Questo scritto incomincia e finisce con l’argomento della persona.
La persona che dovrebbe essere lo scrittore, e che pure si sottrae a ogni definizione, come se la scrittura, invece di incarnarla, la consumasse. Forse ogni pagina è una lenta combustione del volto, un modo per cancellare la traccia di chi scrive.
La persona è dunque il punto di partenza e il punto di ritorno, ma anche il centro che si svuota, il luogo che si sposta ogni volta che lo si nomina.
E in questo movimento — continuo, fragile, interminabile — lo scrittore riconosce la propria condizione: quella di non potersi mai dire davvero persona, ma solo eco, approssimazione, ombra del linguaggio che lo contiene.
Noi viviamo in un mondo davvero basso, nel quale ogni altezza viene subito ridotta a superficie, ogni profondità convertita in intrattenimento.
Per adattarsi a questo mondo, il fanciullo che dovrebbe essere lo scrittore abdica — abbandona il proprio stupore, si separa dalla sua innocenza, e si consegna alla caricatura dell’adulto che deve sopravvivere.
In lui resta, forse, un barlume d’estasi, un residuo di quella purezza che non può più manifestarsi se non come nostalgia o delirio [quasi Mallarmé].
Eppure, paradossalmente, è proprio da quella rinuncia che nasce la necessità di scrivere: lo scrittore è colui che tenta di ricordare ciò che ha dimenticato.
Una persona, in questo caso lo scrittore, è quell’io o quel voi, quell’egli o quell’essa che, facendosi oggetto, si osserva.
È un essere che sperimenta se stesso dall’esterno, un punto che tenta di coincidere con la propria traiettoria, e fallisce.
L’esperienza dello scrivere non è altro che il tentativo di contenere questo fallimento, di abitarlo, di tradurlo in un gesto ripetuto e mai uguale.
Scrivere è quindi un atto di doppiezza: vivere e disfare la vita nello stesso tempo.
Scrivendo tento di esprimere qualcosa a qualcuno [e allora faccio comunicazione].
Scrivendo ricompongo i frammenti di un mosaico interiore [e allora faccio invenzione].
Scrivendo svelo le possibilità che si formano nel silenzio [e allora faccio rivelazione].
Eppure, ogni volta che scrivo, qualcosa sfugge: ciò che vorrei dire si allontana, come se la parola, appena pronunciata, tradisse il pensiero che l’ha generata.
Forse la scrittura non comunica, non inventa, non rivela: forse disfa.
È un gesto che toglie, che svuota, che scava la parola fino a farle mostrare il suo nulla.
Mi sorprendo del fatto che appaia qualcosa che non esisteva prima, e che queste parole non ci fossero prima che io le scrivessi.
Questo stupore, che sembra infantile, è invece il segno dell’abisso: perché in esso si rivela il nulla da cui ogni cosa viene.
Ogni parola, per esistere, deve attraversare il vuoto.
E allora sì, ci stiamo accostando all’esperienza della creazione dal nulla — che non è tanto un atto divino, quanto il destino umano della parola che si cerca.
Sono in grado, oggi, gli scrittori d’essere persona?
O sono soltanto sistemi linguistici che parlano da soli, automi che credono di creare?
Lo scrittore, nel suo isolamento, rischia di non essere più nulla: non un individuo, ma una macchina della propria autocoscienza.
E tuttavia, anche in questo rischio, si cela una verità: che la persona, forse, non è un dato ma un processo, un continuo ricominciare dal nulla.
Noi tutti siamo esseri potenzialmente scrittori, e fra noi non c’è che il nulla.
Non esiste una lingua comune, un vero legame: il nostro “fra” è un abisso, non un ponte.
Le parole che diciamo ci separano più di quanto ci uniscano.
Gli scrittori non si parlano: si citano, si riflettono, si duplicano.
E precipitano, ciascuno nel proprio linguaggio, che è la propria solitudine.
Così è che tutti gli esseri umani, o solo alcuni, o nessuno, siano degli scrittori: tutti potenzialmente soli, tutti in ascolto del proprio silenzio.
Desidero definire lo scrittore in modo doppio.
In termini di esperienza: come un centro di orientamento dell’universo prossimo [cioè a dire l’altro].
In termini di comportamento: come l’origine degli atti [cioè a dire l’essere interni solo a se stessi].
Eppure, tra queste due polarità — l’apertura e l’autarchia — lo scrittore resta sospeso.
Egli tenta di orientarsi verso l’altro, ma la forza del proprio nucleo interiore lo riporta sempre dentro di sé, in quella regione dove il linguaggio non è più comunicazione ma eco.
