Nel silenzio che avvolge la materia e nel respiro del vuoto prende forma la poetica di Hidetoshi Nagasawa, artista giapponese che ha eletto l’Italia come dimora del proprio sguardo e del proprio spirito. Non è soltanto un artista nel senso occidentale del termine, ma un viandante del pensiero, un cercatore di equilibri invisibili, di zone intermedie dove la forma si dissolve e si rigenera, dove l’assenza diventa densità, dove lo spazio non è contenitore ma evento. Nagasawa ha portato in Occidente una percezione dello spazio che non mira a riempirlo ma ad ascoltarlo, a farne risuonare le vibrazioni profonde, a coglierne la vita segreta.
La sua opera non nasce da un gesto impulsivo, ma da un ascolto, da un tempo lungo e meditativo che accompagna la nascita di ogni forma. Si tratta di una tensione continua fra il visibile e l’invisibile, fra la materia e la sua ombra, fra ciò che appare e ciò che sfugge. È da questa zona di passaggio, fragile e intensa, che sgorga il suo linguaggio artistico, fatto di equilibrio e rischio, di sospensione e di grazia.
Il suo percorso ruota attorno a un concetto fondamentale della cultura giapponese: il Ma. Questa parola, quasi intraducibile, è la chiave per entrare nel suo mondo. Ma non significa soltanto vuoto, ma intervallo, spazio potenziale, silenzio fertile. È l’attimo tra due suoni, la pausa che dà senso alla musica, la soglia tra due presenze. Nel pensiero orientale, il vuoto non è mai negazione, ma possibilità; è la matrice dove tutto può nascere. Nagasawa ha tradotto questa idea in scultura, in architettura, in gesto: le sue opere non rappresentano il Ma, lo incarnano.
Ogni materiale, dal marmo al bronzo, dal ferro alla carta, diventa il corpo di una tensione invisibile. Le sue installazioni non occupano lo spazio, ma lo risvegliano; non si impongono, ma respirano con ciò che le circonda. Entrare in una sua opera è come entrare in un respiro, in una sospensione dove il tempo sembra fermarsi. Ciò che appare fragile si rivela possente; ciò che sembra pesante si fa leggero; ciò che pare immobile vibra.
L’arte di Nagasawa non è mai chiusa in sé: è un invito, una soglia, un passaggio. Ogni scultura è un luogo dove l’occhio e lo spirito possono sostare, dove il visitatore è chiamato non a “guardare”, ma a partecipare, a essere. L’opera non è dunque un oggetto isolato ma una relazione, una dinamica di forze tra chi crea, chi osserva e lo spazio che li accoglie. Il Ma diventa così anche un metodo di relazione: è il luogo dell’incontro, dell’intervallo tra due coscienze.
In questa dimensione, Nagasawa si pone in dialogo con antiche tradizioni giapponesi, ma anche con il pensiero fenomenologico occidentale, da Merleau-Ponty a Heidegger, dove l’essere si manifesta solo nel suo apparire temporaneo, nel suo darsi e ritirarsi. Le sue sculture, sospese fra pieno e vuoto, materia e respiro, sembrano voler dire che ogni forma è soltanto la traccia momentanea di un equilibrio più grande.
Al centro del suo immaginario vi è anche il tema del viaggio. Ma il viaggio, in Nagasawa, non è soltanto esperienza biografica — quella che lo porta, negli anni Sessanta, a lasciare il Giappone per un lungo itinerario che lo condurrà, in bicicletta, attraverso l’Asia e fino all’Europa — bensì archetipo spirituale. La barca, che ricorre in molte sue opere, è il simbolo di questo attraversamento continuo. È strumento di passaggio, veicolo dell’anima, immagine di precarietà e libertà. Le sue barche, leggere e sospese, non solcano acque reali ma spazi mentali: galleggiano tra due mondi, tra il tangibile e l’impalpabile, tra la memoria e il sogno.
Queste imbarcazioni impossibili — spesso costruite con materiali come marmo, ferro o carta — sembrano contraddire la fisica, ma obbediscono a una legge più sottile, quella della tensione tra gravità e ascesa. Esse diventano metafore del cammino umano, del desiderio di andare oltre, di varcare le soglie della percezione e del tempo.
L’esperienza del viaggio, d’altra parte, ha segnato in modo decisivo la vita dell’artista. Partito dal Giappone negli anni delle contestazioni, Nagasawa attraversa l’Oriente e l’Occidente portando con sé soltanto l’essenziale. Quando approda in Italia, trova in Milano e poi a Volpaia una nuova patria dello spirito. L’incontro con figure come Luciano Fabro, Jole de Sanna, Kounellis e Merz lo introduce in un contesto fertile di scambio, dove l’arte si pensa come esperienza di libertà e di responsabilità. Nagasawa diventa parte di quella generazione che ha trasformato la scultura in un linguaggio mentale e fisico insieme, in cui il peso della materia si coniuga al pensiero, alla tensione etica, al mistero.
