Potrei cominciare da un rumore, non da una sedia.
Un rumore sottile, quasi impercettibile, come di un insetto che batte le ali contro il vetro chiuso. È un suono che non disturba ma insiste, come un pensiero che non vuole saperne di farsi dimenticare. È così che mi sento questa sera, prima dell’incontro con i miei lettori: come un ronzio inutile, ma inamovibile, nel silenzio che precede un evento che non so se ho davvero voluto.
Li immagino già seduti.
Non hanno facce precise — non più — ma un insieme di tratti che si confondono, si sovrappongono come parole cancellate e riscritte troppe volte. Alcuni sembrano più giovani di quanto dovrebbero, altri più vecchi di quanto ricordassi. Tutti, però, conservano quel riflesso negli occhi, quella fame di chi aspetta che un autore gli restituisca, magari per sbaglio, una briciola di verità.
Io non ne ho più, di verità.
O meglio, ne ho troppe, e nessuna adatta a un pubblico. Le ho sparse, dimenticate, come pezzi di pane lanciati agli uccelli in un parco che ormai nessuno frequenta più.
Eppure loro sono lì.
Li sento respirare. Li riconosco dalle pause che fanno quando non sanno se ridere o no, se scandalizzarsi o applaudire. È la stessa esitazione che ho io quando scrivo — la pausa tra la parola detta e quella che non dovrei dire.
Sono venuti per quello, del resto. Per quel tipo di inciampo.
Loro, i miei lettori, amano il momento in cui scivolo.
Amano quando la frase perde il controllo, quando la scena si apre troppo, quando il corpo dietro le parole s’intravede, e loro, disciplinati nel loro voyeurismo, si fingono indignati.
Dietro le frasche, sul prato, qualcuno ride.
Non è una risata allegra: è un gemito rotto, un suono che confonde il piacere e la resa.
Li vedo, ora. Non bene, ma abbastanza per capire che la scena è sempre la stessa: due corpi in tensione, uno che domina e uno che si lascia fare — fino al momento in cui le parti si ribaltano.
Il classico colpo gobbo, la rivincita. Il piacere improvviso di chi era sotto e ora comanda.
È strano come tutto si ripeta.
Anche tra me e i lettori va così.
Scrivo, e loro si lasciano prendere. Poi, a un certo punto, mi sfuggono, mi voltano le spalle, dichiarano finita la partita.
Ma non passa molto che tornano, curiosi, eccitati da quella stessa storia che giuravano di non voler più leggere. È un gioco stanco e necessario, una dipendenza reciproca.
Io, come autore, non posso smettere; loro, come lettori, non possono davvero andare via.
Ci osserviamo da lontano. Io dal mio foglio, loro dal prato.
Il mio foglio è bianco solo in apparenza: sotto la superficie delle parole si muove un mondo intero di frasi scartate, pensieri taciuti, immagini troppo vive per essere dette. È da lì che viene il mio disagio — da quella voce sotterranea che non mi obbedisce più.
Scrivo una frase e lei, la voce, la rovescia.
Scrivo “mi mancate” e lei sussurra “mi annoiate”.
Scrivo “vi amo” e lei ride, mi sputacchia addosso semi invisibili, come quelli dei due là dietro, che si prendono e si puniscono con la stessa grazia brutale.
Forse è per questo che li amo, i miei lettori.
Perché rappresentano ciò che di me non riesco più a confessare.
Sono la mia controparte fisica: io la mente, loro il corpo. Io la voce, loro il respiro.
E quando si eccitano leggendo — sì, lo so che succede, e non mi scandalizzo — è perché sentono in quelle parole il sangue che ho cercato di nascondere.
Ogni tanto qualcuno di loro, il più coraggioso, mi scrive.
Mi dice: “non capisco se ti stai prendendo gioco di noi o di te stesso”.
Rispondo sempre: “di entrambi”. Ma non è vero.
