sabato 18 ottobre 2025

Il ritorno del Dio Fluviale: Michelangelo ritrova la sua Firenze

Benissimo. Eccolo, finalmente, il ritorno del Dio fluviale di Michelangelo Buonarroti — e scusate se è poco.
Un capolavoro che non è un capolavoro nel senso canonico del termine, ma qualcosa di infinitamente più alto: un atto di creazione pura, un lampo di divinità gettato nella materia. È tornato dove deve stare, all’Accademia delle Arti del Disegno di Firenze — non in un deposito, non in un magazzino per “beni culturali”, ma nel cuore vivo della città che l’ha generato. Perché quest’opera non è un reperto: è un respiro, un corpo, un’idea che pulsa ancora, cinque secoli dopo, come un muscolo del mondo.

E guardatelo bene, questo Dio fluviale. È un’opera di gesso, paglia, terra, acqua — una miscela primordiale. Non c’è marmo, non c’è bronzo, non c’è niente di “nobile”. Eppure è Michelangelo.
Michelangelo! L’uomo che sapeva trarre la divinità dalla pietra, qui la estrae dal fango. È come se dicesse: “Non serve il marmo, se ho il fuoco dentro.” È un urlo messo in posa, una forma che nasce nel momento stesso in cui si disfa. E questa è la sua grandezza: è l’opera che precede l’opera, il pensiero che si fa carne prima che la carne diventi idea.

Quando la fece, verso il 1525, Michelangelo stava lavorando alla Sagrestia Nuova per i Medici. Ed era nel suo periodo più tormentato, più febbrile, più divino. Il suo animo, diviso tra la devozione e la ribellione, si riflette in questa figura distesa: non un fiume qualunque, ma il corpo stesso della creazione. Guardatelo — non dorme, non riposa. È in attesa. Ha gli occhi chiusi, ma dentro c’è un universo che si muove. È la potenza che precede il gesto, l’eternità che ancora non ha deciso in che forma manifestarsi.

E sapete qual è la cosa più straordinaria? Che è incompiuto. Non rifinito, non levigato, non “presentabile”. Ma proprio per questo è un capolavoro assoluto. Michelangelo sapeva che la perfezione è noiosa. Che la verità non sta nella finitura, ma nella tensione. Il Dio fluviale è l’idea colta in flagrante. È il pensiero nudo. E nessun artista dopo di lui ha avuto il coraggio di mostrare così brutalmente il momento in cui l’invisibile diventa visibile.

Il restauro — condotto tra il 2015 e il 2017, e ora riconsacrato alla vista pubblica — è stato, per una volta, un atto di intelligenza. Non hanno “rifatto” Michelangelo, non l’hanno sterilizzato. Non l’hanno reso un gadget da museo, lucido e innocuo. No: hanno lasciato che restasse vivo. Che avesse le sue crepe, le sue ombre, la sua fragilità. Perché l’arte non si restaura, si risveglia.
E questa opera, oggi, respira di nuovo.

Camminando nella sala dell’Accademia, il visitatore lo sente. Non si guarda un oggetto, si incontra una presenza. Il corpo disteso è enorme, eppure non schiaccia. È dolente e potente insieme, come un dio che ha conosciuto la fatica del mondo. Ogni piega del gesso, ogni venatura della terra, sembra un pensiero di Michelangelo rimasto impresso nella materia. Non è un “disegno tridimensionale”, come direbbero oggi i curatori che non hanno mai toccato un blocco di pietra in vita loro. È un atto di fede nella forma.

E qui bisogna dirlo chiaramente: Michelangelo non era un artista, era un cosmo. In lui la materia non obbedisce: esplode. E nel Dio fluviale c’è tutta la sua follia divina.
Altro che “studio preparatorio”. È il bozzetto di Dio stesso.

Guardate il modo in cui il corpo giace: non è morto, non è dormiente. È in una sospensione che è quasi cosmica. Il busto si solleva appena, il volto si volta, il braccio scende pesante — ma c’è una tensione che scorre ovunque. È come se la scultura trattenesse il respiro prima del Big Bang.
Michelangelo non rappresenta: inventa la vita.

E poi, certo, la Firenze che lo accoglie oggi è un’altra. Una città che spesso dimentica di essere stata il centro del mondo. Ma nel momento in cui quest’opera torna a casa, è come se la città ritrovasse se stessa. Non la Firenze turistica, da cartolina, da spritz e apericene; ma la Firenze che ha partorito il genio, la rabbia, la grandezza. Il ritorno del Dio fluviale è un atto politico, spirituale, estetico. È un monito: ricordate chi siete stati.

Ecco, qui bisogna dirlo, con la voce ferma:
Michelangelo non aveva paura dell’incompiuto. Oggi invece si teme tutto ciò che non è finito, che non è “perfetto”. Ci spaventano le crepe, i margini, l’irregolare. Ma è lì che vive la bellezza. L’arte non è un risultato, è una tensione.
E il Dio fluviale lo dimostra: l’imperfezione è la forma più alta della verità.

Quando lo si osserva da vicino, si vedono i segni delle dita, le pressioni della mano, il disordine della creazione. È Michelangelo in presa diretta. Non un mito, non un nome sui manuali, ma un uomo in lotta con l’assoluto.
C’è il sudore, c’è la furia, c’è la poesia. E sopra tutto, c’è la grandezza di chi sa che l’arte non deve piacere: deve scuotere.

E questa è la lezione che dovremmo imparare oggi, in un mondo che ha sostituito la bellezza con il marketing.
Il Dio fluviale non ha bisogno di hashtag, non ha bisogno di storytelling. È già tutto lì: nella sua massa, nel suo respiro, nella sua umiltà titanica.
Michelangelo non chiede di essere capito: chiede di essere sentito.

E allora sì, gridiamolo pure: questa non è un’esposizione, è un evento metafisico.
Un ritorno che vale più di mille mostre contemporanee messe insieme.
Perché ogni volta che Michelangelo riappare, ci ricorda chi siamo.
E chi non lo capisce — mi dispiace — ma non ama l’arte. Ama la moda. Ama il rumore.

Il Dio fluviale, invece, tace.
Ma nel suo silenzio c’è tutta la potenza del mondo.
E noi, piccoli esseri del XXI secolo, possiamo solo restare zitti e guardare.
Perché davanti a Michelangelo, ogni parola è superflua — tranne una:
Grazie.