Capitolo 1. Un genio non basta: Kafka oltre la misura dell’umano
Parlare di Kafka è sempre un rischio, perché non c’è aggettivo, non c’è categoria critica che non si sia già logorata a furia di ripetizioni. Lo si chiama “profeta del Novecento”, “cantore dell’alienazione”, “maestro dell’assurdo”. Eppure nessuna di queste formule basta a contenere ciò che le sue pagine effettivamente operano nel lettore. Il fatto è che la sua scrittura non sembra appartenere del tutto alla sfera dell’umano: non è il frutto di una semplice intelligenza acuminata, di un talento letterario straordinario, ma di un dono che si colloca in una zona ambigua, a metà tra il divino e l’infernale. Forse, se volessimo davvero rischiare una definizione, dovremmo dire che Kafka non fu un genio, bensì un semidio, come se avesse potuto vedere il nostro mondo da una prospettiva che non ci è concessa, e poi ce l’avesse restituita, scheggiata e folgorante, nella forma della prosa.
Perché un genio, dopotutto, resta ancora dentro i confini dell’umano: un genio inventa, crea, sorprende. Ma un semidio, invece, non inventa: rivela. Mostra ciò che già esiste, ciò che esiste da sempre, ma che noi non abbiamo la capacità di cogliere finché qualcuno non lo mette davanti ai nostri occhi. In questo senso Kafka si colloca più vicino all’oracolo che al romanziere. Le sue parole hanno la durezza della sentenza e l’ambiguità della visione. Non raccontano storie per consolare o per intrattenere, ma aprono fenditure nel muro del reale, lasciando passare una luce troppo abbagliante per non ferire.
La sua grandezza non sta solo nelle architetture complesse dei romanzi incompiuti, nelle parabole che si leggono come enigmi talmudici, né nelle descrizioni minuziose che trasformano l’ordinario in un incubo. Sta soprattutto nella capacità di immaginare — o meglio, di rendere visibile — scenari che somigliano a premonizioni. Non tanto profezie sul futuro storico (anche se spesso vi si accostano), ma prefigurazioni dell’esperienza interiore dell’uomo moderno, quell’essere schiacciato tra poteri anonimi, norme incomprensibili e il peso di un destino che non controlla.
Eppure c’è un aspetto che spesso sfugge: Kafka non si limita a diagnosticare, come un medico che osserva la malattia. Non si ferma a delineare il male. Nei suoi testi, anche nei più brevi, egli costruisce sempre un’alternativa, un bivio, un’altra via che si apre improvvisa. È il caso di “In galleria”, dove due possibilità della scena vengono messe a confronto: la crudeltà meccanica di uno spettacolo interminabile e la grazia folgorante di una cavallerizza incantatrice. La potenza non sta tanto nell’una o nell’altra immagine, ma nel loro contrasto, nel loro accostamento. Ed è qui che Kafka smette di essere solo un interprete del disagio moderno per diventare qualcosa di più: un visionario capace di mostrare, nello stesso respiro, la condanna e la salvezza.
Quando lo leggiamo, dunque, ci troviamo davanti a un gesto che non appartiene più al mestiere della scrittura, ma a un atto mitico. E come ogni mito, non è mai solo una storia: è un dispositivo che ci avvolge, che ci obbliga a riconoscerci in figure più grandi di noi. Kafka, con apparente semplicità, riesce a fare di un circo qualunque un’immagine universale dell’esistenza, e di uno spettatore relegato in galleria un alter ego del lettore stesso. Non c’è compiacimento estetico in questo, non c’è virtuosismo: c’è la lucidità di chi vede attraverso.
Ecco perché dire “Kafka era un genio” non basta. Un genio affascina, stupisce, insegna. Kafka, invece, inquieta, ferisce, costringe a guardare dove non vorremmo. Eppure, nello stesso tempo, consola, nel modo più ambiguo possibile: non perché ci offra speranza, ma perché ci dice che la disperazione è comune, che il pianto che sgorga “senza saperlo” non è solo nostro, ma di chiunque abbia assistito allo spettacolo della vita.
Capitolo 2. Praga, il circo e il rumore del mondo
Per capire il respiro di “In galleria” bisogna fermarsi un istante a osservare il mondo in cui Kafka scriveva. Non tanto per trovare corrispondenze dirette — come se il circo della parabola fosse un ricordo preciso di uno spettacolo visto — ma per comprendere quale atmosfera culturale e sociale rende possibile una visione di tale potenza. La Praga di inizio Novecento era un crocevia: città imperiale e insieme provinciale, dominata dalla burocrazia austro-ungarica ma attraversata da tensioni nazionaliste, da fermenti artistici e da un ebraismo che oscillava tra assimilazione e segregazione. Era una città plurilingue, dove il tedesco e il ceco convivevano tra diffidenze reciproche, e dove l’ebreo colto come Kafka si trovava inevitabilmente in bilico, sospeso in una condizione di doppia estraneità.
In questo contesto, il circo non era un semplice svago popolare, ma una delle grandi icone della modernità. Alla fine dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento, i tendoni itineranti invadevano le città, portando con sé lo spettacolo della velocità, del rischio, del corpo esibito come macchina. L’arte circense, con i suoi cavalli, le sue acrobazie e le sue orchestrazioni rumorose, incarnava perfettamente l’ambivalenza del nuovo secolo: da un lato la meraviglia per la tecnica, dall’altro la trasformazione dell’essere umano in ingranaggio di un meccanismo spettacolare. Il circo era il teatro del corpo ridotto a funzione, e allo stesso tempo il luogo in cui il corpo poteva farsi miracolo.
Kafka, che era un osservatore instancabile del quotidiano e del suo rovescio, non poteva non cogliere questa ambiguità. “In galleria” prende spunto da una situazione comune — il numero della cavallerizza, esibizione amata dal pubblico — e la porta all’estremo, fino a trasformarla in allegoria. Da un lato la cavallerizza tisica, condannata a girare senza fine, immagine del lavoro alienato, della fatica resa spettacolo, della vita umana consumata sotto lo sguardo di un pubblico indifferente. Dall’altro, la cavallerizza giovane e radiosa, esaltata come creatura angelica, che entra tra le tende e viene sollevata con premura dal direttore.
