessibile, più pericolosa, più duratura.
Scrivere da dove si è
Forse la lezione che accomuna tutti e tre questi autori – Tondelli, Guibert, Duvert – è che il desiderio non si scrive mai “da fuori”. Lo si scrive da dentro: dalla camerata, dal letto d’ospedale, da una periferia interiore. E che ogni parola – che sia lieve o feroce – è sempre un tentativo di resistere all’oblio, di restare nella vita anche quando tutto intorno sembra ostile.
Tondelli non è un rivoluzionario visibile. Ma ha fatto qualcosa di altrettanto necessario: ha reso visibile, con grazia e ostinazione, una parte del desiderio che per molto tempo è stata tenuta ai margini. Leggerlo oggi, accanto a Guibert e Duvert, significa restituirgli non solo la sua forza narrativa, ma anche la sua radicalità sommessa. Un radicalismo che non urla, ma che resta.
Procediamo allora ad ampliare la costellazione queer e militante attorno a Pao Pao, intrecciando la voce di Tondelli con quelle di tre figure cruciali del Novecento: Fassbinder, Mishima e Genet. Ognuno di loro – con la propria lingua, il proprio corpo, le proprie contraddizioni – incarna una modalità irripetibile di scrivere dal margine, contro le attese, nel cuore stesso della frattura tra desiderio e potere. Il legame con Tondelli può sembrare, a tratti, indiretto. Ma è proprio nell’asimmetria che si gioca il dialogo.
Il corpo come dispositivo politico: Genet, Mishima, Fassbinder, Tondelli
Genet è il più dichiaratamente sovversivo dei quattro. Scrittore, ladro, sovversivo per vocazione, e al tempo stesso poeta sublime della sconfitta, ha costruito la sua opera come un tempio dedicato agli esclusi. In Notre-Dame-des-Fleurs, i corpi dei delinquenti diventano epifanie sacre; il tradimento, la marginalità, l’oscenità, si fanno liturgia. Tondelli non arriva mai a tanto. Eppure in Pao Pao, nei momenti di osservazione silenziosa dei corpi dei commilitoni, in certe sospensioni del racconto dove il tempo si fa denso e ambivalente, qualcosa di Genet passa – depurato, silenziato, ma vivo. Non c’è il carcere, ma c’è la caserma. Non c’è il crimine, ma c’è la devianza quotidiana dell’essere “diverso” in un luogo che vuole solo normalizzazione.
Mishima, al contrario, è l’esteta guerriero, l’ossessionato dal corpo e dalla forma, tanto da trasformare la propria esistenza in un’opera d’arte assoluta e mortale. In lui, la tensione omoerotica si sublima nel culto della disciplina, della forza, della bellezza fisica, in un’operazione estetica estrema che culmina nel suicidio rituale. In Confessioni di una maschera, il giovane protagonista si scopre omosessuale guardando l’immagine di San Sebastiano trafitto – e da quel momento il desiderio diventa messa in scena, finzione, maschera appunto. Anche Pao Pao è pieno di maschere: la mimetica militare, la virilità ostentata, l’obbedienza coatta. Tondelli però non rompe il gioco come Mishima: lo guarda da dentro, con una dolcezza che smonta l’ideologia. Non lancia il coltello, ma ne mostra il riflesso.
Con Fassbinder, il dialogo si fa più sotterraneo ma potentissimo. Il regista tedesco ha fatto dell’amore una lotta di classe e del corpo un campo di battaglia. Nei suoi film, gli uomini si amano tra crudeltà e dipendenza, senza redenzione. Querelle de Brest, tratto da Genet, è forse il punto di contatto più evidente, ma in realtà è Un anno con 13 lune o Il diritto del più forte che evocano davvero l’atmosfera di Pao Pao: quell’oscillazione continua tra bisogno d’amore e bisogno di potere, tra attrazione e subordinazione, tra forza apparente e fragilità profonda. Come Fassbinder, anche Tondelli racconta maschi che si osservano senza sapersi dire. E anche in lui la tenerezza arriva quando è troppo tardi.
