martedì 14 ottobre 2025

Mark Rothko: vita, arte, filosofia e misticismo

Mark Rothko (1903–1970), nato Marcus Rothkowitz a Dvinsk — all’epoca parte dell’Impero Russo, oggi Daugavpils in Lettonia — non è soltanto un artista del Novecento: è una soglia. La soglia tra il visibile e l’invisibile, tra il corpo e lo spirito, tra il colore e il silenzio. La sua pittura non si lascia contenere da una definizione, non si presta a didascalie. Non è mai una questione di stile, ma di stato dell’anima. L’intera parabola di Rothko attraversa la storia americana e insieme la travalica, perché si colloca fuori dal tempo: è un’epopea solitaria, un corpo a corpo con l’essenza dell’esistere, con l’ombra e con la luce.

Emigrato negli Stati Uniti con la famiglia a dieci anni, Rothko cresce a Portland, Oregon, in un ambiente laico, ebraico, cosmopolita. Ma la sua formazione non è quella di un artista accademico: studia psicologia, filosofia, mitologia. Resta affascinato da Nietzsche, da Jung, da Shakespeare e dai tragici greci. L’arte, per lui, è subito esperienza mentale e spirituale: non la riproduzione di un oggetto, ma un varco, un rituale, una soglia d'accesso al non-detto. E questa visione lo accompagnerà fino alla fine.

Nei primi anni à New York, negli anni Venti e Trenta, Rothko frequenta ambienti d’avanguardia e stringe rapporti con artisti e intellettuali che lo stimolano, ma resta sempre profondamente individuale nella sua ricerca. Inizia dipingendo soggetti urbani, figure stilizzate, influenzate dalla pittura espressionista europea, da Munch, da Rouault, da Picasso. Ma già nei suoi primi lavori è evidente un disagio, un senso di inquietudine: le figure sembrano isolate, sospese, schiacciate da un’atmosfera pesante, quasi teatrale.

Negli anni Quaranta si avvicina al surrealismo e alle suggestioni simboliche di Miró e di Matta. Legge Joseph Campbell e Frazer, e il suo immaginario si popola di archetipi, di divinità dimenticate, di forme mitologiche. Questa fase, detta "mitologica", è fondamentale: Rothko non vuole semplicemente esplorare il subconscio, vuole rappresentare l’atto originario della creazione, il dramma dell’esistenza, la lacerazione tra il sacro e il profano. Dipinge totem, ibridi, organismi fluttuanti. Eppure, sente che il linguaggio è ancora troppo legato all’oggetto.

Verso la metà degli anni Quaranta, Rothko compie una svolta. Inizia a eliminare ogni riferimento figurativo e approda a una forma sempre più rarefatta. Nascosta dietro questa astrazione c'è una visione quasi religiosa: lo spazio pittorico diventa uno spazio mentale, l’opera non più rappresentazione ma presenza. Nasce così quello che verrà chiamato erroneamente il "Rothko style": grandi tele verticali, campiture rettangolari fluttuanti, bordi sfumati, cromie che si attraggono o si respingono, creando un campo di tensione pura.

Ma Rothko non sopportava l’idea che il suo lavoro fosse classificato. “L’arte astratta? È un termine troppo comodo. Io non sono un astrattista. Io non dipingo forme. Io dipingo emozioni fondamentali.” E quando parlava di emozioni, intendeva esperienze radicali: la morte, l’estasi, la disperazione, la solitudine. Ogni suo quadro è un corpo vivente, un respiro, un’attesa. Guardarlo significa entrare in uno spazio meditativo, abbandonare la logica e lasciarsi portare dentro una zona di vibrazione silenziosa.

La tecnica pittorica di Rothko è sottile, raffinata, quasi ascetica. Applica strati e strati di colore diluito, che si compenetrano tra loro, dando alla tela una profondità vibrante. I contorni non sono netti: i rettangoli sembrano emergere e sparire, come apparizioni. Il colore non è più solo veicolo di forma, ma sostanza autonoma, spirituale. Le opere migliori della sua maturità sono quelle dove il colore respira, pulsa, si fa epifania. Il rosso, l’arancio, il viola, il nero diventano stati d’animo, emozioni incarnate, tracce dell’invisibile.

Negli anni Cinquanta Rothko ottiene successo, mostre importanti, collezionisti prestigiosi. Ma rifiuta il mercato, rifiuta il sistema. Il celebre episodio della commissione per il ristorante Four Seasons, a New York, è rivelatore: Rothko accetta l’incarico, dipinge una serie di tele nere e cupe, e poi si rifiuta di consegnarle, perché capisce che sarebbero diventate oggetto di consumo estetico. L’arte, per lui, non è arredamento, ma atto sacro. Quei dipinti, anni dopo, andranno alla Tate di Londra: sono oggi tra le sue opere più intense.

Il vertice di questa tensione tra spiritualità e materia è la Rothko Chapel, voluta dai mecenati de Menil a Houston. È un edificio ottagonale, privo di decorazioni, senza finestre, progettato per ospitare quattordici tele monocrome. Qui Rothko lavora con una dedizione totale: ogni tela è un monolite, un’icona tragica, un frammento di notte. Le superfici sono scurissime, marroni, nere, plumbee. Nella cappella non si prega, non si celebra nulla: si ascolta il silenzio. È una stanza mistica, dove l’arte diventa meditazione. Un tempio laico, un mausoleo del pensiero.

Ma la sua vicenda personale si fa sempre più cupa. Rothko è malato di cuore, assume barbiturici, beve, è depresso. Si sente intrappolato nella fama, schiacciato dal peso della propria missione. I quadri si fanno sempre più scuri, più densi, come se la luce si ritirasse. Il nero avanza, il silenzio si fa abisso. L’ultima fase della sua opera è dominata da queste grandi superfici notturne, che sembrano muraglie di buio. Poi, il 25 febbraio 1970, Rothko si suicida nel suo studio, tagliandosi le vene davanti a una tela nera.

Eppure, anche in questo gesto estremo, non c'è solo disperazione. C'è coerenza. La sua vita è stata una lunga meditazione sull’assenza, sull’invisibile, sull’oltre. Non ha mai cercato il consenso, ma la verità. E l’ha cercata nel modo più spoglio, più radicale, più silenzioso. Oggi i suoi quadri sono esposti nei maggiori musei del mondo, ma restano luoghi da abitare in solitudine. Chi vi entra, sa che non sta guardando un dipinto: sta varcando una soglia.



MARK ROTHKO: IL COLORE COME ABISSO — FILOSOFIA, MISTICISMO E DIALOGHI MUTI CON NEWMAN, STILL, POLLOCK

Dietro la maestosa immobilità dei rettangoli fluttuanti di Rothko si nasconde una delle più appassionate battaglie spirituali dell’arte del Novecento. Non si tratta semplicemente di pittura astratta, né di una ricerca formale sull’equilibrio cromatico. Rothko è un filosofo tragico, un mistico laico, un artista della soglia che dipinge non tanto ciò che si vede, ma ciò che si avverte sul limite dell’annientamento: silenzio, vertigine, commozione, orrore. Ogni sua tela è una forma di meditazione visiva sull’assoluto. Una teologia del colore senza Dio.


I. ROTHKO E LA FILOSOFIA: LA PITTURA COME TRAGEDIA ANTICA

Nato come Marcus Rothkowitz in Lettonia, emigrato negli Stati Uniti con la famiglia ebreo-russa, Rothko fu un lettore febbrile e profondamente autodidatta. La filosofia non fu mai per lui un territorio accademico, bensì una materia viva, incandescente. Tra i filosofi che più lo hanno influenzato spicca Friedrich Nietzsche. In particolare La nascita della tragedia (1872) lo colpisce come un urlo primordiale. Nietzsche vi descrive la tragedia greca come un’espressione estetica dell’equilibrio precario fra due forze cosmiche: l’apollineo, che rappresenta ordine, forma, misura, e il dionisiaco, ossia la vertigine dell’ebbrezza, la dissoluzione dell’io nei flussi dell’essere.

Rothko non si limita ad assorbire questa visione: la incarna. Le sue tele, nella loro apparente quiete, sono campi di tensione fra struttura e disgregazione. Il colore è un corpo che si dà e si ritrae. Il bordo dei suoi rettangoli non è mai netto, ma poroso, sfumato, incerto: come se la forma stesse evaporando. La tragedia nietzscheana è rievocata non come rappresentazione, ma come esperienza. Ogni dipinto è un pathosformel, una formula visuale di emozioni in lotta.

