C’è un’umanità intera che si riversa ogni giorno negli spazi pubblici digitali, come un grande fiume che porta con sé emozioni, frustrazioni, piccole verità quotidiane. È un fenomeno curioso, quasi poetico e tenero nella sua confusione: ciascuno cerca un varco per raccontarsi, per lasciare un segno, per dire al mondo “ci sono anch’io”.
Magari anche solo aggiungendo commenti in post altrui.
In questo affollarsi di voci non c’è solo rabbia — c’è un bisogno profondo di essere riconosciuti, ascoltati, forse anche scusati per la propria vulnerabilità.
Li incrociamo ovunque: nei social dove ogni parola lanciata è come una piccola tensione invisibile. Sono figure comuni, ma dietro quella normalità si nasconde una trama complessa: il desiderio di contare qualcosa, di avere una voce che valga, di non passare inosservati.
Le parole che riversano nei commenti non sono sempre dolci, ma raramente nascono dal male. Piuttosto, vengono da una mancanza che non ha trovato spazio altrove. È come se tutti, in un modo o nell’altro, avessimo accumulato troppa vita dentro — pensieri, delusioni, paure — e ora cercassimo un punto di sfogo. Non è tanto un voler “sfogarsi contro”, quanto un voler “liberarsi da”.
A volte è commovente, se lo si guarda da vicino. Quelle persone che scrivono con tono brusco, che parlano con un’aria amara, spesso non stanno cercando di ferire: stanno tentando di capire come mostrarsi. Stanno cercando un linguaggio che dia forma al proprio essere. Forse per questo i social diventano, senza volerlo, spazi di confessione. Ogni post, ogni battuta, ogni sguardo incrociato è un modo per dire: “mi sentite?”.
Lo faccio anch'io. Non mi stupisce nemmeno più.
E non c’è nulla di male in questo. Fa parte della condizione umana. È il segno di un’epoca in cui la comunicazione ha sostituito l’intimità, ma dove, in fondo, la voglia di contatto resta la stessa. Forse non serve giudicarli — né chiamarli rancorosi, né invitarli al silenzio. Forse basta imparare ad ascoltare meglio. Dietro le parole più aspre si nasconde spesso la stessa paura che abbiamo tutti: quella di non essere più ascoltati per davvero.
E così: a volte li evitiamo, altre volte li capiamo, perché in fondo, quel bisogno di dire qualcosa, di dire qualcosa a qualcuno, appartiene un po' a tutti.