Il margine come laboratorio del possibile
Tutti e quattro, in modi diversi, fanno dell’esperienza queer non un semplice tema, ma una chiave per capire il mondo. In Tondelli, questo avviene con toni meno iconoclasti – non c’è mai provocazione gratuita, né compiacimento. Ma proprio per questo, Pao Pao diventa un documento ancora più rivelatore: perché mostra che la resistenza non è sempre un grido. A volte è un gesto mancato, una lettera non spedita, una voce che scrive da dentro la struttura che avrebbe voluto spegnere ogni desiderio.
Pao Pao si muove nella zona grigia tra appartenenza e alterità. È meno viscerale di Genet, meno tragico di Mishima, meno brutale di Fassbinder – ma non per questo meno profondo. È un libro che cerca, nel linguaggio e nella forma, una via per raccontare ciò che non poteva essere detto a voce alta. Un libro che non ha bisogno di simboli espliciti, perché ogni pagina è già un atto di sovversione poetica.
Entriamo allora nel vivo di un nuovo segmento: l’influenza di Tondelli – e in particolare di Pao Pao – sulla narrativa gay e sull’autofiction italiana dei primi anni Duemila. Un’influenza che non si è mai data in modo lineare, né sistematico, ma che ha agito per correnti sotterranee, affiorando in forme ibride, spesso apparentemente “disinnescate”, ma sempre in dialogo con il suo lascito.
La lingua queer dopo Tondelli: 2000-2010
All’inizio degli anni Duemila, Tondelli era già diventato “mito”. Non tanto un autore da leggere – quanto un’icona da interpretare. Il suo nome circolava più come figura-simbolo che come oggetto critico. Ma sotto la superficie, la sua presenza si avvertiva nitidamente nella voce, nel tono, nella postura di molti giovani autori che, nel suo segno, hanno trovato lo spazio per parlare in prima persona di un’identità sessuale non conforme, senza doversi rifugiare in codici criptici o allusioni opache.
Uno dei primi a raccogliere quel testimone è stato Aldo Busi, anche se con un tono del tutto antitetico: il suo narcisismo verbale, la sua lingua affilata e provocatoria, sembrano all’opposto della scrittura tondeggiante e affettuosa di Tondelli. Ma entrambi hanno spinto il linguaggio italiano a un confronto esplicito col desiderio omoerotico, pur venendo da angolature opposte: Busi in modo isterico, centrifugo; Tondelli con una malinconica precisione.
Tra le generazioni più giovani, invece, è con Giuseppe Boy, Giuliano Brenna, Massimo Cuomo, e persino con alcuni racconti di Walter Siti che la lezione tondelliana comincia a filtrare davvero. Non come stile – ma come etica dello sguardo. La voglia di narrare il proprio desiderio senza mediazioni, ma anche senza proclami, prende forma in storie intime, spesso marginali, in cui il sesso è narrato come quotidianità, e non come trasgressione.
In questi anni cresce anche una forma di autofiction queer italiana che non cerca più l’emancipazione nel modello americano o francese, ma dentro la lingua italiana stessa, nei suoi silenzi, nelle sue ambiguità. L’insegnamento di Pao Pao, in questo senso, è fondamentale: Tondelli ha mostrato che si può parlare d’amore tra uomini dentro la grammatica affettiva italiana, senza doversi rifugiare in un’esterofilia culturale o in un codice criptato.
Tondelli postumo: un fantasma gentile
La vera eredità di Pao Pao – e di Tondelli più in generale – non è stata raccolta sul piano tematico, ma su quello tonale. Alcuni autori che sembrano lontanissimi da lui (si pensi a Andrea Bajani, Alessandro Bertante, Lorenzo Mazzoni, persino Nicola Lagioia nei suoi esordi) condividono con lui l’idea che la scrittura debba sempre rendere conto di un corpo che sente, anche quando non lo nomina. Il corpo è sempre lì, come centro gravitazionale del discorso.