In età più matura, Rothko si immerge anche nel pensiero di Søren Kierkegaard e nel concetto di disperazione come condizione costitutiva dell’io umano. In La malattia mortale Kierkegaard scrive che l’essere umano è condannato a una forma di disperazione perché non riesce mai a coincidere pienamente con sé stesso. Questa lacerazione è presente in Rothko come dramma pittorico: il colore non colma mai completamente la tela, resta sempre un vuoto, un’ombra che sopravvive. Non si tratta di nichilismo, ma di una ontologia negativa del colore, un linguaggio dell’assenza.

Rothko stesso, in rare ma densissime dichiarazioni, rifiuta l’idea di “arte decorativa” e rivendica invece la vocazione dell’arte a scardinare, a turbare, a commuovere profondamente. Dice:

"Se si è solo mossi dal colore, si perde il punto. Io sono interessato solo a esprimere emozioni fondamentali: tragedia, estasi, destino."

La sua pittura diventa così un equivalente visivo di ciò che è stato il teatro greco per Nietzsche o il pensiero tragico per Kierkegaard: un modo di stare nel mondo senza schermi protettivi.


II. IL MISTICISMO DI ROTHKO: IL SUBLIME COME ABISSO INTERIORE

Benché Rothko si sia distaccato da ogni pratica religiosa ortodossa, la dimensione spirituale della sua arte è costitutiva. E non parliamo solo di un generico “trascendente”, ma di una vera teologia negativa del visibile. Le sue tele non rappresentano Dio, ma il suo ritiro; non affermano il sacro, ma lo evocano come mancanza, come eco, come assenza vertiginosa.

Rothko nasce ebreo, e in questo contesto va letta la sua sensibilità per la presenza che non si mostra. Nell’ebraismo non c’è rappresentazione di Dio. C’è la parola, la scrittura, l’attesa. E proprio la tensione tra ciò che è e ciò che sfugge per sempre alla visione sembra diventare in Rothko la grammatica base del suo fare artistico. Il colore è allora come il tetragramma — un nome che non può essere pronunciato, ma solo contemplato.

Ha un ruolo importante anche la lettura di Kandinsky e del suo Lo spirituale nell’arte, che nel primo Novecento aveva proposto un’arte non figurativa capace di “far risuonare l’anima”. Rothko eredita questa visione e la spinge all’estremo: toglie tutto, elimina segni, figure, tracce, fino a lasciare solo il puro campo cromatico, vibrante come una preghiera muta.

Negli ultimi anni, quando la sua tavolozza si fa più scura, quasi plumbea, e le forme si stringono in campi sempre più chiusi, è evidente un’ulteriore virata verso un’estetica del lutto. È la stagione che culmina nella Rothko Chapel a Houston: una stanza ottagonale, spoglia, con 14 grandi tele nere, progettata come luogo di silenzio, meditazione, raccoglimento. È un tempio senza dio. Non c’è icona, non c’è parola: solo la tenebra densa di un colore che sembra inghiottire lo sguardo e restituire nient’altro che la coscienza nuda.

Qui Rothko porta a compimento la sua “liturgia dell’assenza”. Come se dicesse: non serve credere in qualcosa per cercarlo con tutto il cuore.


III. ROTHKO E GLI ALTRI: INTIMITÀ, TENSIONI, ROTTURE NELL’ASTRATTISMO AMERICANO

Il contesto dell’Espressionismo Astratto a New York negli anni ’40 e ’50 è una costellazione di presenze magnetiche, egocentriche, spesso fragili. Rothko, pur partecipando alla scena, mantiene sempre una distanza. La sua relazione con Barnett Newman, Clyfford Still e Jackson Pollock è fatta di sintonie profonde ma anche di silenzi, di rispetto e diffidenza.

Con Barnett Newman:

È forse il più simile a Rothko in termini di intento. Newman è teorico, visionario, e conia l’espressione “sublime americano” per descrivere un’arte capace di generare una vertigine estatica. Il suo uso della linea verticale — il celebre zip — vuole essere un atto di separazione cosmica, un’apertura dello spazio. Rothko, che lavora per campi orizzontali, risponde in modo diverso: dove Newman taglia, Rothko avvolge.
Nonostante ciò, Rothko rifiuta di esporre accanto a lui nella Biennale di Venezia del 1958, ritenendo che la pittura di Newman sia troppo concettuale, troppo rigida. La loro visione del “sacro” non coincide: Rothko cerca la vibrazione psichica, Newman l’assoluto geometrico.

Con Clyfford Still:

Nel primo periodo newyorkese, Still è una figura fondamentale. Fu lui a convincere Rothko a lasciare ogni residuo figurativo e a esplorare l’astrazione come campo esistenziale. Tuttavia, la relazione si incrina quando Still radicalizza il proprio isolamento e accusa Rothko di “vendere l’anima” al sistema dell’arte. Still si ritira in Colorado, Rothko rimane a New York — ma sempre più stanco, insofferente, ostile alle logiche di mercato.
Tra i due resta un legame spirituale, anche se mai più un dialogo diretto.

Con Jackson Pollock:

La differenza è quasi iconografica. Pollock è l’eroe americano dell’action painting, il corpo che danza sopra la tela, il gesto primordiale. Rothko è il silenzio, il tempo sospeso, l’interno. Pollock è Dioniso posseduto, Rothko è Orfeo che guarda l’ombra.
Eppure si rispettano. Rothko ammira la forza visionaria di Pollock, ma teme la deriva “spettacolare” che Pollock incarna — soprattutto quando il successo commerciale lo fagocita. Dopo la morte di Pollock nel 1956, Rothko vive un ulteriore distacco: come se sentisse che l’arte americana rischia di diventare entertainment.


IV. L’OPERA COME RITUALE: CONTRO IL DECORATIVO, PER UN’ETICA DELLO SGUARDO

In uno degli episodi più celebri della sua carriera, Rothko accetta — e poi rifiuta con veemenza — la commissione per decorare il ristorante Four Seasons nel Seagram Building. Inizialmente accetta, ma ben presto, dopo aver visitato il luogo, ha un rigetto viscerale: capisce che i suoi dipinti sarebbero stati sfondo per cene borghesi, circondati da architetti e industriali.

"Ho accettato quella commissione con l’intento preciso di rovinare l’appetito a chi ci avrebbe mangiato..."
Dirà poi, ritirando i dipinti.

È una dichiarazione di guerra contro la pittura come arredamento, contro l’arte ridotta a status symbol. Per Rothko, il quadro non è qualcosa da “guardare”, ma da subire. L’esperienza del suo colore è come stare davanti a una parete funeraria che pulsa, come ascoltare una voce che non parla. È un’esperienza estetica ma anche etica: un invito a fermarsi, a non capire, a sentire.


IL COLORE CHE SUSSURRA DIO

Mark Rothko ha lasciato un’opera che è insieme monumentale e fragile, silenziosa e devastante. La sua ricerca non fu mai di stile, ma di verità interiore. Ogni dipinto è un corpo ferito che non mostra la ferita, ma la rende visibile attraverso l’invisibile.
Rothko non ha mai cercato una “scuola” o un “movimento”. Ha cercato un altare.
Un luogo dove lo spettatore possa entrare in contatto con le sue stesse zone d’ombra, non per uscirne migliore, ma semplicemente per riconoscersi.


L'influenza della teologia ebraica sul concetto di "assenza" nelle opere di Mark Rothko è profonda e fondamentale, costituendo un aspetto cruciale per comprendere il significato spirituale e filosofico del suo lavoro. L'assenza, nelle opere di Rothko, non è un vuoto privo di senso, ma un concetto che emerge da una tradizione spirituale ricca e complessa, dove l'idea del "non detto", del "nascosto" e del "non rivelato" è parte integrante della ricerca di una comprensione più alta e misteriosa del divino.

I. L’EBRAISMO COME RADICE DELL’ASSENZA: LA PRESENZA CHE NON SI MOSTRA

Rothko, pur non essendo un praticante religioso in senso tradizionale, cresce in un ambiente ebraico che influenzerà profondamente la sua sensibilità. L'ebraismo, infatti, non si concentra sulla rappresentazione di Dio, ma sulla sua presenza nascosta, spesso evocata attraverso la parola, la scrittura e il silenzio. In questo contesto, Rothko sembra assorbire l’idea che Dio, o il trascendente, non può essere rappresentato direttamente: non esiste una forma visibile, concreta, che possa contenere il divino. Questo non è un rifiuto del sacro, ma un riconoscimento della sua inaccessibilità alla mente umana, un invito a percorrere un cammino di meditazione che non arrivi mai a una verità definitiva, ma che continui ad abbracciare il mistero.