Si può osservare la gente dormire, mangiare, camminare, parlare — e tutto sembra prevedibile, come se la vita fosse una meccanica.
Ma per lo scrittore, questa prevedibilità è intollerabile: egli cerca le crepe, gli attriti, i punti in cui l’essere si sfalda.
E in queste fenditure tenta di trovare la propria voce.
Perciò la sua osservazione non è mai neutra: egli osserva per deformare, ascolta per smontare, guarda per negare.
Eppure, anche qui, l’osservazione può diventare vanità: uno specchio in cui l’io si compiace della propria profondità.
Perfino il silenzio, a volte, può diventare posa.
Senza il miracolo della scrittura non sarebbe accaduto nulla.
Ma il miracolo stesso non accade se non nel momento in cui si dimentica che lo è.
Nulla accade anche in presenza di uno scrittore, perché lo scrittore non genera: lascia che le cose emergano, e in quell’attesa consuma se stesso.
La sua esistenza è sospesa fra due nulli: quello da cui nasce la parola e quello in cui la parola ricade.
Se togliessimo di mezzo ogni cosa — le vesti, le maschere, le stampelle, le truccature, i progetti, i giochi camuffati da rapporti umani — e potessimo incontrarci veramente, cosa ci separerebbe allora?
Forse non più lo scrittore, ma una persona.
Forse non più l’immagine, ma una presenza.
Ma un tale incontro, se mai avvenisse, dissolverebbe entrambi: lo scrittore smetterebbe di scrivere, e la persona cesserebbe di cercarsi.
Se disegno una forma su un pezzo di carta, compio un atto che nasce dalla mia esperienza.
Ma la mia esperienza di che cosa?
Della mia stessa solitudine.
La mia interazione col mondo, al di fuori della scrittura, è nulla.
Ciò che vivo è la superficie di un vuoto che si ripete.
Questo equivale a dire che il fondamento dello scrittore è il rapporto con se stesso, e questo rapporto è l’“è”, l’essere di tutto, e l’essere di tutto è esso stesso un nulla.
Questi signori dell’esperienza vivono in mondi privati, costruiti secondo la propria immaginazione.
Le loro scritture li uniscono solo nell’apparenza: in realtà, li separano, li isolano, li rendono incomunicabili.
Ogni testo è un muro che finge di essere una finestra.
Eppure, in questo inganno, si nasconde una forma di purezza: la fedeltà all’illusione della parola.
Questa regione dello scrivere, la regione del nulla, del silenzio dei silenzi, è l’origine di ogni abbandono della realtà.
Scrivere significa dimenticare che si è nel mondo.
Significa ritrarsi, e nel ritirarsi, esistere in modo più pieno.
Ma là, in quella regione, non ci rapportiamo con nessuno, se non con noi stessi, o con chi ci somiglia — e forse non c’è cosa più inquietante dell’incontro con chi ci assomiglia troppo.
Una luce pre-esistente, un pre-suono, una pre-forma: tutte queste pre-cose non sono nulla se non correlate con chi le riceve, eppure costituiscono l’origine di tutte le cose create da chi scrive.
Sono i fantasmi del linguaggio, le sue attese, i suoi preludi.
E senza di essi, la parola sarebbe muta.
Un’esperienza ancorata alla propria identità, vincolata allo spazio-tempo del proprio essere.
Eppure, proprio in questa ancoratezza, nasce la spinta al distacco: la necessità di trascendere, di andare oltre se stessi.
Tutto un silenzio che precede la formazione, che viene espresso dentro e attraverso il linguaggio, ma che il linguaggio non può dire.
Il linguaggio può solo sfiorarlo, alluderlo, imitarne il ritmo.
E allora si scrive non per dire, ma per mostrare i limiti del dire.
Noi tutti siamo esseri potenzialmente scrittori fra i quali si stende un vuoto che non si lascia colmare, un vuoto che non chiede di essere riempito ma solo riconosciuto nella sua forma pura. Non c’è alcunché che ci unisca, nessuna cosa tangibile, nessuna idea che ci trattenga insieme: scriviamo da margini lontani, da camere separate da pareti di tempo. Ciò che ci tiene in relazione è un intervallo, un “fra” che non si lascia definire, una fenditura che si fa sostanza.
Gli scrittori non si parlano: si rispecchiano. Si citano, si autocitano, si allontanano da sé come da un’altra persona che li imita male. Si inseguono nel proprio linguaggio fino al punto in cui la voce si perde nella sua stessa eco. E lì, proprio lì, precipitano.