La lezione di Pao Pao si riflette anche nella costruzione di una maschilità vulnerabile, anti-eroica, che si oppone tanto al machismo reazionario quanto alla retorica della performatività queer più recente. I personaggi di Tondelli sono sospesi, fragili, spesso in ritardo. E proprio per questo – e qui sta il punto – profondamente politici.
Negli anni successivi, questa vulnerabilità si troverà in forme diversissime: nel diario amoroso e lisergico di Nico Naldini, nei romanzi-saggio di Tiziano Scarpa, nelle prose poetiche di Tommaso Giartosio e Andrea Pini, nelle esplorazioni dissociative di Andrea Inglese. Ma ogni volta, come sottofondo, si sente un’eco: la voce sommessa di Pao Pao, che ha osato entrare nella caserma con una penna da confessione.
L’approccio di Tondelli in Pao Pao ha anticipato alcune delle principali estetiche dell’intimità fluida che si sono sviluppate nella letteratura LGBTQ+ europea contemporanea. L’opera di Tondelli si colloca in un momento storico in cui la rappresentazione del desiderio e dell’identità sessuale comincia a prendere forme più sottili, lontane dalla rigidità delle definizioni tradizionali, in un contesto di forte sperimentazione letteraria e sociale. L’intimità in Pao Pao è contrassegnata da una fluidità emotiva e sessuale che, purtroppo, è spesso letta in modo marginale rispetto alla narrativa dominante.
Intimità fluida e molteplicità di soggetti
La fluidità del desiderio in Pao Pao è una delle caratteristiche principali che lo avvicina alle estetiche moderne della letteratura LGBTQ+. Nel libro di Tondelli, il desiderio non si incarna mai in un modello stabile o univoco. Esso è in continua trasformazione, sfuggevole, a metà strada tra la tenerezza e la violenza, tra la necessità di appartenenza e l’isolamento. In questo modo, Pao Pao si differenzia dalla tradizionale rappresentazione del desiderio omoerotico, che spesso è legato alla definizione di "identità" chiara e codificata.
Nel contesto della letteratura LGBTQ+ europea contemporanea, in particolare con l'emergere della queer theory negli anni Duemila, questa molteplicità di soggetti e la resistenza alle etichette ha trovato un fertile terreno di esplorazione. Scrittori come Hélène Cixous, Jeanette Winterson, Sarah Waters e Edmund White hanno sfidato le definizioni rigide dell’identità sessuale, lavorando con le sfumature di desiderio, sentimento e identità che sono costantemente in mutamento, proprio come in Pao Pao.
Tondelli non fa mai del suo protagonista un personaggio facilmente definibile. L'intimità tra i giovani soldati non è mai monolitica; è sfocata, sospesa, abitata da gesti che non si traducono mai in una piena “presa di possesso” del corpo o dell’anima. La fluidità di questo desiderio, che non trova una sua forma definitiva, rispecchia le estetiche queer che sfidano la rigida divisione tra i sessi, tra "maschile" e "femminile", tra eterosessualità e omosessualità.
La non appartenenza e il desiderio di sfumare
Una delle caratteristiche distintive della letteratura LGBTQ+ contemporanea è proprio il superamento della dicotomia “essere fuori o dentro” rispetto alla norma. L’approccio fluidamente dissidente di Tondelli si inserisce bene in questa cornice: il suo protagonista si trova costantemente tra due mondi, quello della caserma e quello del suo desiderio, senza mai potersi dichiarare completamente parte dell’uno o dell’altro. Il desiderio in Pao Pao non si inscrive in una narrativa di "autoaffermazione" dell’identità sessuale, ma in un’esperienza di non appartenenza che crea uno spazio per l’indefinito.
Questa stessa estetica si riflette in autori contemporanei come Tony Duvert o David Leavitt, che hanno trattato il tema del "desiderio errante", che non ha confini né una forma stabilita. Anche Ali Smith, Eileen Myles o Daria Bignardi sviluppano nelle loro opere una concezione di intimità che sfuma tra i generi, i corpi, e i tempi. La scrittura di Tondelli, seppur più ancorata al contesto militare e italiano degli anni '80, sembra anticipare il movimento verso una rappresentazione fluida del desiderio, lontana dalle definizioni nette di identità.