Nel contesto della sua pittura, Rothko utilizza il colore per esprimere una sorta di "divinità invisibile", un’immanenza che non si manifesta in modo tangibile, ma che può essere percepita in modo profondo attraverso l’assenza. Il colore diventa un mezzo che suggerisce, piuttosto che mostrare. Le sue tele nere e scure, per esempio, non sono semplicemente dipinte in un colore "vuoto", ma evocano un’esperienza di scomparsa: il colore oscuro si fonde con la tela, come se fosse una superficie che si allontana nel silenzio, creando un abisso di presenza e non-presenza. In questo modo, Rothko crea uno spazio che non è mai pienamente colmato, come una "non-immagine" che invita lo spettatore a confrontarsi con l’invisibile.

II. LA KABBALÀ E LA RICERCA DEL NULLA

La Kabbalà, la mistica ebraica, è un’altra fonte che rivela un legame profondo tra Rothko e l’idea dell’assenza. La Kabbalà esplora la creazione come il risultato di una "contrazione" divina chiamata Tzimtzum, un atto nel quale Dio, per creare l'universo, ritira una parte della sua presenza infinita. Questo "ritiro" crea uno spazio vuoto, una sfera di nulla in cui la creazione può esistere separata da Dio, ma pur sempre intrinsecamente legata a Lui. È un vuoto che non è mai davvero vuoto, ma carico di potenziale, una "assenza" che permette la manifestazione dell’universo.

Rothko sembra appropriarsi di questa idea mistica, creando nelle sue opere degli spazi “vuoti” che però sono colmi di una tensione spirituale palpabile. La tela appare priva di una figura o di un oggetto da riconoscere, eppure è abitata da una forza silenziosa e intensa. È in questi spazi "vuoti" che l’assenza diventa presenza. Per Rothko, il colore è un mezzo per esprimere quel "nulla" che si fa "pieno" attraverso l’esperienza dell’osservatore. La sua pittura sembra richiedere una sorta di concentrazione interiore da parte dello spettatore, che deve entrare in un silenzio profondo, non per comprendere, ma per sentire: un'assenza che non è mai priva di emozioni, ma che sfida l’osservatore a confrontarsi con un'intensità che non ha bisogno di essere definita.

III. IL CONCETTO DI SANTITÀ E LA RITIRATA DEL DIVINO

Nel pensiero mistico ebraico, c’è una costante tensione tra la ricerca del divino e la sua ritirata, la sua assenza apparente. Dio non è mai completamente presente, ma è sempre parzialmente nascosto, e la ricerca del mistico è quella di avvicinarsi a quella divinità che si sottrae. La Torah, la legge ebraica, non è mai interamente conoscibile, ma deve essere interpretata e meditata in modo che l’uomo possa cogliere solo frammenti della verità assoluta.

Rothko si avvicina a questo concetto creando spazi che non cercano di risolvere la tensione tra presenza e assenza, ma che la mantengono intatta. La sua opera pittorica diventa un atto di sacralizzazione dello spazio stesso: ogni tela è uno spazio sacro dove lo spettatore può incontrare una presenza che è, al contempo, costantemente sfuggente. L’assenza di una forma definita o di un simbolo chiaro non è un'assenza di significato, ma la sua condizione originaria, una teologia in cui l’esperienza visiva rimanda a una trascendenza non rappresentabile.

IV. LA RIVOLUZIONE DEL COLORE COME VEICOLO DEL SACRO

La riflessione ebraica sulla sacralità e sull’impossibilità di una rappresentazione diretta del divino trova una risposta visiva nel lavoro di Rothko. Se Dio non può essere rappresentato, forse il colore, in tutta la sua intensità e profondità, può essere un canale per percepire la sua presenza, proprio nella sua assenza. La sua tavolozza cromatica, sebbene particolarmente concentrata nelle sue fasi più tardive su tonalità scure e terrene, diventa il “veicolo” di una sacralità nascosta, che non si vede, ma si sente. Le grandi tele di Rothko sembrano gravide di una presenza imperscrutabile, che non si rivela mai, ma il cui respiro può essere avvertito nel silenzio emotivo che suscitano.

Le opere più tarde di Rothko, che sempre più si avvicinano alla "notte" del colore, possono essere lette come una riflessione sulla creazione del mondo ebraico, con la sua enigmatica dualità tra assenza e presenza. Il colore diventa, in questo senso, una sorte di rappresentazione del divino “ritirato”, una traccia che resta, ma che non si lascia mai veramente afferrare. È proprio attraverso questa forma di misticismo "visuale" che Rothko tenta di recuperare il rapporto con l'invisibile.

V. L'ASSENZA COME LUOGO D'INCONTRO

La teologia ebraica e la sua tradizione mistica sono la chiave per comprendere l’approccio unico di Rothko alla pittura. L'assenza che permea la sua arte non è il vuoto del nulla, ma un vuoto pieno di attesa, di possibilità, di tensione. È un vuoto che invita lo spettatore a incontrarsi con se stesso, a confrontarsi con l’emozione primordiale che scaturisce dal contatto con l’infinito. La sua arte non offre risposte definitive, ma apre uno spazio di riflessione che si fa, ogni volta, più profondo e avvolgente. Rothko, in questo senso, ha saputo rendere visibile il mistero attraverso l'arte, proprio come la tradizione mistica ebraica fa con il divino: il sacro non si può vedere, ma si può sentire nel profondo, nell'assenza che è al contempo presenza.


Approfondire la Rothko Chapel significa entrare in una delle più radicali e commoventi esperienze estetico-spirituali del Novecento: un'opera d'arte totale in cui la pittura diviene liturgia muta, l’architettura si fa soglia del non-visibile, e l’assenza si trasforma in un altissimo grado di presenza interiore. La Cappella non è solo un luogo fisico: è un tempio senza culto, un altare senza dogma, una sinfonia di silenzi visivi in cui Rothko costruisce, forse per la prima e ultima volta in modo definitivo, la sua “cattedrale del nulla”. Ma quel nulla è, in realtà, colmo di Dio.


I. L’IDEA DI UNA CAPPELLA LAICA: UN TEMPIO PER IL TRASCENDENTE

Commissionata negli anni Sessanta da John e Dominique de Menil, filantropi cattolici di origini europee e ferventi sostenitori dell’arte contemporanea e dei diritti civili, la Rothko Chapel nasce da un sogno impossibile: creare uno spazio universale, aperto a tutte le fedi, e al tempo stesso consacrato al silenzio, alla contemplazione, al lutto e alla preghiera. Rothko accetta l’incarico nel 1964 e vi lavora fino alla morte (1970), rendendo il progetto il suo testamento spirituale.

Sin dall’inizio, egli impone la sua visione: la Cappella non sarà decorata, non ospiterà simboli religiosi, né immagini narrative. Sarà composta da quattordici grandi tele monocrome, cupe, livide, solenni, disposte in uno spazio ottagonale con copertura a lucernario. Nessun altare, nessun pulpito. Solo pittura e luce. E proprio attraverso l’apparente privazione di ogni riferimento riconoscibile, Rothko fa della Cappella un laboratorio di trascendenza. Ciò che manca — la figurazione, l’ornamento, il mito, il dogma — si trasforma nella soglia di ciò che eccede, di ciò che irradia dal non detto. L’assenza diventa presenza, come nella più alta tradizione mistica ebraica e cristiana.


II. ARCHITETTURA DELL’INVISIBILE: SPAZIO, SILENZIO, LUCE

La Rothko Chapel è un edificio di piccole dimensioni, privo di facciata monumentale, immerso in un giardino texano dove l’aria calda si muove appena tra gli alberi. All’esterno, l’edificio in mattoni non annuncia nulla: non è né una chiesa né un museo. È un volume semplice, che nasconde la sua intensità dietro l’apparente modestia. Ma è entrando che avviene la trasfigurazione.

L’interno è concepito come uno spazio raccolto, quasi uterino. Le pareti ottagonali ospitano quattordici tele, alcune delle quali composte da più pannelli. Tutto è grigio, nero, viola profondo, marrone cupo, colori che sembrano assorbire la luce invece di rifletterla. Eppure, col passare dei minuti, qualcosa accade: quelle superfici iniziano a vibrare, a rivelare strati, bagliori interni, come se respirassero. Le tele non rappresentano nulla, ma invitano a un confronto diretto, quasi corporeo, con l’inesprimibile. Lo spazio stesso è parte dell’opera: il visitatore non guarda, è guardato. Non contempla, viene avvolto.

La luce entra da un lucernario al centro del soffitto, un oculo che si comporta come una lente mistica: la sua intensità varia con l’ora del giorno, e le tele reagiscono come apparizioni. Rothko non dipinge quadri, ma fenomeni ottici e spirituali. L’architettura non è solo contenitore, ma lente d’ingrandimento dell’anima.