Dietro questa scena, però, si sente il rumore del mondo: la marcia della modernità, il fragore delle macchine che trasformano anche l’applauso in “magli a vapore”. È la Praga delle fabbriche, delle nuove tecnologie, del telefono che squilla nelle case borghesi, dei tram elettrici che scorrono lungo le strade. È la civiltà della velocità e della massa, che fa della folla un meccanismo compatto, capace di battere le mani come se fosse una sola macchina in funzione.
Eppure, in mezzo a tutto questo, Kafka isola lo spettatore in galleria: una figura solitaria, anonima, un ragazzo che assiste al trionfo o al supplizio senza poterlo fermare, e che, proprio in questa impotenza, diventa specchio del lettore. È significativo che Kafka scelga la galleria: non il posto d’onore, non il palco riservato ai ricchi, ma lo spazio alto, lontano, dove si accumula la polvere e dove siedono gli ultimi. Lo sguardo che osserva dall’alto non è privilegiato, ma distaccato, e proprio per questo coglie il senso profondo dello spettacolo.
La Praga che Kafka attraversava ogni giorno, fatta di uffici amministrativi, di tribunali, di sale da concerto e caffè fumosi, era essa stessa un grande circo. E forse “In galleria” non è altro che la sua trascrizione simbolica: il mondo come pista, gli uomini come cavalli e cavallerizzi, il potere come direttore con la frusta, e il pubblico come folla che applaude a comando.
Così, nella breve parabola, risuona l’intero clima del tempo: la tensione tra alienazione e incanto, tra macchina e grazia, tra la crudeltà di una modernità che divora e la promessa di una bellezza che rapisce. Kafka lo percepisce e lo restituisce in un’immagine che non appartiene solo al suo tempo, ma a ogni epoca che conosce la seduzione e la violenza dello spettacolo.
Capitolo 3. La cavallerizza tisica: allegoria della condanna
La prima immagine che Kafka ci offre è volutamente estrema, quasi insopportabile nella sua crudezza. Non si tratta di una cavallerizza elegante e sorridente, ma di una donna decrepita, malata, tisica: un corpo fragile, ridotto a rovina, che pure continua a girare sulla pista, instancabile, come costretto da un destino che non concede tregua. Il cavallo su cui si regge è “traballante”, segno che la sua fatica non è soltanto personale, ma condivisa con l’animale, anch’esso stremato. Il circo, dunque, non è il luogo della leggerezza, ma quello del supplizio ripetuto, trasformato in spettacolo.
In questa descrizione non c’è pietà: Kafka accentua la crudeltà della scena per portarla a un livello simbolico. La cavallerizza diventa la rappresentazione dell’essere umano ridotto a funzione, costretto a produrre movimento e intrattenimento per un pubblico che non conosce stanchezza. L’applauso, che dovrebbe essere segno di ammirazione, si trasforma in martello, in “maglio a vapore”: non incoraggiamento, ma pressione, costrizione. È come se la folla fosse complice del direttore, anzi, come se la folla fosse essa stessa la macchina che rende necessario lo spettacolo infinito.
Il direttore, con la sua frusta, incarna il potere: un potere impersonale, cieco, che non si ferma di fronte alla sofferenza. La sua frusta non è solo un oggetto materiale, ma il segno di un comando che non conosce misericordia. Non importa quanto sia logora la cavallerizza, né quanto vacilli il cavallo: ciò che conta è che il numero continui, che la ruota non si fermi, che il meccanismo spettacolare resti intatto. È un’immagine che, letta oggi, sembra anticipare la logica spietata del lavoro industriale, e poi del lavoro tardo-capitalista: corpi consumati, malattie ignorate, fatica trasformata in performance per gli occhi di un pubblico che si intrattiene senza percepire il prezzo reale di ciò che vede.
Ma c’è un dettaglio ancora più crudele: la cavallerizza, nonostante tutto, continua a sorridere, a trullare sul cavallo, a lanciare baci. La sua funzione non è soltanto quella di sopravvivere allo spettacolo, ma di renderlo gradevole, di mascherare la sofferenza sotto la finzione della gioia. È il volto dipinto di rosso che copre il pallore della malattia, è l’inganno dell’apparenza che rende invisibile la verità del dolore. Qui Kafka tocca una corda che riguarda non solo il circo, ma l’intera esistenza sociale: quante volte l’essere umano è costretto a sorridere, a fingere, a mostrarsi entusiasta mentre dentro di sé è logorato?
Lo spettatore di galleria, posto davanti a questa scena, ha una sola possibilità: la rivolta. Scendere i gradini, interrompere lo spettacolo, gridare che basta. Ed è significativo che Kafka gli riconosca questa potenzialità, questa carica rivoluzionaria. Per un istante, il giovane spettatore diventa l’eroe possibile, colui che potrebbe spezzare la catena, che potrebbe rivelare la verità e liberare la cavallerizza. Ma questo rimane nel condizionale: “forse allora” scenderebbe, “forse allora” interromperebbe. È un gesto che non avviene, che resta sospeso nell’ipotetico.
Così la prima ipotesi di “In galleria” si chiude su una nota di impotenza: la scena della condanna è costruita, è possibile, ma non accade. Kafka la pone davanti ai nostri occhi come un sogno negativo, come un’ombra che incombe, ma che subito viene ribaltata dalla seconda versione. Non è questo che avviene realmente, ci dice, ma potrebbe avvenire: e se accadesse, saremmo costretti a ribellarci.
Questa prima immagine, dunque, funziona come monito e come specchio. Mostra cosa significa la vita quando diventa ingranaggio, quando il corpo si consuma per alimentare un meccanismo che non concede tregua. Mostra la crudeltà della folla che applaude senza coscienza, e la violenza di un potere che brandisce la frusta come puro segno d’autorità. Ma mostra anche la possibilità, seppur non realizzata, di una ribellione: un giovane che, vedendo l’ingiustizia, potrebbe dire basta.
“In galleria” si apre con questa immagine, e già in essa si concentra tutto il peso della modernità kafkiana: alienazione, spettacolo, sofferenza invisibile e desiderio represso di liberazione.