Le sue opere dialogano con l’architettura e con il paesaggio in modo organico. Nagasawa non costruisce mai contro lo spazio, ma dentro lo spazio. Ogni intervento nasce da una lunga osservazione del luogo, come se l’artista attendesse che il luogo stesso gli rivelasse il suo segreto. È in questo atteggiamento che risiede la sua affinità con la tradizione del giardino zen, dove l’equilibrio tra pietra, sabbia e vuoto diventa immagine della mente serena. Nelle installazioni di Nagasawa, la pietra e il metallo, pur nella loro resistenza, si aprono a una leggerezza impensata; la geometria diventa meditazione; l’assenza parla.
Un altro aspetto cruciale della sua ricerca è la metamorfosi della materia. Nagasawa trasforma la carta, il bronzo, il marmo o l’oro in stati di coscienza. La carta, in particolare, diventa un elemento centrale del suo linguaggio: da fragile superficie si fa sostanza scultorea, corpo della luce. Attraverso pieghe, tagli e stratificazioni, egli riesce a trasformare ciò che è effimero in un’apparizione solida, come se il pensiero stesso prendesse corpo. È una lezione di umiltà e di rigore, dove la leggerezza diventa forma di resistenza alla pesantezza del mondo.
In questo continuo attraversamento di confini — geografici, linguistici, materiali — si manifesta l’identità duplice dell’artista. Nagasawa è ponte tra culture, traduttore di sensibilità differenti. L’estetica giapponese, con la sua attenzione al vuoto, alla sobrietà e all’impermanenza, si fonde con la sperimentazione concettuale occidentale, erede delle avanguardie e del minimalismo. Il risultato è un linguaggio che non appartiene né all’una né all’altra tradizione, ma a una terra intermedia: quella del pensiero poetico, dove la materia e il tempo si ascoltano reciprocamente.
In questo senso, Nagasawa non è soltanto un artista orientale “trapiantato” in Occidente, ma un alchimista culturale, capace di far reagire due mondi e generare un terzo, nuovo e imprevedibile.
Le sue opere esposte alla Biennale di Venezia, nelle gallerie e negli spazi pubblici europei, hanno portato nel dibattito contemporaneo un senso di silenzio e di concentrazione che appare quasi sovversivo. In un tempo in cui l’arte tende a gridare, Nagasawa sussurra; in un’epoca di accumulo, egli toglie, alleggerisce, scava. Il suo gesto è quello di chi cerca la verità nel minimo, nella linea, nell’intervallo, nella pausa. Così, il suo fare diventa un esercizio spirituale, una disciplina dell’attenzione.
Parallelamente, il suo insegnamento alla NABA di Milano ha lasciato un’impronta profonda. Nagasawa non trasmetteva semplicemente tecniche, ma un modo di essere artista: insegnava a respirare con la materia, a percepire il tempo dell’opera, a lasciarsi condurre dal dialogo invisibile tra mani e spazio. Per molti allievi, la sua presenza silenziosa e rigorosa ha rappresentato un incontro decisivo, un’iniziazione a un’arte intesa come conoscenza e responsabilità.
Nagasawa ci insegna che il vuoto non è privazione ma pienezza, che lo spazio non è distanza ma relazione, che il silenzio non è assenza ma voce profonda delle cose. La sua poetica ci invita a guardare diversamente, a scoprire ciò che si cela tra le forme, nelle pause, nelle ombre. In un mondo che teme il vuoto, egli ci mostra che proprio lì risiede la libertà.
Le sue sculture, che sembrano fluttuare tra cielo e terra, sono ponti verso una percezione più vasta, dove ogni cosa trova la propria misura nel respiro comune dell’universo. L’arte, per lui, non è un fine ma un cammino: un modo di abitare il mondo con consapevolezza, di trasformare il peso in leggerezza, il tempo in contemplazione.
Così, attraverso la sua opera, Hidetoshi Nagasawa ha costruito non tanto oggetti quanto esperienze, non tanto monumenti quanto stati d’animo. Il suo lascito è una filosofia visiva, un invito a “vedere con il corpo”, a sentire la vibrazione dello spazio come parte di noi. In questo senso, il Ma non è soltanto un concetto estetico, ma un principio etico: imparare a rispettare il vuoto, a riconoscere il limite, a celebrare la distanza come forma di relazione.
Nagasawa, infine, ci consegna una lezione di libertà: quella di chi ha attraversato mondi senza mai appartenere completamente a nessuno, di chi ha trasformato la scultura in respiro, il viaggio in conoscenza, il silenzio in presenza. La sua arte rimane un luogo di meditazione, una soglia tra materia e spirito, dove ogni cosa, anche la più minima, vibra di significato. In quel vuoto luminoso che egli chiama Ma, tutto comincia e tutto ritorna: l’origine e la fine coincidono, e ciò che resta è soltanto un respiro, un ritmo di luce, una forma che scompare per rivelare l’invisibile.