giovedì 30 ottobre 2025

La gabbia di Ezra Pound


Un testo che si propone non soltanto come documentazione storica, ma come meditazione critica e poetica sulla prigionia di Ezra Pound nel campo militare americano allestito nei pressi di Pisa alla fine della Seconda guerra mondiale. Una riflessione stratificata, immersiva, che non si accontenta di raccontare i fatti, ma tende ad attraversarli, interrogarli, illuminarli con lo sguardo lungo della coscienza e con la vibrazione profonda della parola. Si tratta di una narrazione che non solo osserva, ma si interroga, che non solo espone, ma espia, nella consapevolezza che ogni umiliazione inflitta a un uomo — anche al più controverso — si imprime nella memoria collettiva come un trauma che ci riguarda tutti.

Esiste un’immagine, una sola, che brucia ancora nel paesaggio interiore della cultura novecentesca. Non è un’icona ufficiale, non è una fotografia stampata nei manuali scolastici, ma una scena interiore, viscerale, incisa nella carne della memoria collettiva come un marchio a fuoco. Un uomo anziano, il cranio rasato, le mani nude, lo sguardo affondato in un tempo senza tempo. Una figura che non ha più un nome, né un titolo, né un destino, ma solo un corpo esposto. Sotto il sole abbacinante di maggio, nel cuore della Toscana ferita, quell’uomo è chiuso in una gabbia metallica — una gabbia vera, con sbarre e filo spinato, montata sul terreno polveroso di un campo militare americano. Quell’uomo è Ezra Pound.

Il luogo è un’area semidesertica tra Coltano e Metato, alle porte di Pisa, in un’Italia distrutta, disorientata, lacerata tra i fantasmi del fascismo e i bagliori inquietanti della liberazione. Il tempo è maggio del 1945. La guerra in Europa si è appena conclusa. Le rovine ancora fumano. I soldati tornano a casa, ma i conti con la coscienza sono appena cominciati. In quel limbo tra la vendetta e la giustizia, tra l’epilogo del conflitto e l’aurora di un nuovo disordine, si decide anche il destino di un poeta.

Non era un criminale nel senso comune del termine, né un soldato in armi. Era un intellettuale. Un uomo che aveva pronunciato parole offensive, deliranti, violente, ma che aveva anche scritto versi di bellezza vertiginosa. Era un cittadino americano che aveva scelto di vivere in Italia, di identificarsi con l’utopia (malata, distorta) del fascismo. Era un caso di tradimento, certo. Ma anche una figura simbolica. Gli americani — che lo catturarono, lo interrogarono, e infine lo rinchiusero in una gabbia come una bestia esotica — non punivano solo un corpo. Punivano un’idea. Punivano la voce. Punivano il poeta.

A quell’epoca, Ezra Pound non era un personaggio marginale. Era una delle colonne del modernismo. Era l’uomo che aveva riscritto le regole della poesia inglese, che aveva sostenuto giovani poeti come Eliot, che aveva fatto da editore a Joyce, che aveva reinventato il verso libero, la sintassi spezzata, la parola scarnificata e musicale. Era un classicista visionario, un medievalista eretico, un sinologo improvvisato, un lettore di testi confuciani, un erudito poliglotta capace di mescolare Dante e l’economia di Silvio Gesell. Era una figura che sfidava le categorie.

Ma era anche, insieme, un ideologo ostinato, un simpatizzante del fascismo, un convinto assertore di teorie economiche antisemitiche. A partire dal 1940, utilizzò i microfoni della radio fascista per trasmettere decine di discorsi infuocati in inglese contro Roosevelt, contro le banche, contro la guerra, contro “l’usura” (da lui interpretata come il peccato originale del capitalismo moderno), e soprattutto contro gli ebrei. Discorsi spesso incoerenti, urlati, ripetitivi, ma sempre martellanti. Quei messaggi raggiungevano le truppe americane e l’opinione pubblica statunitense: una forma di propaganda diretta, violenta, in tempo di guerra. Un’azione che gli valse l’accusa di alto tradimento.

Rapallo, maggio 1945: l’arresto.
Quando venne arrestato dai partigiani nei dintorni di Rapallo, Ezra Pound era calmo. Non fuggì, non si nascose, non si difese. Chiese solo carta e penna. Fu consegnato agli americani come un trofeo scomodo. Ci si sarebbe potuti aspettare un processo, una detenzione ordinaria, un percorso giuridico rispettoso delle regole. Ma la sorte decise altro. O meglio: il potere decise altro.