Capitolo 4. La cavallerizza radiosa: incanto e celebrazione
Dopo aver sollevato davanti a noi l’immagine insostenibile della cavallerizza tisica, Kafka compie un gesto che ha la forza di un rovesciamento teatrale: ci dice che non è così. Non la decrepitezza, non il supplizio, non la crudeltà senza fine. La realtà che ci viene mostrata è un’altra: sul palcoscenico entra una donna bella, giovane, fresca, con il volto bianco e rosso, quasi icona di salute e di grazia. Non più l’agonia del corpo che resiste all’usura, ma la leggerezza di un’apparizione che sembra scivolare tra le tende come se fosse portata da un vento propizio.
Il direttore, che prima era figura di potere implacabile, qui muta radicalmente. Non è più il carnefice che brandisce la frusta, ma un servitore devoto, quasi un padre premuroso. Ansima, si commuove, si avvicina a lei con un rispetto che sfiora l’adorazione. Quando la solleva sul cavallo, non compie un gesto meccanico, ma un atto carico di tenerezza: la colloca sul dorso dell’animale come se fosse la nipotina amatissima che intraprende un viaggio pericoloso. Ogni suo movimento è attraversato dall’ansia e dalla cura. La frusta, che prima colpiva con crudeltà, ora si abbatte con esitazione, come se dovesse vincere una resistenza interiore. È uno strumento che non serve più a punire, ma a compiere un rito, a segnare l’inizio di un numero che appare come una cerimonia sacra.
La cavallerizza, a sua volta, non è un corpo consumato, ma un corpo che incarna la grazia. Ogni suo salto è seguito con occhi spalancati dal direttore, che sembra incapace di contenere lo stupore. Non è più spettacolo di sofferenza, ma spettacolo di incanto. L’orchestra, il pubblico, gli stallieri: tutto si trasforma in un contorno che amplifica la centralità di questa figura luminosa. Quando si avvicina il grande salto mortale, il direttore stesso supplica l’orchestra di tacere, come se volesse garantire a quell’istante una solennità assoluta, un silenzio degno di un rito religioso.
Ed è proprio qui che la scena raggiunge la sua apoteosi: la cavallerizza, sorretta dal direttore, scende in punta di piedi, avvolta dalla polvere, con le braccia aperte e la testa rovesciata, come se fosse una creatura angelica che distribuisce la propria felicità al mondo intero. È un’immagine di epifania, un’apparizione che sospende il tempo e che sembra travolgere ogni altra realtà. Non più supplizio, ma trionfo; non più condanna, ma celebrazione.
Il pubblico applaude, ma ogni tributo sembra insufficiente. La cavallerizza non è un’artista che riceve un riconoscimento: è un essere che suscita devozione, che trasforma la folla in una comunità adorante. Non c’è distanza tra lei e il pubblico, non c’è più separazione tra artista e spettatore: il gesto delle braccia spalancate, la polvere che si alza, la luce che si riflette sul corpo, creano un’unità che travolge. L’intero circo diventa spazio sacro, tempio improvvisato in cui il rito della grazia si compie davanti agli occhi di tutti.
Eppure, proprio in questo splendore, si annida una sottile inquietudine. Perché la bellezza, così assoluta e così folgorante, non lascia spazio all’azione dello spettatore. Laddove la cavallerizza tisica avrebbe spinto il giovane a ribellarsi, la cavallerizza radiosa lo immobilizza. Non c’è nulla da interrompere, nulla da correggere, nulla da salvare: resta soltanto da contemplare, da lasciarsi trascinare, da accettare la commozione che sgorga senza controllo. Così, mentre nella prima scena la rivolta era possibile, qui la resa è inevitabile. Lo spettatore non scende più le scale, non urla, non si oppone: poggia il volto sul parapetto e piange, “senza saperlo”, rapito dall’incanto.
Il rovesciamento, dunque, non è soltanto estetico, ma etico: la bellezza paralizza, la grazia trattiene, la felicità condivisa diventa catena invisibile. Kafka non ci mostra soltanto due versioni dello stesso spettacolo, ma due forme opposte di rapporto con il reale: da un lato la crudeltà che spinge alla ribellione, dall’altro l’incanto che disarma ogni resistenza.
Questa seconda ipotesi, apparentemente più consolante, non è meno inquietante della prima. Anzi, in un certo senso lo è di più, perché ci mostra come la bellezza stessa possa diventare un meccanismo di immobilizzazione. Non ci obbliga con la frusta, ma con la dolcezza. Non ci schiaccia con la sofferenza, ma ci ipnotizza con la gioia. E lo spettatore, senza rendersene conto, diventa parte di un sogno che lo trascina in lacrime, incapace di opporsi.
Capitolo V – L’inquietudine dello spettatore
Lo spettatore, nel racconto kafkiano, non è mai un semplice osservatore. È una figura sospesa, condannata a un doppio movimento: da un lato rimane immobile nella sua posizione marginale, dall’altro è già in potenza colui che potrebbe rompere l’incanto, attraversare lo spazio della distanza e intervenire. L’inquietudine che lo abita non è data tanto dallo spettacolo in sé, quanto dalla coscienza della sua responsabilità: egli sa che potrebbe scendere, sa che le sue gambe sarebbero capaci di percorrere le scale, eppure non lo fa. Questo trattenersi, questo “non-atto”, è il cuore stesso dell’angoscia che Kafka rappresenta.
È come se il giovane in galleria fosse prigioniero della sua posizione, non per vincoli esteriori ma per l’intima paralisi che l’esperienza dell’arte produce. Vedere è un atto passivo, ma in Kafka non lo è mai del tutto: lo spettatore vede troppo, vede oltre. E questo eccesso di visione si trasforma in impossibilità d’azione. La consapevolezza lo inchioda, lo rende estraneo a sé stesso e al pubblico che applaude. L’applauso, infatti, è una macchina anonima, un rumore uniforme che assorbe le singolarità; il giovane, invece, sente di non potersi unire a quella corrente indistinta, e tuttavia non trova la forza di opporvisi.