L’eros e la “solitudine del corpo”
L’idea di un “corpo solitario” che vive l’eros in modo frammentato è un’altra tematica che lega Pao Pao alla narrativa queer contemporanea. In Tondelli, il corpo non è mai davvero un “oggetto di conquista”. È più spesso il terreno di un'eros che non si realizza pienamente, ma che si vive attraverso il corpo stesso: il corpo è solo il punto di partenza per raccontare qualcosa che è sempre un po' lontano da sé. Questa visione del corpo come “solitario” e non definibile anticipa quella che è la tendenza di molti autori e autrici contemporanei a esplorare una sessualità che non è più centrata sull’incontro, ma sulla continuità della ricerca.
Autori come Chris Kraus e Dennis Cooper, ad esempio, nel loro approccio più crudo alla sessualità, rifiutano una narrativa romantica o eroica, preferendo raccontare le singole, solitarie esperienze del corpo. Sebbene questi autori possano sembrare più estremi nella loro espressione, la loro esplorazione di un corpo che esiste al di fuori delle logiche di normalità e di appartenenza è un'estensione del mondo di Pao Pao, dove il desiderio è per lo più un atto interiore, inafferrabile, e non sancito dalla società.
Un’eredità sottile, ma potente
In definitiva, l’influenza di Pao Pao si trova nel modo in cui ha articolato una scrittura del desiderio che non ha paura di sfiorare, senza mai arrivare a una conclusione definitiva. Questo approccio di sfumatura, di attesa, di incertezza, si è radicato nel panorama LGBTQ+ europeo, dove le storie di corpi erranti, non appartenenti, instabili e mai completamente risolti, sono divenute centrali.
Tondelli, in fondo, ha dato un linguaggio a una generazione che non chiedeva di essere "normale", ma che cercava la possibilità di esistere in una zona grigia, dove il desiderio non fosse mai completamente definito, ma sempre fluttuante e vivo.
L'influenza di Tondelli su opere più recenti, sia letterarie che visive, si manifesta in vari modi, ma uno dei più interessanti è proprio il modo in cui la sua narrazione intima e fluida del desiderio, unita alla sua scrittura non categorizzata, ha trovato terreno fertile nelle produzioni culturali contemporanee. La sua attenzione al corpo, alla solitudine erotica, alla tensione tra appartenenza e isolamento, ha anticipato molte delle dinamiche che oggi sono al centro di narrazioni queer, non solo nella letteratura, ma anche nel cinema e nelle serie TV.
L'influenza di Tondelli nella narrativa contemporanea
In letteratura, l'eredità di Tondelli si è incarnata in una generazione di scrittori che, senza abbracciare completamente il suo stile, hanno ripreso le sue intuizioni sul desiderio non definito e sull'intimità fluida. Autori come Niccolò Ammaniti, Giovanni Montanaro, Federico Baccomo e Alessandro Raveggi sembrano portare avanti l’eco della scrittura di Tondelli, affrontando tematiche di appartenenza, di ricerca identitaria e di desiderio nell'era postmoderna. In questi autori, si ritrova la stessa fragilità dell'individuo che Tondelli raccontava, ma con una narrazione che riflette il senso di dislocazione del nostro tempo, fatto di continui spostamenti e incertezze.
La narrativa autofiction contemporanea, sempre più diffusa in Italia, riprende i temi tondelliani, ma con uno sguardo rivolto a una sessualità che spesso non si esprime in termini di riconoscimento sociale. Autori come Nicola Lagioia, Andrea Pini e Vincenzo Latronico esplorano nelle loro opere temi di intimità e fragilità, creando racconti che mettono in discussione non solo l'identità, ma anche il linguaggio stesso con cui le identità vengono espresse. Come Tondelli, questi scrittori non cercano mai un incontro totale e definitivo con il desiderio, ma piuttosto raccontano una serie di tentativi falliti, di atti mancati, che fanno emergere la bellezza dell’eros nella sua incompletezza.