Fu portato a Pisa, in quel campo provvisorio per prigionieri considerati “pericolosi” o “speciali”. Non era una prigione riconosciuta, non un carcere militare con celle e codici. Era un’area improvvisata, delimitata da recinzioni, con tende da campo, filo spinato e gabbie d’acciaio. Vi erano rinchiusi ex ufficiali fascisti, collaborazionisti, disertori e — tra loro — un vecchio poeta.

La gabbia di Ezra Pound non aveva un tetto. Non aveva un pavimento. Era un quadrato metallico esposto alle intemperie. Di notte veniva illuminata a giorno, con riflettori puntati per impedirgli di dormire. Niente materasso, niente coperte. Niente latrina. Solo terra battuta e occhi addosso. Era una condizione animale, anzi sottoanimale. Una nudità esistenziale.

E lì dentro, lentamente, cominciò a scivolare nel delirio. Lo udirono parlare da solo, declamare versi a memoria, alternare frasi in greco antico e cinese, cantare le lodi di Cavalcanti, citare Confucio, gridare litanie che sembravano sortilegi. I soldati americani lo guardavano con perplessità e fastidio. Per loro era un vecchio matto. Per altri — tra gli ufficiali colti — era un problema. Non si poteva semplicemente eliminarlo. Ma nemmeno perdonarlo. Allora lo si lasciava in quella gabbia, come in un esperimento crudele.

Eppure, da quel luogo disumano, nacque qualcosa. Nacque poesia. Nacquero i “Canti Pisani”. Non ancora scritti, ma già pensati, composti nella mente febbrile di Pound. Quando finalmente gli fu data carta e penna, li trascrisse in furia. Sono canti lirici, spezzati, traversati da dolore e da grazia. In essi, la cultura classica si mescola con gli uccelli del campo, con le ombre dei morti, con preghiere a metà. La sua poesia si fece più tenera, più umana, più fragile. Non fu una confessione, né un pentimento. Fu un canto di rovine.

Dopo alcune settimane, Pound fu trasferito negli Stati Uniti. Lo attendeva un processo per alto tradimento. Ma prima che potesse iniziare, una commissione lo dichiarò “incapace di intendere e volere”. Così fu internato nell’ospedale psichiatrico criminale di St. Elizabeths, a Washington. Ci restò tredici anni. Lì divenne una figura mitica: riceveva visite, rilasciava interviste, scriveva versi, dettava lettere. Era un poeta-recluso, un pazzo-sapiente, un oracolo decaduto.

Alcuni — come i giovani poeti della Beat Generation — lo consideravano un maestro. Altri lo evitavano come un lebbroso. Era un simbolo vivo della contraddizione: la grandezza e la follia, il genio e il crimine, la poesia e l’abiezione.

Nel 1958, dopo una lunga campagna internazionale, Pound fu liberato. Tornò in Italia. Aveva perso tutto: reputazione, patria, tempo. Si stabilì a Venezia. Visse in silenzio, passeggiando lungo la laguna, visitando il cimitero di San Michele, come in una liturgia privata. Parlava poco, scriveva ancora meno. Alcuni videro nel suo silenzio un rifiuto del mondo. Altri una forma estrema di poesia muta. Morì nel 1972. Fu sepolto sull’isola di San Michele, come aveva desiderato. Accanto a lui, Olga Rudge, la donna che gli fu accanto tutta la vita.

Quella gabbia resta, ancora oggi, come simbolo. Non solo del potere che umilia, ma del linguaggio che fallisce. Gli americani imprigionarono un poeta, e così facendo colpirono la poesia stessa. Ezra Pound non fu giustiziato, ma fu sfigurato. La sua parabola ci interroga ancora: sulla giustizia e sulla vendetta, sulla libertà della parola, sul diritto alla follia, sul limite dell’arte e sul suo prezzo.

Ogni volta che parliamo di censura, di voce poetica, di colpa e redenzione, la sagoma di quella gabbia riemerge. E dentro, da qualche luogo che non è più storia ma coscienza, Ezra Pound ci sussurra ancora:


“What thou lovest well shall not be reft from thee.”