Questa tensione richiama un tema costante nell’opera kafkiana: la colpa senza colpa, l’attesa di un compito che non viene mai chiarito, il sentirsi investiti di una missione impossibile da compiere. Lo spettatore non riceve alcun ordine, ma lo percepisce lo stesso: come un richiamo interiore, un imperativo che lo logora. Da qui il paradosso: Kafka non descrive semplicemente un circo, bensì una metafora del mondo moderno, in cui l’individuo assiste a spettacoli sociali, politici e culturali che lo inquietano, ma nei quali si sente impotente, inchiodato a una platea che non ha scelto.
L’inquietudine dello spettatore è allora l’inquietudine di ciascuno di noi, costretti a guardare lo spettacolo della storia senza poterlo interrompere, intrappolati in un eterno dilemma: restare immobili e complici, o intervenire rischiando il crollo dell’intero scenario. Kafka, con la sua crudele chiaroveggenza, mostra che quasi sempre scegliamo la prima via, e che il nostro pianto – come quello del giovane in galleria – sgorga non per pietà verso la cavallerizza, ma per l’oscura consapevolezza della nostra stessa passività.
Capitolo VI – Il direttore di circo come figura del potere
Il direttore che Kafka mette in scena non è un semplice impresario di spettacolo. Egli non appartiene al piano realistico di un circo qualsiasi, ma incarna una funzione: quella del potere, dell’autorità che organizza, disciplina e al tempo stesso soffre dell’atto artistico. È un personaggio sdoppiato, che vive nel paradosso. Da una parte è inflessibile, pronto a brandire la frusta, a pretendere il massimo dalla cavallerizza, a garantire che lo spettacolo non si interrompa mai. Dall’altra, Kafka ce lo mostra quasi supplice, incapace di colpire con decisione, come se l’affetto e la paura lo rendessero esitante. È un’autorità fragile, che non riesce a esercitare pienamente se stessa.
Questa fragilità non è un dettaglio pittoresco, ma la chiave interpretativa. Il potere, nel mondo kafkiano, non è mai saldo e trasparente: è un enigma, un meccanismo che si sostiene solo grazie al riconoscimento di chi lo osserva. Il direttore corre accanto al cavallo, ansima, guarda la cavallerizza con occhi devoti, cerca di proteggerla e allo stesso tempo di spingerla oltre il limite. La sua autorità è spasmodica, continuamente in bilico tra il comando e la supplica, tra la violenza e l’adorazione. È come se egli fosse schiavo del medesimo spettacolo che dovrebbe governare.
Qui Kafka anticipa una delle intuizioni più profonde della modernità: il potere non è mai assoluto, ma sempre incompleto, e si fonda su un gioco teatrale in cui il governante e il governato sono entrambi attori. Il direttore non può vivere senza la cavallerizza, perché è lei a dargli un senso, è lei a trasformare il suo gesto in qualcosa di visibile. Allo stesso modo, la cavallerizza ha bisogno di lui, perché solo il suo comando, il suo ordine, il suo fischio o il suo colpo di frusta trasformano la sua destrezza in spettacolo. L’arte, dunque, non è autonoma, ma legata a un dispositivo di potere che la rende possibile e insieme la soffoca.
Si potrebbe dire che il direttore rappresenti, nella pagina kafkiana, l’immagine del legislatore, del sovrano, del burocrate onnipresente che regola senza mai riuscire a possedere del tutto ciò che regola. È una maschera che si dibatte tra l’esigenza di ordine e l’incapacità di controllare la vita che gli sfugge. Da questo punto di vista, il direttore è specchio del giovane spettatore: entrambi sono intrappolati, entrambi incapaci di agire secondo la propria volontà piena. L’uno è spettatore, l’altro è sovrintendente, ma la loro condizione di impotenza è parallela.
Kafka suggerisce così una verità amarissima: anche chi comanda, in fondo, non comanda davvero. Anche chi regge la frusta è schiavo di un ordine superiore, di un copione che non ha scritto. Il direttore si inginocchia, prega l’orchestra di tacere, invoca gli stallieri, eleva le mani: tutti gesti che svelano la natura disperata e insicura del potere. L’autorità non si manifesta come forza granitica, ma come atto nervoso, incerto, quasi febbrile. Il potere non è mai saldo, ma sempre tremante, come il cavallo sotto la cavallerizza.
Capitolo VII – La cavallerizza come corpo artistico e sacrificio
La cavallerizza di Kafka non è un semplice personaggio di contorno: è il fulcro del racconto, la figura su cui converge lo sguardo di tutti, dal direttore ansimante al pubblico che applaude, fino al giovane spettatore in galleria. È il corpo esposto, fragile e insieme invincibile, che trasforma lo spettacolo in un rito collettivo. Nella sua leggerezza sospesa, nei suoi salti calibrati, nella sua grazia che sembra sfidare la caduta, ella non rappresenta soltanto un’artista circense, ma il destino dell’arte stessa.
Kafka la descrive con tratti contrastanti: da un lato bella, luminosa, quasi angelica; dall’altro continuamente minacciata dal rischio, dal pericolo, dalla possibilità del crollo. Il suo corpo diventa campo di battaglia tra vitalità e rovina, tra celebrazione e sacrificio. Non è un caso che, in alternativa, l’autore evochi la visione della cavallerizza decrepita e tisica, costretta a esibirsi su un cavallo traballante. Le due immagini – quella della giovinezza radiosa e quella della decrepitezza disperata – non sono separate, ma convivono: la bellezza dell’istante porta in sé l’ombra del suo sfacelo.
La cavallerizza, dunque, è simbolo della condizione dell’artista, costretto a offrirsi in pasto allo sguardo altrui, a mantenere un equilibrio impossibile sotto l’assillo del comando e della disciplina. Ogni suo salto è un atto di obbedienza e al tempo stesso di ribellione: obbedienza al direttore che le impone la prova, ribellione perché, nell’atto del salto, ella si sottrae a ogni controllo, librandosi in un’aria che nessuno può governare. È in quel momento che l’arte mostra il suo nucleo di libertà, fragile ma invincibile.