Tutti gli esseri umani, o forse solo alcuni, o forse nessuno, sono scrittori. O meglio: scriventi. Ma scrivente non è ancora persona. La scrittura non salva, non rivela, non compone: soltanto nomina ciò che già esiste nell’ombra e non osa dire il proprio nome.
Lo scrittore, nella sua doppiezza, è al tempo stesso origine e specchio. In termini d’esperienza, egli è un centro di orientamento dell’universo prossimo — e per universo prossimo intendo l’altro, la presenza altrui che ci tocca e ci sfiora come vento senza consistenza. In termini di comportamento, invece, è l’origine degli atti, l’essere interno solo a se stesso, chiuso in una geografia che non conosce uscite.
Si può osservare la gente dormire, mangiare, camminare, parlare in modi prevedibili. Ma con gli scrittori l’osservazione è inganno. Il comportamento di uno scrittore è una maschera, e la maschera è già il suo volto. Per capire un gesto bisogna guardare ciò che non accade. Per ogni frase detta ce n’è un’altra taciuta che pesa di più. L’esperienza del rapporto interpersonale diventa una zona d’attrito, un teatro di interferenze: là dove gli altri vivono relazione, lo scrittore sperimenta frizione, rumore, scarto.
Senza il miracolo della scrittura non sarebbe accaduto nulla. Eppure, anche in presenza della scrittura, nulla accade. Nulla può accadere davvero se non dentro l’occhio di chi scrive, nell’interstizio tra un respiro e la pagina. L’atto stesso dello scrivere è la prova di un’assenza.
Se togliessimo ogni cosa — vesti, maschere, stampelle, truccature, progetti in comune, pretesti e giochi — e se potessimo incontrarci veramente, al di là del teatro, che cosa resterebbe? Non più lo scrittore, certo, ma una persona che saprebbe relazionarsi. Ma forse quella persona non sopravviverebbe a lungo. La nudità reciproca non è condizione di incontro ma di smarrimento: due trasparenze non si toccano mai, si attraversano.
Disegnare una forma su un pezzo di carta è un atto di fede: credere che quel segno sia sufficiente a contenere un’esperienza. Eppure la mia interazione col mondo, fuori dall’esperienza della scrittura, è nulla. Scrivo per percepire il mondo, e appena lo percepisco, smette di esistere.
Il fondamento dello scrittore è il rapporto con se stesso. Non un rapporto consolatorio, ma un continuo disvelamento dell’abisso che lo fonda. Questo rapporto è l’“è”, il puro essere di tutto, ma l’essere di tutto è in sé un nulla, e in quel nulla la parola cerca di stabilirsi come forma temporanea, fragile, transitoria.
Questi signori dell’esperienza vivono in mondi di loro privata composizione, universi che non si sfiorano mai, come galassie sospese in un vuoto che è comune solo per definizione. Le scritture che li uniscono, li separano al tempo stesso: ogni testo è un muro che imita una finestra.
La regione dello scrivere è la regione del nulla, del silenzio dei silenzi. È da lì che ogni realtà si dissolve, e da lì che ogni parola si genera. Noi dimentichiamo di trovarci là, interamente e in ogni momento. Da quel luogo senza luogo non ci rapportiamo con nessuno, se non con l’immagine riflessa del nostro stesso scrivere, o con chi, nello specchio, ci somiglia abbastanza da ingannarci.
Una luce preesistente, un pre-suono, una pre-forma: non sono nulla se non in relazione a chi sta al di fuori, eppure costituiscono l’origine di ogni gesto creativo. L’artista attinge alla sorgente oscura di ciò che precede ogni visione, il punto in cui la luce è ancora cieca.
Un’esperienza ancorata all’identità, eppure sempre in bilico sul suo contrario. La scrittura si ancora al sé, ma il sé si sgretola a ogni parola pronunciata. L’identità non è più fondamento ma eco.
Tutto un silenzio che precede la formazione viene espresso dentro e attraverso il linguaggio, e tuttavia non può essere espresso dal linguaggio. Il linguaggio è il mezzo con cui diciamo ciò che esso non può dire. L’atto stesso di parlare è una forma di rinuncia. Tra le parole, negli interstizi, tra le vacuità e le deficienze della sintassi, la verità appare come una fenditura.
Modulazioni di tono e di volume delineano una forma precisa ma mai completa. Le linee non coincidono con la forma, e la forma non è ciò che rappresenta. Confondere le une con l’altra sarebbe un grave errore [quasi Jole De Sanna]. La forma, come la parola, è solo l’ombra del suo movimento.
Può uno scrittore essere veramente se stesso con un altro uomo o con una donna? La domanda resta sospesa, come un ponte che non trova l’altra riva. Ogni tentativo di relazione è un ritorno verso l’interno, un’eco dell’io che non riesce a disfarsi di sé.