Cinema e Serie TV: la fluidità del corpo e dell’intimità
Nel cinema e nelle serie TV, l’influenza di Tondelli si riflette principalmente nel modo in cui l’intimità queer è raccontata non più come una sfida o una trasgressione, ma come una parte naturale della vita quotidiana, spesso con accenti di malinconia o solitudine. Se prima l’identità omosessuale era presentata attraverso una narrazione di lotta o emancipazione, oggi si cerca di raccontarla come un’esperienza più complessa, ma anche più tranquilla, meno urlata. Un esempio significativo è il film "Call Me by Your Name" (2017), diretto da Luca Guadagnino, che sembra voler rispecchiare quell'intimità inafferrabile che Tondelli aveva raccontato nei suoi libri. La relazione tra Elio e Oliver è sospesa, come quella dei personaggi di Pao Pao, in un'atmosfera di attesa e desiderio, senza che vi sia mai una chiusura definitiva o una categorizzazione di quel legame. Il corpo non è protagonista di un’ossessione sessuale, ma di un’inevitabile e struggente evoluzione affettiva.
In ambito televisivo, la serie "Euphoria" (2019), creata da Sam Levinson, è un altro esempio significativo di come il desiderio e l'intimità queer vengano trattati in maniera fluida e aperta. I personaggi della serie, tra cui Rue (interpretata da Zendaya) e Jules, vivono esperienze di sessualità non definite, in una continua oscillazione tra identità, corpi e desideri. Come in Pao Pao, l’esplorazione del corpo e della sua sessualità non è mai chiusa o netta, ma in costante trasformazione, non facilmente etichettabile.
Anche nella serie "Pose" (2018-2021), che racconta la vita di una comunità trans e queer a New York negli anni '80, l'intimità fluida viene esplorata, pur in un contesto molto diverso rispetto a Tondelli. Tuttavia, proprio come nei suoi romanzi, c’è una costante attenzione al corpo come luogo di espressione e di lotta, ma anche di bellezza effimera e tragica. I personaggi di Pose vivono la loro sessualità come un atto di resistenza, ma anche di transizione continua, come se il corpo fosse sempre un “lavoro in corso”, mai definito e mai completamente accettato.
Il corpo, il desiderio e la dislocazione nell’immagine visiva
Nel cinema e nelle serie TV, la rappresentazione del corpo queer si sta trasformando in qualcosa di sempre più fluido e dislocato. L'influenza di Tondelli si avverte nella tendenza ad esplorare la sessualità non come una fase da completare, ma come un viaggio, un’area grigia in cui si può perdersi, ma anche trovare se stessi. Il corpo, come nel cinema di Luca Guadagnino o nei lavori di Francesco Munzi, diventa il luogo di una costante metamorfosi.
Il corpo stesso, nella cinematografia queer contemporanea, non è più visto come un'entità fissa, ma come uno spazio in cui il desiderio può fluttuare senza essere necessariamente concluso, come una storia che rimane sempre sospesa. Questi elementi visivi richiamano direttamente le atmosfere di Pao Pao, in cui il desiderio, pur essendo estremo, non si risolve mai, ma continua a suggerire una possibilità che non si concretizza mai completamente.
In conclusione, l'influenza di Tondelli è oggi viva nelle narrazioni che trattano la sessualità come un flusso, un movimento che non trova mai una risoluzione definitiva, ma che si fa esperienza costante, dolce e dolorosa insieme. In letteratura, cinema e serie TV, si continua a scrivere e raccontare i corpi queer attraverso una lente che non si limita a celebrare il desiderio come un’affermazione, ma lo esplora come una condizione di dislocazione, un corpo che cerca senza mai trovare, che ama senza mai riuscire a concretizzarsi pienamente. Il corpo di Tondelli rimane così, nel panorama culturale contemporaneo, il corpo di tutti noi, sfuggente e indomabile.