Eppure, questa libertà non è mai pura. È attraversata dalla polvere che avvolge la scena, dall’ansia che si legge nel volto del direttore, dal brusio incessante del pubblico. L’artista non esiste in solitudine, ma è sempre immerso in una rete di sguardi, di aspettative, di comandi. La cavallerizza divide con il circo intero la sua felicità, ma questa felicità è contaminata, segnata dalla fatica e dalla pressione. È un dono che non può essere integro, perché l’arte, in Kafka, è sempre ferita, sempre segnata da un’ombra di sacrificio.
In lei si incarna anche una dimensione femminile, vista con ambivalenza: la grazia, la delicatezza, l’elevazione, ma anche la vulnerabilità, l’essere esposta e consumata dallo sguardo maschile che la circonda. Il direttore la solleva come fosse una nipotina, la protegge e insieme la sfrutta. Il pubblico la acclama, ma il suo applauso è una macchina anonima che divora l’individuo. La cavallerizza diventa così immagine di un corpo femminile costretto a essere simbolo, emblema, spettacolo, senza mai potersi appartenere del tutto.
Kafka tocca un punto vertiginoso: l’arte, come la cavallerizza, non è mai autonoma. È sempre sottoposta a una logica di esposizione e di consumo, sempre sospesa tra la gloria e la distruzione. E proprio in questa condizione estrema, quasi insopportabile, risiede la sua potenza.
Capitolo VIII – Il pubblico come macchina collettiva
Nel racconto kafkiano, il pubblico non ha volto. Non c’è mai un individuo riconoscibile tra le file della platea: non un nome, non un gesto singolare che si stacchi dal coro. È una massa indistinta, rumorosa, instancabile, che applaude come se fosse un congegno automatico, senza mai fermarsi, senza mai esaurirsi. Kafka, con la sua precisione chirurgica, non lo descrive come un insieme di persone, ma come una macchina: “mani che propriamente sono magli a vapore”. L’immagine è crudele e geniale, perché mostra come l’applauso – atto che dovrebbe esprimere calore umano, emozione condivisa – venga ridotto a rumore meccanico, a energia impersonale che schiaccia ogni soggettività.
Il pubblico è la vera potenza che governa lo spettacolo. Non il direttore, non la cavallerizza, non lo spettatore in galleria, ma l’insieme indistinto degli sguardi e delle mani che, unendosi, diventano una macchina di consenso. È il pubblico che pretende che lo spettacolo continui, che alimenta il ritmo frenetico della scena, che trasforma la fatica della cavallerizza in un rito necessario. L’orchestra può tacere o suonare, il direttore può esitare o gridare, ma il pubblico rimane: la sua persistenza è assoluta, come un dio che non si mostra mai eppure decide tutto.
In questa descrizione, Kafka coglie un tratto che oggi appare ancora più attuale: la trasformazione delle masse in apparati anonimi di consumo. Il pubblico non è lì per comprendere, ma per applaudire. Non osserva con attenzione, non riflette, non giudica con discernimento: produce rumore, alimenta la macchina dello spettacolo. La sua funzione non è critica, ma produttiva: alimenta la ripetizione, impone che la scena si protragga all’infinito. In questo senso, il pubblico è complice della sofferenza dell’artista, ma in modo innocente, quasi inconsapevole. È un ingranaggio che non pensa, ma agisce.
Eppure, proprio qui si annida la tragedia. Perché il pubblico non è altro che la somma di individui che, presi singolarmente, potrebbero anche provare pietà o disagio, ma che, fusi insieme, diventano un meccanismo che annienta ogni sentimento personale. La massa non conosce la compassione: conosce soltanto il proprio ritmo, il proprio fragore. Così, il pianto dello spettatore in galleria si contrappone alla voce collettiva che applaude: il singolo che soffre e non sa perché, contro la moltitudine che rumoreggia e non pensa.
Questa opposizione rivela un punto essenziale della poetica kafkiana: l’isolamento dell’individuo di fronte alla collettività. Lo spettatore è solo, non perché nessuno altro sia presente, ma perché la presenza degli altri non ha volto, non ha voce, non ha pietà. È in questo divario che si colloca la vertigine kafkiana: l’arte non è mai un rapporto intimo tra artista e spettatore, ma un sacrificio consumato da una macchina anonima che pretende senza sosta.
In definitiva, il pubblico del circo è il vero “tribunale” del racconto. Non giudica con sentenze, non emette verdetti: applaude, e questo basta. Ma in quell’applauso si condensa la più terribile delle condanne, perché rende impossibile ogni interruzione, ogni atto di ribellione. Lo spettacolo deve continuare, sempre.
Capitolo IX – Musica, rumore e ipnosi collettiva
Un altro elemento cruciale di “In galleria” è la presenza costante della musica, che Kafka descrive non come semplice accompagnamento, ma come forza viva e spesso minacciosa. L’orchestra non suona per allietare lo spettatore: produce un fragore incessante, un ritmo che trascina e soffoca insieme. I suoni diventano corpo, diventano aria compressa che avvolge cavalli, artisti e pubblico. È come se ogni nota fosse un’onda che spinge, un vento che impedisce la fuga, un vincolo invisibile che lega tutti gli attori dello spettacolo in un unico, continuo movimento.
Kafka insiste su questa impressione di ipnosi: la musica è un rumore che obbedisce alla scena ma, al contempo, domina la scena stessa. Nel passo in cui descrive lo spettatore in galleria, il “fragore dell’orchestra e dei ventilatori” diventa un elemento che comprime, che ostacola la volontà di intervenire. L’orchestra è parte del dispositivo di potere: crea tensione, scandisce il ritmo dello spettacolo, amplifica l’effetto della cavallerizza, sottolinea l’ansia del direttore e scandisce la partecipazione del pubblico. Non è un accompagnamento neutro: è un corpo, un’energia che penetra nel sistema e ne guida ogni azione.