III. LITURGIA MUTOLA: LA CAPPELLA COME ESPERIENZA MISTICA

Rothko intendeva la Cappella come un luogo di esperienza religiosa senza religione. Non a caso, nelle sue lettere e nei suoi appunti, compare spesso la parola tragedia. Ma non nel senso greco di catastrofe, bensì nel senso esistenziale di una tensione irrisolvibile tra finito e infinito, tra umano e divino, tra l’io e ciò che lo supera. Le quattordici tele non vanno lette come quadri separati, ma come un ciclo. Alcune sono interamente nere, altre nere con bordi viola o rosso cupo, altre ancora mostrano una sottilissima orlatura chiara. Sono variazioni sul tema della notte, della tenebra come rivelazione.

La Cappella è uno spazio della perdita e del ritorno. Nulla è spiegato, nulla è guidato. Non ci sono panche allineate, non ci sono sacerdoti. Solo cuscini, silenzio, e il battito interiore di chi entra. La meditazione non è imposta, ma sorge quasi inevitabilmente: ci si siede, ci si lascia catturare, e piano piano si entra in un tempo altro. Un tempo che non misura ma trasforma. Ogni visitatore è chiamato a un pellegrinaggio interiore, a un dialogo con ciò che non ha nome.

In questo senso, la Rothko Chapel può essere vista come l’estrema conseguenza della teologia negativa (apofatica): quella corrente mistica secondo cui Dio non può essere definito, ma solo avvicinato attraverso la negazione di ogni attributo. Non ciò che Dio è, ma ciò che non è. Rothko, con le sue tele, sembra dire: Dio non è questo colore, né quest’altro. Ma è in ciò che accade quando ti perdi dentro di essi.


IV. LE QUATTORDICI TELE COME VIA CRUCIS ATEA

Molti studiosi hanno paragonato le tele della Cappella a una via crucis laica: un cammino di sofferenza, di abbandono, ma anche di rivelazione. Non ci sono stazioni, non ci sono croci, ma il dolore è tangibile. Rothko stava vivendo un periodo di intensa depressione mentre lavorava alla Cappella. La sua salute mentale vacillava, il corpo era piegato dall’alcol e dai farmaci. Ma, come spesso accade nei mistici, proprio nel momento della massima fragilità, si apre una porta verso l’assoluto.

Le tele sembrano essere testimoni di questa traversata. Il nero non è un colore di fine, ma di passaggio. Ogni quadro diventa una soglia, come quelle dei templi antichi: chi la attraversa, lascia fuori le parole, le identità, i ruoli. E accede a un livello di coscienza altro, dove ciò che conta è sentire. La spiritualità della Cappella non è consolatoria, non è neppure dichiaratamente religiosa. È una spiritualità dell’abbandono, del vuoto, della resa. Ma una resa fertile, gravida di presenza.


V. UNA CAPPELLA UNIVERSALE: DIALOGO INTERRELIGIOSO E DIRITTI CIVILI

La Rothko Chapel non è mai stata un luogo chiuso nel culto del bello. Fin dalla sua apertura, nel 1971, è diventata un centro per il dialogo interreligioso, per l’attivismo dei diritti civili, per l’ascolto delle minoranze, per la promozione della giustizia sociale. Questo era nel cuore dei de Menil, e in parte anche in quello di Rothko, il cui ebraismo culturale lo aveva sempre avvicinato agli esclusi.

In questo senso, la Cappella è anche un santuario politico — ma non nel senso di propaganda, bensì di apertura radicale. Ha ospitato conferenze del Dalai Lama, cerimonie Bahá’í, incontri tra rabbini, imam e monaci zen. È lo spazio dove l’assenza diventa casa comune: ciascuno porta il proprio Dio, o il proprio dubbio, e trova accoglienza. Non c’è imposizione, ma risonanza. Rothko ha creato un tempio per un’umanità che ha sete di senso, ma rifiuta le risposte precostituite. Un tempio per chi non ha più un tempio.


VI. LASCITO: UN’OPERA D’ARTE O UN RITO DI PASSAGGIO?

Oggi, la Rothko Chapel è più che mai attuale. Nell’epoca dell’immagine sovraccarica, dell’informazione continua, del rumore visivo, essa ci offre il contrario: lo sprofondamento, il buio, la sospensione. È una terapia dell’anima, un ritorno al sacro come esperienza, non come dottrina. Il visitatore moderno, spesso spaesato, vi trova un luogo dove il tempo si ferma. E dove, nel silenzio, può finalmente ascoltare il battito del proprio desiderio di infinito.

È arte? Sì. È architettura? Certamente. È un’esperienza religiosa? Forse. O forse è qualcosa che sta tra tutte queste cose: un rito di passaggio, un punto di non ritorno. Una finestra aperta sull’assoluto, in forma di tela nera. Rothko ci ha lasciato, con la Cappella, non una risposta, ma una domanda. E la più radicale delle domande: sei disposto a stare nel vuoto?


Addentrarci nelle influenze bizantine nella Rothko Chapel e nella nozione di iconicità senza immagine significa varcare la soglia di un paradosso mistico: Rothko, artista modernissimo e laico, crea una serie di opere che sembrano parlare con la voce remota delle icone orientali, pur spogliandole di ogni contenuto figurativo. È un’iconografia del silenzio, una mistica dell’assenza. Ma l’assenza, in Rothko, è presenza sublimata. Come in una liturgia bizantina privata del suo cerimoniale, resta la vertigine del sacro.


I. LA LUCE DELLE ICONE E L’OMBRA DI ROTHKO

L’icona bizantina non è un’immagine “decorativa” o “illustrativa”, ma una manifestazione teofanica: l’immagine è una finestra sull’eterno, non una rappresentazione mimetica. L’oro del fondo non indica ricchezza, ma eternità; la frontalità non è rigidità, ma invito alla comunione; la stilizzazione non è astrazione, ma trasfigurazione. L’icona non mostra, ma rende presente.

E Rothko, senza voler “dipingere” Dio, crea opere che agiscono secondo la stessa dinamica. Le sue tele non raffigurano nulla, ma generano uno spazio di apparizione. Lo sfondo profondo e piatto, la luce che non proviene da una fonte esterna ma sembra emanare dalla superficie stessa, il senso di frontalità assoluta, tutto questo richiama l’icona. Ma qui non c’è volto, non c’è figura, non c’è narrazione: è un’icona dell’invisibile. O meglio, un’icona senza immagine.

In questo senso Rothko si inserisce in una lunga genealogia spirituale che passa per Dionigi l’Areopagita, Evagrio Pontico, Meister Eckhart, e giunge fino a Malevič: la via negativa, quella che dice Dio non mostrandolo. Rothko riprende questa tradizione e la traduce nel linguaggio della pittura contemporanea. Le sue tele diventano iconostasi astratte: non schermi che separano, ma membrane che mediano l’invisibile.


II. IL FONDAMENTO TEOLOGICO: L’ICONA COME PRESENZA

La teologia bizantina afferma che l’icona non rappresenta, ma reca con sé la presenza del santo. Nell’icona, il visibile è un velo teso sull’invisibile. L’osservatore entra in un rapporto dialogico con la figura, la contempla, e in questo atto si trasforma. Anche nelle icone più antiche, il volto non guarda l’osservatore ma lo oltrepassa: lo trascende.

Rothko lavora nello stesso modo: le sue tele non “dicono” nulla. Ma ti guardano. Stando di fronte a esse, ci si sente penetrati. Sono superfici che sembrano catturare la tua interiorità e restituirtela in forma amplificata. È lo stesso effetto dell’icona: ti trasforma perché ti chiama a essere presente in modo totale.

Anche il formato verticale, la posizione frontale, la sequenza di opere disposte come un coro silenzioso, richiamano la disposizione liturgica bizantina. Le opere della Cappella non si possono attraversare con lo sguardo come quadri da museo: sono lì come presenze che ti interpellano. Non vogliono piacere, vogliono inquietare.


III. L’ICONICITÀ SENZA IMMAGINE: LA PRESENZA DEL NULLA

Ma qui avviene il rovesciamento: se l’icona tradizionale contiene un volto (Cristo, Maria, un santo), Rothko ci propone la vertigine di un’icona senza volto. È come se avesse scavato l’icona fino a ridurla al suo alone. Le sue tele nere, viola, marroni, immerse nel silenzio della Cappella, non contengono alcuna figura, ma sono cariche di intenzione iconica: si pongono come finestre verso qualcosa che non può essere visto, né detto.

Questa è la vera “architettura dell’invisibile”: non costruire uno spazio per mostrare, ma costruire uno spazio per rendere possibile l’apparizione del non visibile. Non il nulla come negazione, ma il nulla come grembo: un vuoto denso, incandescente, quasi uterino.

Questa iconicità del nulla è vicina, spiritualmente, alla Shekhinah della mistica ebraica: la presenza divina che dimora nell’assenza, che si ritira per lasciare spazio all’altro. È anche la “nube oscura” della mistica cristiana: Dio non è nella luce abbagliante, ma nella tenebra dove il cuore si spoglia e attende. Le tele di Rothko sono quella nube.