Heidegger ci ricorda: “Stanno giocando un gioco / Stanno giocando a non giocare un gioco. / Se mostro loro che li vedo giocare, / infrangerò le regole e mi puniranno. / Devo giocare al loro gioco / di non vedere che vedo il gioco.”
È in questo paradosso che si annida la condizione dello scrittore: il gioco del non dire, il teatro della consapevolezza negata.
Prima di porre l’interrogativo ottimistico — “In cosa consiste un rapporto di interscambio?” — bisogna chiedersi se un rapporto tra scrittori e persone sia possibile. Forse non lo è. O forse le persone, nella nostra condizione attuale, non sono più possibili, poiché potenzialmente tutti siamo scrittori, cioè esseri che si nominano senza riconoscersi.
Nel far uso di un vocabolo, qualunque esso sia, una lettera, un suono, OM, non si può prestare voce al silenzio, né nominare l’innominabile. La parola non è un ponte ma una fenditura.
Ognuno deve rifarsi, a questo punto, alla propria esperienza personale. Eppure anche l’esperienza personale è una finzione. Io scrivo di ciò che accade, ma ciò che accade è già scritto.
La mia esperienza e il mio agire si attuano su un piano sociale di reciproca influenza, di scambi invisibili, di echi che non coincidono mai con le loro fonti. Noi siamo separati e congiunti fisicamente, ma la vera distanza è quella interiore, quella che passa tra un pensiero e la sua formulazione.
Le persone, in quanto corpi, si rapportano nello spazio, ma la loro unità è continuamente divisa dai punti di vista, dall’educazione, dall’ambiente, dalle ideologie, dai temperamenti. L’essere insieme è sempre una disgiunzione coordinata, una somma di solitudini che fingono sintonia.
Non ci interessa colmare lacune né chiudere falle. Non è questione di riempire un vuoto, ma di riconoscere il vuoto come condizione della creazione. Il nulla da cui tutto emerge non è assenza, ma potenzialità assoluta. Ex nihilo, e non in nihilo.
Noi esperimentiamo gli oggetti della nostra esperienza come esterni, ma la loro origine è interna e al contempo oltre noi. Ciò che crediamo di vedere là fuori è solo la rifrazione di un buio più profondo. L’origine delle immagini, delle forme, dei suoni proviene da una sorgente pre-luminosa, un fondo che precede ogni conoscenza.
Se potessimo abbandonare le contingenze e rivelarci nella nostra nuda presenza, forse allora gli scrittori diventerebbero persone, e le persone, finalmente, potrebbero scrivere. Ma un simile evento richiederebbe un miracolo, e il miracolo, come la scrittura, non accade mai nel tempo ma nell’intervallo tra due tempi.
Intanto, cresce l’interesse per la comunicazione e diminuisce quello per comunicare. Tutto si muove verso il suono del dire, non verso il suo contenuto. È un’epoca di linguaggio che parla se stesso, di frasi che si specchiano nel proprio significato.
La creazione è stata giudicata impossibile persino a Dio, ma noi ci ostiniamo a praticarla. Scrivere è un atto di sfida, un miracolo minore che tenta di replicare l’origine. Lorca diceva che bisogna udire la musica delle chitarre di Braque: suoni che si dipingono, colori che si ascoltano.
Lo scrittore non è impegnato nella scoperta, né nella comunicazione. Il suo compito è un altro: permettere all’essere di emergere dal non-essere. E questo, forse, basta.
Lo scrittore d’oggi vive in uno stato di alienazione costante, sacrificando l’essere interiore a un’apparenza esterna. Scrive per affermarsi e, nel farlo, si cancella. Almeno io, che scrittore non sono. Scrivente sì. E, nonostante tutto, persona.
Ogni scrittore vive nel paradosso: desidera essere visto e compreso, e allo stesso tempo teme che la visibilità lo dissolva. La persona, che egli potrebbe essere, resta sempre un’ombra dietro il gesto, un’eco che si insinua tra le parole e che mai si manifesta pienamente. Scrivere significa abitare quell’ombra, darle consistenza senza mai possederla.
Quando le parole emergono sulla pagina, lo scrittore si sorprende: esse non esistevano prima, eppure ora sono lì, autonome, già dotate di un’esistenza propria. La creazione non è più un atto di volontà, ma una testimonianza dell’inesistenza che genera esistenza. Così, ciò che chiamiamo “atto creativo” è in realtà una rivelazione di ciò che non possiamo controllare.