L’ipnosi collettiva generata dalla musica ha anche una valenza simbolica. Kafka ci suggerisce che la percezione del reale è sempre mediata da forze che ci trascinano, che modellano il nostro sguardo e la nostra esperienza. L’arte, in questo caso, diventa un meccanismo di soggiogamento dolce: il fragore non punisce direttamente, non schiaccia come la frusta, ma costringe a seguire un ritmo, a sincronizzarsi con un ordine invisibile. Lo spettatore che poggia il viso sul parapetto, travolto dall’applauso e dalla musica, non piange soltanto per la gioia o per il dolore, ma per l’esperienza totale di essere incorporato in un sistema più grande di lui, in cui la volontà individuale è sospesa.
La musica diventa dunque metafora di molteplici dinamiche: del potere, della massa, della disciplina, ma anche della fascinazione estetica. La tensione prodotta dall’orchestra è duplice: da una parte amplifica il rischio e il trionfo della cavallerizza, dall’altra obbliga lo spettatore a riconoscere la propria impotenza, a sentirsi parte di un meccanismo che lo travolge. Non c’è separazione tra suono e gesto, tra movimento e percezione, tra artista e spettatore: tutto è un flusso continuo, in cui la realtà si confonde con l’illusione, e la contemplazione con il coinvolgimento obbligato.
Kafka ci offre così una visione totale dello spettacolo: non come semplice narrativa circense, ma come metafora della modernità, dove suoni, gesti e corpi si intrecciano per creare uno spazio che afferra l’individuo e lo sospende tra meraviglia e oppressione. L’orchestra, il pubblico, la cavallerizza e il direttore formano un unico organismo: la galleria stessa diventa un’entità viva, respirante, in cui la realtà quotidiana e l’arte si mescolano fino a confondersi.
Capitolo X – La scala e il gesto potenzialmente rivoluzionario
La scala, nell’“In galleria”, non è un semplice elemento architettonico: è simbolo della possibilità di azione, della scelta tra l’immobilità e l’intervento, tra l’osservazione passiva e la ribellione. Kafka insiste sul percorso dello spettatore che, dall’alto della galleria, potrebbe “scendere di corsa la lunga scala attraverso tutti gli ordini di posti”. Questa discesa non è un gesto banale: è la metafora di un atto morale, di una decisione che potrebbe interrompere il meccanismo dello spettacolo e porre fine alla sofferenza, reale o simbolica, della cavallerizza.
La scala rappresenta il passaggio tra due mondi: quello della contemplazione e quello dell’azione. Dall’alto, lo spettatore osserva tutto, vede ogni dettaglio, percepisce le tensioni, le paure, le forze in gioco. Ma restando immobile, rimane impotente. La discesa, invece, significherebbe interrompere l’equilibrio apparente, modificare il corso degli eventi, introdurre un elemento di caos che rompe la perfezione del rito circense. È un gesto di responsabilità, di coraggio, di liberazione, ma Kafka lo sospende nel condizionale: “forse allora…”. L’incertezza è totale: la possibilità esiste, ma non si realizza.
In questa ambivalenza risiede la grandezza della pagina kafkiana: il potere dello spettatore non è negato, ma rimane sospeso. La scala diventa simbolo della libertà possibile, ma della libertà che richiede rischio. Ogni gradino rappresenta una scelta: il coraggio di agire contro la folla, contro il potere del direttore, contro la magia seducente della cavallerizza radiosa. E ogni passo rischia di spezzare l’illusione, di rompere l’incanto, di provocare un crollo nel sistema che sembrava perfetto.
Inoltre, la scala simboleggia anche la distanza tra il singolo e la collettività. Dall’alto, lo spettatore è separato dalla massa, osserva come estraneo e insieme come parte integrante del meccanismo. La discesa significherebbe avvicinarsi al pubblico, intervenire nella logica della massa, smascherare la macchina che trasforma l’applauso in martello. È l’atto che potrebbe ristabilire la centralità dell’individuo, il primato della coscienza e della volontà.
Kafka ci lascia in sospeso: la scala è lì, visibile, ma il gesto non avviene. L’immagine è potente perché mostra che la rivoluzione non è impossibile, ma richiede coraggio e decisione, che il giovane spettatore non ha o non trova. Eppure, proprio in questa sospensione, si concentra la tensione etica del racconto: la consapevolezza di ciò che potrebbe essere, la visione di un mondo in cui l’azione individuale ha un peso reale.
Così, la scala non è solo un oggetto fisico, ma un simbolo morale: la linea di demarcazione tra impotenza e potere, tra sogno e realtà, tra osservazione passiva e partecipazione attiva. Ogni lettore, seduto nella propria “galleria”, riconosce in quella scala la propria possibilità di scelta, la propria responsabilità di intervenire o di rimanere inerte. Kafka costruisce così un meccanismo di tensione universale: ogni gradino è un bivio etico, e ogni discesa sospesa è un invito a confrontarsi con la propria capacità di agire nel mondo.
Capitolo XI – La polvere e l’effetto sensoriale della scena finale
Uno degli aspetti più straordinari di “In galleria” è la cura maniacale con cui Kafka descrive gli elementi sensoriali della scena, e tra questi la polvere assume un ruolo centrale. Non è un dettaglio decorativo: la polvere avvolge la cavallerizza, si alza come un velo luminoso intorno al corpo sospeso, crea un alone che trasforma la realtà in sogno, e al tempo stesso sottolinea la fatica e la fragilità della sua performance.
Quando Kafka scrive che la cavallerizza è “avvolta da una nube di polvere, con le braccia spalancate e la testolina rovesciata”, ogni parola è calibrata per far percepire il peso e la leggerezza insieme. La polvere, materiale solido e fine, sospende il movimento, lo rallenta e lo evidenzia. Cattura la luce, accentua i gesti, trasforma la scena in un fenomeno quasi mistico, in cui il corpo dell’artista sembra fluttuare tra la realtà tangibile e un altrove impalpabile.
La polvere è anche simbolo del tempo e della fatica accumulata. Ogni salto, ogni trullo, ogni gesto della cavallerizza lascia traccia, e la nube di polvere è il resoconto visibile di tutta l’energia consumata per quel numero. È memoria del movimento, testimonianza dell’impegno, indice della vulnerabilità del corpo che resiste all’usura e allo sguardo collettivo. La leggerezza apparente non cancella il lavoro e il sacrificio: la polvere li rende visibili, li rende reali anche nell’incanto.