IV. L’ESPERIENZA DELLO SGUARDO E LA FRONTIERA MISTICA

Contemplare un’icona significa entrare in un tempo lungo, immobile. Lo stesso vale per la Rothko Chapel. Il visitatore siede, guarda, aspetta. All’inizio non accade nulla. Ma poi le superfici cominciano a vibrare. La luce si modula. Le ombre emergono. Qualcosa accade — ma non è un evento visivo: è interiore. Rothko ci educa a un’attenzione radicale. A un vedere che è anche ascoltare.

L’iconicità senza immagine è un’esercitazione spirituale: ti obbliga a rinunciare all’oggetto per aprirti alla relazione. Le tele sono lì per te, ma non si danno. Bisogna restare. È una disciplina dell’attesa, che ha molto in comune con la preghiera contemplativa. E qui il legame con l’Oriente cristiano diventa palpabile: come un monaco del Monte Athos, Rothko costruisce una “cella” dove il silenzio è l’unico maestro.


V. UN'ICONA PER UN TEMPO SENZA DIO

La forza rivoluzionaria della Rothko Chapel è proprio questa: prendere la struttura dell’icona bizantina — il suo linguaggio, la sua energia, la sua sacralità — e applicarla a un mondo che ha perso Dio, ma non il desiderio del sacro. Rothko crea un’icona post-teologica, o meglio: un’icona pre-religiosa, che parla a chiunque abbia un’interiorità viva.

In un’epoca in cui l’immagine è ovunque, lui costruisce un’immagine che resiste alla visione. Un’icona dell’impossibile. E nel farlo, ci restituisce la profondità del vuoto. Non il vuoto come assenza di senso, ma come spazio per l’altro, per il mistero, per ciò che sfugge.


Addentrarsi nel rapporto tra il pensiero apofatico e l’estetica di Kazimir Malevič — e, attraverso questa, nell’eredità che Rothko ne riceve — significa esplorare il cuore oscuro della modernità, là dove l’arte non cerca più di rappresentare il mondo, ma di evocare il non rappresentabile. In questa genealogia spirituale, l’apofasi — cioè la via negativa, la teologia del silenzio, del dire Dio solo attraverso ciò che Egli non è — diventa lo sfondo invisibile su cui si proietta il Suprematismo e, a distanza, l’interiorità abissale di Rothko. Entrambi, Malevič e Rothko, infatti, non dipingono cose, ma presenze senza forma, visioni senza immagine, icone senza volto.

I. Teologia apofatica: la via del silenzio e del vuoto

La teologia apofatica nasce nel cuore della mistica cristiana, in particolare con Dionigi l’Areopagita, autore del VI secolo che influenzò profondamente la spiritualità bizantina. Secondo questa visione, Dio è radicalmente inconoscibile. Non possiamo dire cosa sia Dio, ma solo cosa non è: non è luce, né tenebra, né essere, né bene, né bellezza… È oltre ogni nome, oltre ogni concetto. È il totalmente altro, che si manifesta solo attraverso il silenzio e la sottrazione.

Questa visione mistica non si limita alla teologia, ma ha influenzato anche l’arte sacra: l’icona, come abbiamo visto, è una forma visiva della via apofatica — mostra senza esibire, indica senza rivelare pienamente. La sua potenza sta proprio nella sua reticenza.

Quando l’arte moderna, e in particolare Malevič, rompe con la rappresentazione mimetica, essa — consapevolmente o meno — si riallaccia a questa tradizione del silenzio: non dipingere ciò che si vede, ma ciò che non può essere visto. Non il visibile, ma l’invisibile.

II. Il quadrato nero di Malevič: icona del nulla o del divino?

Il “Quadrato nero su fondo bianco” (1915) di Malevič è uno spartiacque nella storia dell’arte. Non è solo l’atto estremo di una rivoluzione formale: è un atto teologico. Lo stesso Malevič, in una lettera, dice che il quadrato è «un’icona del mio tempo». E infatti lo presenta come un’icona liturgica, collocandolo in alto a destra nell’angolo della sala espositiva, nello stesso punto dove nella casa russa tradizionale si colloca l’icona della Madonna.

Ma cosa raffigura quel quadrato? Nulla. O meglio: non raffigura nulla di visibile, ma evoca un’assenza assoluta che diventa presenza spirituale. È una finestra spalancata sul vuoto. Un vuoto pieno, denso, che ricorda proprio il Dio apofatico: non visibile, ma reale; non rappresentabile, ma presente.

Il Suprematismo è, nelle parole di Malevič, «la supremazia della sensibilità pura». Non c’è narrazione, non c’è figura, non c’è oggetto: solo sensazione spirituale. Siamo già oltre la pittura, nell’ascesi della visione. Come la nube di Mosè, il quadrato nero non mostra nulla, ma indica un aldilà del vedere. È una teofania apofatica.

III. Rothko e l’eco del silenzio

Quando Rothko, negli anni Quaranta e Cinquanta, si allontana dalla figurazione per approdare ai suoi “multiforms” e poi ai campi di colore orizzontali, compie un movimento simile, anche se più interiorizzato. In lui non c’è l’iconoclastia rivoluzionaria di Malevič, ma un lento scavo interiore, un viaggio nella profondità della percezione. Tuttavia, ciò che li accomuna è la rinuncia a dire, per essere.

Le sue grandi tele monocrome, e ancor più quelle nere della Rothko Chapel, non sono “quadri” nel senso tradizionale. Sono presenze silenziose. Come il quadrato nero, non mostrano, ma chiamano. Lo spettatore non guarda, ma è guardato da esse. Non spiegano, non raccontano, non rappresentano. Sono superfici meditative, vuoti densissimi, in cui accade qualcosa che non può essere detto.

Qui la parentela con la teologia apofatica si fa evidente: come Dio nella tradizione mistica, anche queste opere si pongono oltre la parola, oltre la forma, oltre il senso immediato. Rothko stesso dichiarò: «Sono interessato a esprimere le emozioni fondamentali dell’uomo: tragedia, estasi, rovina… e se l’opera parla a un altro livello, ben venga». È la definizione perfetta di una epifania apofatica: qualcosa che si manifesta nel non manifestarsi.

IV. La superficie come spazio di ascesi

Tanto il quadrato nero quanto le tele di Rothko sono superfici “piene di nulla”. Ma questo nulla non è una negazione: è uno spazio iniziatico. Guardare a lungo questi campi cromatici (o acromatici) significa entrare in uno stato alterato di coscienza. È come pregare senza parole, o meditare senza oggetto. Il quadro diventa una soglia.

Nel pensiero apofatico, il silenzio non è assenza ma pienezza che non può essere detta. Così, l’arte di Malevič e Rothko non è mai minimalismo. È massimo contenuto con mezzi minimi. Sono immagini che non dicono nulla, ma contengono il tutto. Come il nome di Dio che non può essere pronunciato, anche i loro quadri non si lasciano spiegare. Ma operano.

V. Dalla Russia bizantina all’America esistenziale

C’è infine un’ascendenza spirituale da non trascurare: Malevič proviene da una cultura (quella russa ortodossa) ancora intrisa della presenza delle icone, del pensiero di Florenskij, della mistica orientale. Rothko, sebbene naturalizzato americano, nasce in Lettonia in una famiglia ebraica immersa nello Yiddishkeit e nella riflessione mistica — e si forma nel crogiolo newyorkese dove dialogano Kandinsky, Barnett Newman, l’esistenzialismo e la Kabbalah. È una catena invisibile di eredità spirituali: da Dionigi a Florenskij, da Malevič a Rothko.


Accostare la teologia negativa all’esperienza dell’indicibile in Wittgenstein e John Cage significa tracciare una costellazione di silenzi, una mappa di territori invisibili che, nel cuore del Novecento, ridisegnano il concetto stesso di conoscenza, arte, musica, linguaggio e presenza. È un itinerario vertiginoso tra oriente e occidente, tra filosofia, estetica e spiritualità — in cui il “non detto” e il “non rappresentato” non sono più limiti, ma soglie di rivelazione. Ed è proprio in questa tensione tra ciò che non si può dire, ciò che non si può vedere e ciò che non si può udire, che la teologia negativa, Wittgenstein, Cage e Rothko convergono in una mistica laica che è anche una rivoluzione percettiva.

I. Su ciò di cui non si può parlare…

Wittgenstein, nel suo Tractatus logico-philosophicus (1921), conclude con l’aforisma più celebre e più apofatico della filosofia moderna:

«Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere.»