Ciò che scriviamo non ci appartiene: è materia del silenzio, memoria del nulla. La scrittura è una finestra aperta su un vuoto che non può essere riempito. Chi scrive, allora, non comunica davvero: lascia che il mondo interiore si manifesti senza mediazioni, senza assicurazioni di comprensione. È un atto di abbandono totale.
Eppure, ogni gesto di scrittura porta con sé una disciplina rigorosa: modulazioni di tono, ritmo, spaziature, pause. Sono gli strumenti che l’autore possiede per mantenere l’equilibrio tra presenza e assenza, tra parola e silenzio. Ogni frase è una misura, ogni parola un passo sul filo teso del vuoto.
Se ci confrontiamo con gli altri, con altre persone o scrittori, la questione diventa più complessa. Il rapporto tra esseri umani è sempre mediato dal linguaggio, eppure il linguaggio tradisce l’esperienza: nomina ciò che non può dire, mostra ciò che non esiste. Gli incontri reali si trasformano in specchi deformanti, in riflessi di noi stessi, e ogni comunicazione autentica resta sospesa.
Tutti gli atti della vita, anche quelli più comuni, diventano materia di osservazione. Dormire, mangiare, camminare, parlare: ciò che per il mondo appare ordinario, per lo scrittore è un frammento di esperienza da decodificare, un punto di contatto con il silenzio che precede ogni forma. Ma non basta osservare: bisogna riconoscere il vuoto tra ciò che accade e ciò che viene percepito, e imparare a navigare in quell’intervallo.
La scrittura è dunque un atto di responsabilità radicale. Non si tratta di costruire, aggiungere, colmare lacune: si tratta di testimoniare il nulla, di restituire consistenza a ciò che non ha forma. Il nulla da cui nasce l’atto creativo è simultaneamente spazio e tempo, silenzio e materia, assenza e potenzialità. Ex nihilo.
La persona, nell’atto di scrivere, si scopre fragile e completa insieme. Non c’è dominio, non c’è conquista: c’è soltanto la presenza al margine del proprio stesso pensiero, la consapevolezza che il senso è sempre più grande dell’autore e che le parole sono strumenti che lo trasmettono senza possederlo.
Scrivere significa accettare questa tensione: tra l’io che tenta di emergere e il nulla che lo sostiene. Non c’è gerarchia, non c’è supremazia: solo un equilibrio instabile, una danza tra il dire e il non-dire, tra la forma e l’ombra. La scrittura è la prova che l’essere può apparire anche dove non esiste, che la presenza può manifestarsi anche nel vuoto.
In questo, lo scrittore è un testimone: non crea, non determina, non decide. Permette, apre, ascolta. La sua identità si dissolve nel processo stesso di scrittura, ma in quella dissoluzione si scopre il nucleo della persona: la capacità di essere intero, pur senza possesso, di esistere nella relazione con se stessi prima ancora che con gli altri.
E allora lo scrittore non è impegnato in ciò che produce, ma in ciò che accade. Il suo compito non è inventare, comunicare o costruire, ma lasciar emergere l’essere dall’ombra del non-essere. L’atto creativo è, in questo senso, il più radicale atto di libertà: lasciare che ciò che deve apparire appaia, senza interferenze, senza manipolazioni, senza alcun dominio sul processo stesso.
Lo scrittore contemporaneo, così come lo percepisco, vive sospeso tra alienazione e apertura, tra isolamento e desiderio di relazione. Scrive per emergere, ma nello stesso gesto si ritira; si espone, ma si protegge; comunica, ma non si consegna mai totalmente. È uno stato di tensione costante, in cui la persona si definisce soltanto attraverso la propria capacità di osservare, attendere, lasciar accadere.
E io, che scrivo queste parole, mi riconosco in questo stato: non sono lo scrittore nel senso tradizionale, non creo nel senso di possedere o dominare, non comunico pienamente. Scrivente sì. Persona, sì. Ma consapevole che la scrittura non è mezzo, non è scopo: è l’atto stesso di esistere, di testimoniare il vuoto, di concedersi all’essere che emerge dal nulla.
[quasi Mallarmé]
E così, concludendo, la scrittura non chiude, non risolve, non offre risposte. La sua grandezza è la sua stessa insufficienza: il suo miracolo è nascere dal nulla e testimoniare l’assenza, lasciando che la persona — fragile, incompleta, trasparente — emerga come ciò che realmente è, senza maschere, senza sovrastrutture, senza compromessi.
Scrivere è, in definitiva, il gesto di chi accetta il proprio limite e vi riconosce l’origine di tutto ciò che vale la pena di apparire. E in questo, forse, risiede l’unica forma possibile di libertà.
Scrivente sì. E persona.