Inoltre, la polvere accentua il distacco tra lo spettatore e la cavallerizza. Essa delimita uno spazio etereo, una barriera sottile che protegge e insieme separa. Il giovane in galleria può vedere tutto, può percepire la magnificenza, ma non può toccarla, non può interromperla, non può possederla. La polvere diventa così metafora del limite tra percezione e partecipazione, tra sogno e azione. Essa rende la scena irraggiungibile, amplifica la suspense emotiva, costruisce un effetto di vertigine visiva e psicologica.
Kafka riesce, con la polvere, a far coincidere la dimensione estetica con quella etica. La bellezza del gesto non è neutra: nasce dalla fatica, dal rischio, dall’attenzione del direttore e dall’energia del pubblico. La polvere sospesa è il segno di questa convergenza, la manifestazione visibile di un equilibrio instabile tra incanto e tensione, tra gioia e consapevolezza della precarietà.
Infine, la polvere sottolinea la temporalità sospesa della scena finale. Non c’è più il prima e il dopo: tutto è concentrato nell’istante in cui la cavallerizza raggiunge la perfezione dei gesti, mentre il corpo del direttore la sorregge e il pubblico applaude. La polvere cristallizza questo momento, lo rende eterno nella percezione dello spettatore, e al tempo stesso fragile: basta un gesto, un passo falso, un respiro diverso perché l’illusione crolli.
In questa cura del dettaglio sensoriale, Kafka trasforma la pagina in un’esperienza quasi cinematografica: il lettore non osserva semplicemente, ma sente la polvere sollevarsi, percepisce il calore della luce, il fruscio dei movimenti, l’odore dell’arena. Ogni elemento contribuisce a costruire la tensione emotiva, a creare uno spazio in cui il reale e il simbolico si fondono in modo inscindibile.
Capitolo XII – Il pianto dello spettatore: gesto metafisico
Il pianto dello spettatore in galleria non è un pianto comune: non scaturisce da dolore personale, né da una semplice emozione estetica. È un pianto metafisico, che nasce dalla consapevolezza della propria impotenza di fronte a un meccanismo più grande, della propria impossibilità di modificare ciò che si svolge sotto i suoi occhi. Kafka lo descrive con precisione: “affondando nella marcia finale come in un sogno greve, piange senza saperlo”. Non c’è volontà, non c’è intenzione: il pianto sgorga come effetto inevitabile della tensione accumulata, della meraviglia e del timore che lo spettatore prova.
In questo gesto si condensano tutte le dinamiche del racconto: il sacrificio della cavallerizza, la tensione del direttore, la forza meccanica del pubblico, la musica dell’orchestra, la possibilità inesaudita della discesa lungo la scala. Il pianto è il punto di convergenza, il segno che tutto ciò che si è osservato ha colpito l’animo fino a un limite estremo. Non è semplice commozione, ma esperienza radicale dell’inadeguatezza, della subordinazione, della partecipazione forzata a un rito che travalica l’individuo.
Il pianto metafisico dello spettatore porta con sé una rivelazione sottile: l’arte, per Kafka, non è mai neutra. Non si limita a rappresentare, a illustrare o a intrattenere: agisce, investe, modifica chi la osserva. La pagina diventa così un laboratorio emotivo, una macchina capace di produrre sensazioni che trascendono la logica ordinaria. Lo spettatore non è libero, eppure il pianto stesso è un atto di libertà involontaria: esprime ciò che la mente non può controllare, ciò che l’individuo non può dirsi o spiegarsi.
Kafka suggerisce che la verità dello spettacolo non risiede nella cavallerizza né nel direttore, né nel pubblico, ma nell’esperienza totale che essi generano insieme. Il pianto, così, è emblematico: segna il punto in cui la soggettività dell’individuo incontra il dispositivo collettivo e la bellezza, riconoscendo al tempo stesso la propria fragilità. È un gesto che unisce corpo e mente, partecipazione e impotenza, coscienza e sogno.
In definitiva, il pianto dello spettatore è la chiave interpretativa di tutta la pagina. È il segnale che Kafka lascia al lettore: la realtà e l’arte, la vita e il rito, la bellezza e la sofferenza non sono mai separabili. Ogni gesto, ogni salto, ogni nota musicale ha un effetto su chi guarda, e chi guarda non può sfuggire. Il pianto è la prova tangibile di questa connessione totale: indica che lo spettacolo ha compiuto il suo destino, ha attraversato la coscienza dello spettatore e l’ha trasformata, anche contro la sua volontà.
Con il pianto, “In galleria” raggiunge la sua apoteosi: non è solo racconto di circo, ma meditazione sulla relazione tra potere, arte, spettatore e collettività. L’esperienza estetica si fa etica e metafisica insieme, e la pagina kafkiana diventa specchio di una condizione universale: quella dell’essere umano sospeso tra desiderio di azione e impotenza, tra incanto e coscienza.
Capitolo XIII – Sintesi e lettura complessiva: “In galleria” come metafora della condizione umana
Arrivati a questo punto, diventa chiaro come "In galleria” non sia semplicemente una pagina sul circo, ma un microcosmo in cui Kafka concentra tutta la complessità della condizione umana. Ogni elemento – la cavallerizza, il direttore, lo spettatore, il pubblico, la musica, la scala, la polvere – opera come parte di un unico organismo simbolico che riflette le tensioni fondamentali della vita: potere e impotenza, osservazione e azione, individualità e collettività, bellezza e sofferenza.
La cavallerizza rappresenta la purezza e la vulnerabilità dell’atto creativo, l’arte esposta al mondo eppure fragile, continuamente minacciata dal peso della performance. Il direttore incarna il potere che è sempre incompleto, sempre sospeso tra autorità e devozione, incapace di controllare completamente ciò che governa, ma al tempo stesso indispensabile al funzionamento del sistema. Lo spettatore in galleria è la coscienza dell’individuo moderno, sospeso tra desiderio di intervento e immobilità, tra responsabilità morale e impotenza concreta. Il pubblico, massa anonima e incessante, mostra come l’energia collettiva possa sovrastare la volontà del singolo, trasformando l’esperienza estetica in un atto di pressione sociale e psicologica.