Ma cosa si nasconde dietro questa formula così scultorea, così radicale? Per Wittgenstein, vi è un confine invalicabile tra ciò che si può dire logicamente e ciò che ha senso solo essere vissuto. Il mondo dei fatti è descrivibile, ma il senso della vita, l’etica, il bello, il divino — no. Sono esperienze che trascendono il linguaggio proposizionale, e perciò esistono solo nel silenzio. Il Tractatus, paradossalmente, è una lunga scala che il lettore deve salire… per poi gettarla via.

Questa posizione non è semplicemente agnostica o nichilista: è mistica. Lo stesso Wittgenstein lo dice:

«Il senso del mondo dev’essere fuori di esso. E nel mondo tutto è come è… e tutto accade come accade… In esso non vi è alcun valore — se vi fosse, esso non avrebbe valore.»

E ancora:

«Il sentimento del mondo come totalità limitata è il sentimento del mistico.»

Wittgenstein non nega il valore, né la trascendenza. Ma afferma che non si può dire. Può solo essere mostrato. Questa distinzione tra dire e mostrare — che ricalca quella tra kataphasis e apophasis — è il cuore stesso della via negativa: Dio (o il senso, o la bellezza assoluta) non può essere detto, ma si può solo percepire nel silenzio che circonda le parole.

II. John Cage: il silenzio come spazio dell’ascolto

Nel 1952, John Cage compone 4’33”, forse l’opera più scandalosa e più spirituale della musica del Novecento. Tre movimenti, nessuna nota suonata. Il pianista siede, apre il coperchio… e non suona. Il pubblico, costretto al silenzio, comincia a sentire… altro. Il respiro degli astanti, il cigolio delle sedie, il traffico fuori dalla sala. Il mondo stesso diventa suono.

Ma 4’33” non è una provocazione dadaista: è un atto sacro. Cage stesso, profondamente influenzato dal buddhismo Zen, dalla filosofia di Suzuki e dalla meditazione, dichiarò:

«Il silenzio non esiste. Se chiudi gli occhi, ascolti ancora. Il silenzio è pieno di suoni non intenzionali. E questi suoni sono degni di essere ascoltati quanto la musica composta.»

Come nella via apofatica, dove il divino si manifesta nella sua assenza, Cage propone un ascolto che va oltre il suono intenzionale. L’atto stesso di fare silenzio diventa rituale, mistico. È un vuoto che rivela.

Anche Cage, come Wittgenstein, come Rothko, come Malevič, costruisce uno spazio vuoto perché l’invisibile o l’inaudito possa accadere. La sua arte è una soglia. Un invito a non fare per lasciar emergere ciò che accade da sé. Il compositore diventa un tramite, non un demiurgo.

III. La mistica laica come architettura dell’invisibile

Cosa accomuna allora questa galassia di pensatori e artisti così diversi? In tutti loro il centro non è ciò che si produce, ma ciò che si lascia spazio ad accadere. È l’arte del non fare, l’etica del tacere, la spiritualità del vuoto. Ed è proprio in questo vuoto che si affacciano le domande ultime — sul senso, sul tempo, sulla morte, sul sacro.

  • Rothko dipinge superfici cromatiche in cui l’occhio si smarrisce: sono icone senza immagine, finestre sul nulla.
  • Malevič offre un quadrato nero che è presenza assoluta dell’assenza: un divino non rappresentato.
  • Wittgenstein costruisce un intero sistema logico per giungere al silenzio dell’indicibile.
  • Cage orchestra il silenzio per farci riscoprire l’ascolto primordiale del mondo.

Questa non è più arte come rappresentazione, ma come epifania. Non come comunicazione, ma come esperienza dell’oltre. È una mistica che non si appoggia a una religione rivelata, ma che rivela comunque — nel linguaggio stesso, nella visione, nel suono, il proprio limite e la propria apertura. Una mistica laica, appunto: senza dogmi, senza altari, ma non per questo meno sacra.

IV. Una via negativa contemporanea?

Nel mondo contemporaneo, spesso saturo di rumore, immagini e sovraesposizione, questa corrente silenziosa assume una forza politica e spirituale inattesa. In un’epoca che parla troppo, che mostra troppo, che calcola tutto, Rothko, Wittgenstein, Cage ci invitano a sottrarre. A stare nel vuoto. A non sapere.

E proprio come la cloud of unknowing della mistica medievale, questo “non sapere” non è ignoranza, ma apertura. Non è ritiro, ma disponibilità all’inatteso. È la passività attiva del mistico, del contemplativo, dell’ascoltatore radicale.


Addentrarsi nelle connessioni tra la “mistica laica” del Novecento e il pensiero di Simone Weil significa inoltrarsi in una geografia dello spogliamento estremo, dove la verità non si afferra ma si subisce, dove Dio è assenza, e la bellezza è una ferita che non si chiude. Affiancare a questa figura radicale l’influenza del Meister Eckhart e della sua nozione di Gelassenheit — l’abbandono, il lasciar essere — ci conduce a un paesaggio spirituale in cui il silenzio, il vuoto e la rinuncia al possesso sono le chiavi di accesso all’invisibile. È, di nuovo, un’iconicità senza immagine, una teologia che non parla ma cede, e proprio per questo si fa lampo, scossa, necessità. Come Rothko, come Cage, come Wittgenstein, anche Weil ed Eckhart si situano su quella soglia dove l’Io si annienta per lasciar passare un’alterità non nominabile.

I. Simone Weil: il vuoto come preghiera

Il pensiero di Simone Weil è l’archetipo stesso di una mistica laica: rigorosamente innestata sulla tradizione cristiana (soprattutto platonica e gnostica), ma sempre in dialogo con l’ebraismo, l’induismo, il buddhismo, il taoismo, e soprattutto con una profonda istanza etica che rifiuta ogni potere, ogni compromesso, ogni apparenza. Per Weil, il vero atto religioso non è l’adesione, ma la decreazione — il processo attraverso cui l’essere umano rinuncia alla propria volontà per fare spazio al reale.

«L’attenzione, assoluta e pura, è preghiera.»

L’attenzione — per Weil — è uno svuotamento. Un lasciar andare tutto ciò che si vuole, si sa, si desidera. È un atto passivo, ma non inerte. È un’attesa. Un’accoglienza nuda.

Nel saggio L’attesa di Dio, Weil descrive Dio come l’assente per eccellenza. Egli si ritrae, come nel Tzimtzum cabbalistico, per lasciare spazio alla libertà dell’uomo. Ma questo vuoto non è abbandono: è invito. È kenosis, svuotamento volontario, che rende possibile l’incontro. Il dolore, la privazione, la bellezza che trafigge sono le vie attraverso cui l’anima può “decadere” abbastanza da diventare ricettiva. Da cessare di essere sé per diventare luogo di Dio.

«L’amore di Dio è il sentimento del vuoto totale trasformato in gioia.»

Ecco la mistica laica: una mistica senza consolazione, senza rivelazione, senza possesso. Ma che proprio per questo si fa pura, tagliente, assoluta.

II. Meister Eckhart: il nulla divino e la Gelassenheit

Se Weil è l’anima tragica della mistica del Novecento, Eckhart ne è il precursore visionario. Il domenicano tedesco del XIV secolo ha anticipato molte delle inquietudini del moderno: Dio non come oggetto di devozione, ma come abisso, come vuoto senza nome. Il suo Dio non è un “Ente supremo”, ma una deità (Gottheit) che precede ogni forma, ogni immagine, ogni rappresentazione. E l’anima può incontrarlo solo se si svuota di tutto, anche di Dio stesso.

«Prego Dio che mi liberi da Dio.»

Questo paradosso centrale del pensiero di Eckhart è l’affermazione più pura della teologia negativa. Il divino che si può concepire non è il vero divino. Per incontrarlo, bisogna abbandonare anche il concetto di Dio. Solo il nulla, il vuoto, può contenere l’incontenibile.

Da qui la nozione di Gelassenheit — spesso tradotta come “abbandono”, ma che ha sfumature più sottili: lasciar essere, quiete, spossesso. È una disposizione radicale che non vuole nulla, non pretende nulla, non agisce nulla. È una resa non passiva, ma attiva: un “lasciare accadere” che non è fatalismo, ma apertura.

Eckhart scrive:

«L’uomo deve essere tanto vuoto di tutte le cose quanto era quando non era ancora.»

Questo ritorno al nulla originario, alla non-esistenza, è lo stesso movimento che Weil chiama “decreazione”. E che Cage interpreta nel silenzio. E che Rothko trasfigura nella pittura come spazio vuoto, vibrante, tragicamente assorto.