La verità è che non so più distinguere dove finisce la mia ironia e dove comincia la mia disperazione.
E allora torno a guardare.
Sul prato la scena continua: il vinto di prima ora ride, impastato di terra e di sudore. L’altro, il vincitore momentaneo, si allontana un poco, come chi non sa se ha vinto davvero o solo smesso di perdere.
È così anche con la scrittura.
Ogni volta che credo di aver detto tutto, di aver finito, scopro che non ho fatto altro che cambiare posizione, scivolare da sopra a sotto, da chi comanda a chi implora.
In sala qualcuno tossisce.
Un suono banale, ma che risveglia in me una tenerezza inaspettata.
Mi rendo conto che, per quanto io li disprezzi, quei lettori sono l’unico pubblico che mi resti.
Non amici, non amanti, non rivali: lettori.
E anche se non li conosco, anche se li temo, ho bisogno di loro come si ha bisogno di un testimone per i propri fallimenti.
Ogni scrittore ha un pubblico ideale, dicono.
Io no. Io ho un pubblico reale, ed è terribile.
Non c’è idealità nel loro sguardo: solo curiosità, morbosità, a volte pietà.
Ma è proprio quella pietà che mi tiene vivo.
Quando mi vedono vacillare, quando percepiscono che sto per mollare, ecco, è lì che li sento più presenti, come se il mio cedimento li rendesse umani.
“Quasi getto la spugna”, dico.
E loro sorridono, felici. È la scena che aspettavano: il perdente che si concede, ma con classe.
Quasi.
Quella parola li eccita più di qualunque pornografia letteraria.
“Quasi” è la promessa che non mantiene, il rinvio dell’abbandono, il punto esatto in cui l’autore resta sospeso, né morto né vivo, ma irresistibilmente interessante.
E allora mi riprendo.
Riprendo la sedia, la parola, la scena.
Loro mi seguono, anche se faticano.
Sono cambiati, dicono. Ma anche io.
Non riconoscono più il mio ritmo, la mia voce, la mia crudeltà gentile.
Io non riconosco più il loro entusiasmo, la loro devozione.
Ci guardiamo come due ex amanti che si ritrovano dopo troppi anni e scoprono che, nonostante tutto, la chimica c’è ancora, ma è mutata: ora sa di ruggine, di abitudine, di sopravvivenza.
Li vedo muoversi a scatti, come figure di un film rallentato.
Ogni loro sorriso arriva in ritardo, ogni loro applauso sembra l’eco di un applauso passato.
Eppure restano.
Restano perché, come me, non sanno più cosa fare della propria fedeltà.
Io scrivo ancora per loro, anche quando dico che non lo faccio.
Loro leggono ancora me, anche quando fingono di cercare altri.
È una menzogna condivisa, una tenerezza perversa che ci tiene legati come una corda troppo tesa che non si spezza mai davvero.
Forse, in fondo, non vogliamo liberarci.
Forse la nostra storia non è quella del successo o del fallimento, ma quella di un legame che non trova fine.
Ogni mio testo è una lettera d’addio che non spedisco mai.
Ogni loro lettura è un ritorno che non si annuncia.
Ci troviamo così, ancora una volta, nel punto esatto in cui tutto comincia: tra l’erba, le frasche, le ginocchia piegate, il seme sul volto, la vergogna e la risata.
E allora sorrido anch’io.
Perché so che continuerà, sempre uguale e sempre diverso.
Io scriverò. Loro leggeranno.
E in quella distanza, che è anche un’intimità, continueremo a scambiarci i ruoli, a tradirci con dolcezza, a fingere di non sapere che l’uno vive solo se l’altro resta.
Finché qualcuno — un giorno — non butterà davvero la spugna.
E allora, forse, scopriremo che non eravamo mai stati nemici né complici, ma semplicemente due corpi nello stesso prato, incapaci di smettere di cercarsi, anche quando il gioco è finito.