La scala, metafora dell’azione possibile ma non compiuta, e la polvere, simbolo della fatica, del tempo e della sospensione sensoriale, rendono visibile l’intreccio tra il reale e l’illusione, tra la percezione e la partecipazione. L’orchestra, con il suo fragore incessante, accentua la tensione e crea un effetto di ipnosi collettiva, dimostrando come la percezione umana sia sempre mediata da forze che trascendono il controllo individuale. Infine, il pianto dello spettatore è la manifestazione più pura dell’impatto dell’arte: un gesto involontario che unisce emotività e riflessione, esperienza e comprensione, soggettività e partecipazione.
In questo insieme complesso, Kafka mostra la modernità nella sua crudezza e nella sua bellezza: la tensione tra possibilità e impotenza, la necessità di confrontarsi con il mondo e il desiderio di sfuggirne, la seduzione del bello e l’angoscia del limite. L’“In galleria” diventa così un laboratorio filosofico, etico e psicologico in cui la scena circense si trasforma in metafora universale: il mondo intero è un circo in cui gli individui oscillano tra il desiderio di agire e la paura di infrangere l’equilibrio che li circonda.
La lettura complessiva del testo evidenzia la maestria di Kafka nel combinare la precisione narrativa con la profondità simbolica. La sua scrittura non descrive soltanto eventi, ma costruisce spazi di esperienza in cui il lettore è coinvolto, chiamato a percepire, a sentire, a riflettere. La tensione tra immobilità e azione, tra controllo e abbandono, tra individualità e collettività, non è mai risolta: rimane sospesa, come la cavallerizza nell’aria, e invita chi legge a confrontarsi con la propria condizione.
In conclusione, “In galleria” è un testo che trascende il suo apparente soggetto circense. È un racconto sulla vita, sull’arte e sul ruolo dell’individuo in un mondo complesso e spesso incomprensibile. Kafka ci mostra che la bellezza e la sofferenza sono inseparabili, che l’osservazione porta con sé responsabilità e che la libertà, anche quando possibile, è sempre rischiosa e incompleta. In questo senso, la pagina non è solo letteratura, ma esperienza etica e metafisica: un invito a percepire la vita in tutta la sua tensione, a confrontarsi con la propria impotenza e a riconoscere la grandezza di ciò che, pur senza poterlo controllare, ci travolge e ci trasforma.
Epilogo critico – L’“In galleria” come esperienza estetica e metafisica
L’epilogo di questa analisi vuole restituire la complessità di "In galleria” non come somma di dettagli, ma come esperienza totale, dove ogni elemento narrativo concorre a una visione integrale del mondo kafkiano. Kafka non racconta il circo semplicemente per descrivere un fenomeno spettacolare, ma per costruire un dispositivo simbolico in cui la percezione del lettore si intreccia con la rappresentazione delle dinamiche di potere, della fragilità dell’arte, della responsabilità individuale e della pressione della collettività.
La cavallerizza, il direttore, lo spettatore, il pubblico, l’orchestra, la scala, la polvere: ogni figura e ogni elemento tecnico hanno funzione simbolica, ma insieme generano un effetto unitario che trascende la loro singolarità. La cavallerizza è il corpo esposto dell’arte, fragilissimo eppure straordinariamente potente, il direttore incarna l’autorità incompleta, lo spettatore riflette l’angoscia e l’impossibilità di agire, mentre il pubblico rappresenta la forza anonima e inarrestabile della collettività. La polvere e la musica diventano strumenti sensoriali di sospensione e coinvolgimento, mediatori tra realtà e illusione, tra percezione e partecipazione.
Questa pagina ci mostra come Kafka lavori al limite tra racconto e meditazione filosofica. L’atto estetico non è neutro: coinvolge, trasforma, interroga chi osserva. Il pianto dello spettatore in galleria sintetizza questa esperienza: gesto involontario, metafisico, simbolo della tensione tra desiderio di partecipare e incapacità di incidere sul corso degli eventi. È un gesto che rivela la condizione universale dell’essere umano, sospeso tra osservazione e azione, tra libertà e vincoli, tra consapevolezza e impotenza.
"In galleria” diventa così paradigma della condizione moderna. Ogni lettore, guardando attraverso Kafka la cavallerizza, il direttore, il pubblico e lo spettatore, percepisce la propria posizione in un sistema complesso che mescola bellezza e sofferenza, potere e impotenza, contemplazione e partecipazione. La pagina non offre soluzioni, non chiude la tensione narrativa: lascia sospeso il lettore, lo costringe a confrontarsi con la propria incapacità e con la straordinaria forza dell’esperienza estetica.
In ultima analisi, Kafka costruisce un laboratorio emotivo e intellettuale. La perfezione apparente dello spettacolo circense e la fragile perfezione della cavallerizza riflettono la precarietà della vita, l’inesorabilità del tempo, la tensione tra il desiderio di controllo e l’imprevedibilità del reale. “In galleria” non è solo un racconto: è un invito a comprendere che la bellezza e la responsabilità sono sempre intrecciate, che l’osservazione implica partecipazione, e che la nostra posizione di spettatori, pur apparendo marginale, è centrale nella comprensione del mondo.
Così, chi legge non si limita a osservare Kafka: entra con lui nella galleria, sente il fragore dell’orchestra, il peso della polvere, il battito dei salti della cavallerizza, l’ansia del direttore, la forza impersonale del pubblico, e infine scopre, con il giovane spettatore, il significato del proprio pianto. È un pianto che non ha bisogno di spiegazione, perché rivela l’essenza della condizione umana: fragile, consapevole, sospesa tra incanto e impotenza, tra possibilità e realtà.
In questo senso, “In galleria” non è mai chiuso, mai completo, mai risolto: è uno spazio di esperienza totale, un invito continuo alla riflessione, alla partecipazione emotiva e morale, e alla comprensione della bellezza come atto rischioso e irripetibile. Kafka ci ricorda che osservare è già agire, che comprendere è già partecipare, e che ogni gesto, anche quello involontario del pianto, porta con sé la misura dell’uomo di fronte al mondo.