III. Una costellazione del silenzio

Ora possiamo iniziare a vedere questa costellazione del silenzio brillare con una nuova coerenza:

  • Simone Weil vive il dolore come condizione di conoscenza: solo nel vuoto dell’essere si può incontrare l’assoluto.
  • Meister Eckhart fonda una teologia dell’abbandono totale, dove l’unico accesso a Dio è il non sapere, il non volere, il non avere.
  • Wittgenstein dichiara l’etica e il divino indicibili: non si possono affermare, ma si mostrano nel vivere.
  • John Cage compone il silenzio per restituire al mondo la sua voce.
  • Mark Rothko dipinge l’invisibile perché lo spettatore vi si perda, si dissolva, si abbandoni.

Tutti questi itinerari non sono ascetici nel senso tradizionale. Sono, semmai, un’etica del togliere per far emergere. Una pratica del non fare come massimo grado dell’essere. E proprio per questo sono mistici — ma laici. Non perché rifiutino Dio, ma perché rifiutano di possederlo. Perché si fermano un passo prima dell’ineffabile, e lì costruiscono un tempio vuoto.

Come scrive Weil:

«La pienezza dell’amore per Dio è l’amore per il reale sotto tutte le sue forme.»

Anche il reale più atroce. Anche l’assenza. Anche il nulla.


L’eco della Gelassenheit eckhartiana nel pensiero del Novecento attraversa come un’onda carsica la filosofia di Martin Heidegger, per poi riemergere, con tratti sorprendenti, nelle pratiche artistiche di Joseph Beuys e Marina Abramović — due figure che, pur distanti per stile e contesto, condividono un’idea di arte come spazio liminale, come soglia fra presenza e sparizione, fra azione e rinuncia, fra gesto e silenzio.

I. Heidegger: dalla Gelassenheit come abbandono al “lasciare accadere l’essere”

Heidegger riscopre la parola Gelassenheit in un contesto radicalmente mutato rispetto a quello di Eckhart, ma ne conserva il nocciolo paradossale: un’attitudine dell’essere umano che rinuncia alla volontà di dominio per aprirsi al mistero dell’essere. Nel celebre discorso del 1955, Gelassenheit viene tradotta come “abbandono” e proposta come antidoto al pensiero tecnico-calcolante, che cerca di afferrare, ordinare, controllare ogni cosa. Heidegger invita a una “disposizione meditante”, un “lasciare essere” ciò che è — non per rassegnazione, ma per ospitalità.

“Ciò che ci serve è una disposizione che permetta all’essere di mostrarsi senza volerlo forzare: un lasciar essere che è già un modo di pensare.”

In questo senso, Gelassenheit non è né passività né inerzia, ma cura. È un atto profondamente etico, che implica un trattenersi, un saper non fare, un’arte del silenzio. In questo Heidegger torna a Eckhart, ma anche anticipa il linguaggio del corpo e del tempo che troveremo nell’arte performativa del tardo Novecento.

II. Joseph Beuys: arte come energia trasformativa e vuoto operativo

Beuys, nella sua concezione ampliata dell’arte come scultura sociale, incarna questa Gelassenheit heideggeriana traslata in pratica. Le sue installazioni e azioni non sono mai assertive nel senso tradizionale. Esse lasciano spazio, lasciano accadere. Prendiamo I Like America and America Likes Me (1974): per tre giorni Beuys vive in una galleria newyorkese insieme a un coyote, separato dal mondo da feltro e bastoni, senza parlare. Non domina, non doma, non si impone. Si espone. Si abbandona al tempo, alla relazione, all’incertezza.

In How to Explain Pictures to a Dead Hare (1965), l’artista ricopre il volto di miele e oro, tiene in braccio una lepre morta e le sussurra all’orecchio. La scena è di una dolcezza sacrale, ambigua, ieratica. Beuys non spiega nulla: sta con. È presente. Ma in un modo che non impone, non forza. La comunicazione è impossibile, e proprio per questo piena di potenziale. È il non detto, il non immediato, che diventa rivelazione.

La sua estetica del materiale (feltro, grasso, rame) è una grammatica della soglia, del transitorio, dell’energia che passa, che circola, che non si trattiene. Beuys non “crea” un’opera: la lascia emergere, come risultato di una coesistenza fra forze naturali, biografiche, spirituali. Un vero e proprio lasciare essere.

III. Marina Abramović: il corpo come Gelassenheit incarnata

Anche Marina Abramović lavora sul bordo fra volontà e resa, ma nel suo caso la Gelassenheit diventa intensamente incarnata, quasi martirizzata. I suoi lavori mettono in scena un corpo che si offre, che si espone, che si fa vulnerabile fino al limite del sopportabile. In Rhythm 0 (1974), Abramović si pone immobile davanti al pubblico per sei ore, offrendo 72 oggetti che gli spettatori possono usare su di lei “come desiderano”. Il corpo non agisce: accoglie. Rinuncia al controllo. E ciò che accade è terribile e rivelatore: baci, carezze, ma anche tagli, ferite, un coltello puntato al cuore.

Questa radicale esposizione è un atto di lasciar essere l’altro, anche nel suo lato oscuro. Come in Eckhart, come in Heidegger, l’Io si ritrae. Ma non per scomparire: per fare spazio. Per testimoniare.

In The Artist is Present (2010), Abramović siede in silenzio di fronte agli spettatori, uno alla volta. Non fa nulla. È. Ma in questa pura presenza, si compie una rivelazione: il volto dell’altro, le lacrime, la fragilità. È un rito dell’abbandono, una Gelassenheit che si trasmette per osmosi.

IV. Una genealogia implicita: Eckhart – Heidegger – Beuys – Abramović

In questa genealogia silenziosa, il lasciar essere si trasforma, si declina, si performa:

  • In Eckhart è preghiera senza oggetto: un’anima che si svuota di tutto, perfino di Dio, per farsi nulla ricettivo.
  • In Heidegger è pensiero meditante: un’attesa che non possiede, un pensare che non stringe.
  • In Beuys è gesto ecologico e relazionale: un’arte che non impone ma custodisce, che guarisce attraverso il tempo e la materia.
  • In Abramović è corpo abbandonato: una resa vigile, attiva, dolorosa, che permette all’altro di accadere.

Tutti questi movimenti non sono nostalgie del sacro, ma sue trasmutazioni. Una mistica laica che attraversa la modernità portandovi un principio di abbandono creativo, una nuova ontologia della relazione.


Continuo ora ramificando ulteriormente la costellazione della Gelassenheit, del “lasciar essere”, seguendo tre sentieri che si intersecano nel cuore stesso della mistica laica del Novecento:

  1. Le corrispondenze tra la Gelassenheit e le pratiche orientali del non-attaccamento (zen, taoismo).
  2. L’eredità spirituale nel linguaggio dell’immagine in artisti come Bill Viola e Agnes Martin.
  3. Il legame con l’“abbandono performativo” del corpo e della voce nel teatro di Jerzy Grotowski.

Procederò con un tono narrativo e saggistico che continui a risuonare con l’intensità spirituale del discorso finora affrontato.


I. Non-agire, non-attaccarsi: zen e taoismo come orizzonti paralleli della Gelassenheit

La Gelassenheit, come atto di abbandono vigilante, ha un corrispettivo antico e profondo nelle pratiche dell’Estremo Oriente. La filosofia taoista e la tradizione zen giapponese condividono con il pensiero di Eckhart e Heidegger un’idea centrale: che la realtà non vada né afferrata né forzata, ma accolta nella sua natura mutevole e paradossale. Il wu wei, concetto taoista spesso tradotto come “non-azione” o “agire senza agire”, è un’arte del fluire che annulla la volontà individuale nel ritmo cosmico delle cose. È una resa che non è resa, una sapienza dell’invisibile.

Heidegger stesso, nella sua ultima fase, si confronta con il taoismo come possibile via per “pensare senza concetto”. Ma è nel vissuto artistico che questa vicinanza si fa corpo. Pensiamo all’arte del giardino zen: spazi minimi, pietre, sabbia rastrellata. Ogni cosa è disposizione, e ogni disposizione è un ascolto. Come nel silenzio di Rothko o nelle azioni di Abramović, ciò che conta è il campo energetico che si crea: uno spazio sacro in cui l’apparente vuoto è pieno di presenze.

Il maestro zen Dōgen scrive: “Illuminazione è sedersi, e basta”. Non si può non pensare ad Abramović seduta per giorni nel silenzio della MoMA, o a Beuys che attraversa l’America senza parlare. Anche qui, l’essere si manifesta solo nell’inutile, nel non-finalizzato, nell’eccedenza.

Ma la questione si fa ancora più profonda se consideriamo il modo in cui il silenzio zen diventa prassi pittorica, calligrafia, disposizione del vuoto. Nella pittura a inchiostro sumi-e, una sola pennellata è sufficiente a evocare la totalità. Si agisce nella misura esatta dell’abbandono. Il soggetto non è espresso ma alluso. Così anche in Rothko o in Martin: non ci sono simboli, ma atmosfere; non c’è rappresentazione, ma esposizione a un campo di forza. Ogni campo di colore è come un colpo di pennello cosmico, una vibrazione che non può essere compresa, ma solo esperita.

In tutte queste vie – zen, taoismo, Gelassenheit – si afferma un principio: il reale si mostra solo a chi non vuole possederlo. Il desiderio è un rumore che impedisce all’invisibile di affiorare.


II. Bill Viola e Agnes Martin: immagini del silenzio, epifanie dell’assenza

Se Beuys e Abramović incarnano la Gelassenheit nel gesto, Bill Viola e Agnes Martin la sublimano nell’immagine e nella forma. Viola, artista video della lentezza e della sospensione, costruisce veri e propri esercizi di meditazione visuale, attraversati da riferimenti al misticismo cristiano, sufi, buddhista. Nei suoi video – The Quintet of the Astonished, The Passions, Observance – il tempo rallenta fino a scomparire. I volti piangono, respirano, si svuotano. Nulla accade, eppure tutto è rivelato. L’invisibile trapela attraverso il visibile. La luce è soglia, come lo era nei fondi oro bizantini o nei campi di colore di Rothko.

In Viola, l’esperienza dell’oltre si dà non per accumulo ma per decelerazione, per immersione, per sottrazione. Il suo è un “silenzio elettronico” che risuona con il misticismo della tecnologia, una Gelassenheit che abbraccia il digitale per negarne la velocità. Non è solo rallentamento: è una forma di rivelazione progressiva, una tensione contemplativa che scava nel cuore del visibile per portare in superficie ciò che non ha nome.

Diversa ma affine è la tensione mistica in Agnes Martin, pittrice di griglie impercettibili, linee sottili su campi bianchi o pastello. Il suo è un linguaggio della soglia, in cui l’apparizione dell’opera è quasi un evento atmosferico. “Non c’è nulla da vedere, eppure si vede tutto” – questa frase, perfettamente eckhartiana, potrebbe riassumere l’esperienza davanti a un suo quadro.

Martin scrisse: “La bellezza è l’assenza di desiderio.” È la definizione più compiuta della Gelassenheit estetica: una contemplazione che non vuole nulla, che si lascia attraversare. Martin era profondamente influenzata dalla spiritualità orientale, dalla filosofia greca, dalla poesia. Ogni sua opera è una preghiera silenziosa, un esercizio ascetico. Anche la scelta dei colori – rosa pallidi, azzurri lattiginosi, grigi che svaniscono – è una forma di misticismo cromatico, come nei monocromi bianchi di Malevič o negli ultimi lavori di Rothko.

Il quadro di Martin non è un oggetto, ma uno stato. Uno stato di presenza assoluta e di assenza totale. Lì, dove non c’è più niente, resta la possibilità dell’illuminazione.


III. Jerzy Grotowski: l’abbandono del corpo come via verso il vuoto

Nel teatro di Jerzy Grotowski, la Gelassenheit si fa pratica radicale del corpo. Il “teatro povero” da lui ideato elimina ogni orpello: scenografie, costumi, effetti. Rimangono solo attore e spettatore, nudi, vulnerabili, messi di fronte all’essenziale. Ma l’essenziale, per Grotowski, è un corpo disarmato, che ha disattivato ogni cliché, ogni automatismo. Il lavoro dell’attore è un auto-spogliarsi, un processo di “via negativa” – proprio come la mistica apofatica – che toglie, svuota, rimuove tutto ciò che è superfluo.

La Gelassenheit diventa qui una tecnica ascetica: non una rinuncia spirituale, ma una ricerca della verità che passa attraverso l’abbandono dei meccanismi, del controllo, della volontà. Grotowski parlava di “sacrificio”: l’attore come “essere-offerto”, in uno spazio di concentrazione rituale dove il gesto accade perché nulla lo trattiene.

Nel suo lavoro, soprattutto dopo il periodo teatrale, Grotowski si ritira progressivamente dal palcoscenico per esplorare forme di presenza corporea e vocale legate alla tradizione rituale (suoni sacri, canti antichi, respirazione profonda): un’eredità mistica e corporea che lo lega, in modo profondo, ad Abramović e Beuys. Si potrebbe dire che per lui il corpo è come un’icona vuota, un’apparizione del sacro senza immagine. Il corpo non rappresenta: presenzia.

E proprio come l’icona bizantina o il campo di Rothko, anche il gesto di Grotowski non vuole comunicare, ma trasmettere. Non racconta, ma vibra. È in questo senso che il suo teatro è un esercizio spirituale: una soglia, un varco, un campo di forze invisibili che attraversano chi guarda e chi agisce.


Una costellazione conclusiva

In questo viaggio attraverso la mistica laica del Novecento e oltre, la Gelassenheit si manifesta in molte lingue, tutte diverse e tutte convergenti:

  • In Heidegger, è pensiero che tace per lasciar dire l’essere.
  • In Beuys, è gesto che cura senza possedere.
  • In Abramović, è corpo che accetta il rischio della vulnerabilità.
  • In Bill Viola, è immagine che si fa tempo sacro.
  • In Agnes Martin, è forma che svanisce nell’assoluto.
  • Nel pensiero zen, è il vuoto che accoglie tutto perché non desidera nulla.
  • In Grotowski, è tecnica del disarmo, arte del non-volere.

Tutti questi percorsi conducono al cuore della stessa intuizione: che il vero, il profondo, il numinoso, non si conquista, ma si riceve.

E in questo ricevere senza trattenere, senza desiderare, senza nominare – sta il segreto di un’estetica che non vuole essere “bella” ma necessaria, sacra, trasparente.


Tornare a Rothko, dopo questo vasto pellegrinaggio attraverso la mistica laica del Novecento, le eredità eckhartiane, Heidegger, Cage, Weil e Abramović, significa affrontare il silenzio nel suo punto di massima tensione: dove l’opera non rappresenta più, non suggerisce, non indica, ma semplicemente sta—come un altare che non promette la salvezza, ma la profondità del vuoto.

Nella Rothko Chapel, tutto converge. Le superfici profonde, quasi nere, che vibrano tra porpora, marrone, un nero mai pieno, mai compiuto, sono non-colori nel senso di un’estasi ritirata: immagini che si negano, pur restando presenza. Qui ritorna, trasfigurata, la lezione di Malevič, e prima ancora la traccia delle icone bizantine, non come rappresentazione del divino, ma come soglia, come presenza dell’assenza. L’iconicità senza immagine, come l’hai evocata tu, trova in Rothko una delle sue forme più radicali. L’immagine si fa pura condizione, attesa, non-figura.

Rothko, ebreo lettone fuggito da una Russia attraversata da pogrom e rivoluzioni, si muove come un rabdomante tra le tensioni di una tradizione religiosa segnata dall’interdetto dell’immagine. Ma l’interdetto non è mai sterilità: è, al contrario, soglia verso il mistero. La Shekhinah, la presenza divina ritirata, che permane nella creazione come eco, si riflette nei suoi quadri come luce remota, silenzio denso. L’assenza non è mancanza, ma eccesso, distanza infinita che solo l’opera può sfiorare, mai colmare.

Nel pensiero apofatico, Dio è ciò che non può essere detto: via negativa, dunque, come metodo del silenzio, non del nichilismo. È qui che Rothko si avvicina al cuore della mistica laica del Novecento. Come Cage costruisce silenzi, come Wittgenstein dichiara: “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”, così Rothko dipinge quadri che sono veri e propri dispositivi del non-detto. Non evocano emozioni determinate, ma condizioni, stati di presenza rarefatta, come soglie meditative. Da qui l’affinità con Weil e con il suo “sospendere il pensiero” per accogliere la grazia; da qui anche il legame con la Gelassenheit heideggeriana, ripresa da Beuys come apertura spirituale del corpo, e da Abramović come rito performativo dell’ascolto assoluto.

La Rothko Chapel, dunque, è un luogo che respira questa stessa tensione: costruita secondo un’architettura dell’invisibile, priva di orientamento, senza altare, senza simboli, al centro solo la vertigine muta dei quadri. Un luogo vuoto, ma non per questo povero: è un vuoto generativo, come il “vuoto fertile” dello zazen, come il silenzio del teatro povero, come l’intervallo tra le note in una partitura di John Cage. Lo spettatore vi entra, e qualcosa si sospende: la trama del tempo, l’ordine delle cose, persino il proprio io.

E così, chiudendo il cerchio, Rothko si rivela figura centrale di un’estetica del sacro spogliato, del misticismo senza dogma, dell’icona senza volto. Un artista che ha saputo dare forma al mistero non affermandolo, ma togliendolo dal mondo delle immagini. Come Meister Eckhart, Rothko pare dire: prego Dio di liberarmi da Dio—affinché rimanga solo la pura apertura, la sola vera pittura: il silenzio che guarda.