martedì 14 ottobre 2025

Un mare di parole e di destini: Horcynus Orca di Stefano D'Arrigo



Introduzione

Quando nel 1975 Mondadori pubblicò Horcynus Orca, la critica italiana ebbe la sensazione di trovarsi davanti a un oggetto narrativo non identificato, un corpo letterario estraneo e insieme familiare, che rompeva le regole del romanzo tradizionale ma al tempo stesso si inseriva in una linea antichissima, quella dei poemi epici e delle narrazioni fondative. Non si trattava soltanto di un “romanzo lungo”, come poteva esserlo La Storia di Elsa Morante o i cicli narrativi di Gadda e di Bassani, ma di un’opera che sembrava voler contenere l’intero mare della lingua, un tentativo quasi prometeico di riscrivere in forma narrativa l’epos mediterraneo.

Il libro appariva come una sfida in ogni suo aspetto: la mole (più di milleduecento pagine), la lingua (ibrida, inventata, debordante), la struttura (un viaggio brevissimo nel tempo ma smisurato nello spazio interiore e simbolico), il tema stesso (un ritorno che diventa impossibile, una casa che si fa irraggiungibile, una realtà che si sgretola sotto il peso della Storia). Tutto, in Horcynus Orca, si colloca su una soglia: tra modernità e arcaicità, tra vita e morte, tra racconto realistico e visione mitica, tra l’eco della guerra recente e l’ombra dell’eterno mare.

Per comprendere la portata del libro, occorre ricordare il contesto: l’Italia del secondo dopoguerra, con il suo bisogno di romanzi che dessero senso all’esperienza collettiva e che allo stesso tempo rinnovassero i codici narrativi. In questo panorama, dominato dal neorealismo negli anni Quaranta e Cinquanta e dal suo superamento negli anni Sessanta, l’opera di Stefano D’Arrigo arriva tardi, dopo vent’anni di gestazione, come se volesse raccogliere e insieme superare ogni eredità. Non un romanzo che si aggiunge alla lista, ma un corpo unico, che reclama un posto a sé, tanto da suscitare paragoni con opere “totali” come Moby Dick di Melville o L’Ulysses di Joyce.

Eppure, a differenza dei grandi romanzi europei e americani del Novecento, Horcynus Orca resta in parte inaccessibile, perché scritto in una lingua che non ha traduzioni possibili, e che anzi si fonda proprio sull’irripetibilità, sull’invenzione, sull’ostinata fedeltà a una radice mediterranea e siciliana. È un libro che chiede al lettore non solo attenzione, ma dedizione: non si può scorrerlo, bisogna abitarlo, quasi come si abita un luogo o si attraversa un rito.


Genesi di un’opera-monstre

La gestazione di Horcynus Orca è essa stessa una piccola epopea. Stefano D’Arrigo, nato ad Alì Terme nel 1919, si era trasferito giovanissimo a Roma, dove aveva intrapreso studi letterari e iniziato a scrivere. Sin dagli anni Cinquanta coltivava l’idea di un grande romanzo sul mare, legato alla sua terra d’origine, ma non trovava la forma adeguata. I titoli provvisori – La testa del delfino, I fatti della fera – tradiscono la centralità di un immaginario marino che cerca di prendere corpo: il delfino come simbolo di un’innocenza perduta, la “fera” come creatura oscura e minacciosa, anticipazione dell’orca.

Il lavoro procedette per frammenti, rielaborazioni, riscritture interminabili. D’Arrigo era un autore ossessivo: non si accontentava mai, ogni pagina era sottoposta a un continuo processo di scavo linguistico e stilistico. Si racconta che persino dopo la pubblicazione, rilesse l’opera e annotò correzioni, come se il libro fosse un organismo vivo e mai definitivo. Il tempo impiegato per completarlo – oltre vent’anni – è la prova di una dedizione che ha pochi paragoni nella letteratura italiana.

Ma la lunga genesi non è solo frutto di un perfezionismo personale: è anche il segno di un romanzo che non poteva nascere in fretta, perché doveva farsi contenitore di memorie, di dialetti, di leggende, di esperienze storiche. L’armistizio del 1943 e il ritorno di ’Ndrja Cambrìa sono il cuore narrativo, ma intorno si stratificano ricordi dell’infanzia siciliana, echi di miti classici, riflessioni sulla modernità. È come se D’Arrigo avesse deciso di scrivere non una storia, ma la storia del mare e della sua gente, e per farlo avesse bisogno di inventarsi una lingua e un tempo che non fossero mai definitivi.

Il titolo definitivo, Horcynus Orca, arriva come un suggello. “Horcynus” non è un termine comune: richiama foneticamente il latino orcynus, con cui si indicava un grande pesce del Mediterraneo (il tonno o forse la stessa orca), e insieme si lega all’immaginario dell’“orco”, del mostro divoratore. È un titolo che incute timore, che non accoglie ma respinge, come a dire che il libro stesso sarà un viaggio nel ventre di un mostro. L’orca diventa così emblema di un destino collettivo: non soltanto la creatura marina, ma la figura della distruzione, del crollo delle comunità tradizionali, della perdita irreparabile.

Quando infine Mondadori pubblicò l’opera, la casa editrice dovette affrontare un testo che sfidava le regole editoriali. Non era un romanzo di facile consumo, né un libro che si potesse promuovere con slogan accattivanti. Era un monumento, e come tale fu accolto: con rispetto, con diffidenza, con la consapevolezza che pochi lettori avrebbero osato entrarvi.




La trama come “viaggio breve e immenso”

A uno sguardo superficiale, la vicenda narrata da Horcynus Orca potrebbe sembrare minima, quasi povera di eventi. Un marinaio, ’Ndrja Cambrìa, attraversa lo Stretto di Messina per tornare nel proprio paese, dopo l’8 settembre del 1943. Non c’è epopea militare, non c’è battaglia grandiosa, non c’è conquista di regni o fondazione di città: soltanto un ritorno, un breve tragitto che, in termini geografici, corrisponde a pochi chilometri. Eppure proprio in questa semplicità risiede la grandezza del romanzo: il viaggio minimo diventa viaggio assoluto, condensazione di ogni “nostos”, memoria e mito, discesa negli abissi della storia e dell’anima.

Il tempo narrativo è ridotto a pochi giorni. Ma quei giorni assumono il peso di secoli, perché sono il momento in cui il mondo antico si frantuma e quello nuovo non è ancora nato. È l’interregno, il limbo in cui tutto è sospeso: la guerra non è finita, la pace non è arrivata, i vecchi codici sociali non reggono più e i nuovi non si sono ancora imposti. ’Ndrja cammina, incontra persone, osserva i paesi devastati, si imbatte in figure reali e fantastiche; e intanto il lettore si accorge che il tempo della narrazione si dilata, che ogni gesto è caricato di memoria e di presagio, che il passato e il presente si confondono.

La trama, dunque, non si sviluppa per accumulo di azioni, ma per stratificazione di incontri e di visioni. Ogni incontro è una soglia, un frammento di racconto che apre su mondi diversi. I pescatori rappresentano la continuità di un sapere antico, ma anche la sua condanna a scomparire. Le donne incarnano la forza vitale e insieme la fragilità delle comunità rurali. I soldati, sbandati e senza patria, sono figure dell’assurdità storica, uomini senza identità che vagano senza scopo. E, sopra ogni cosa, incombe il mare: non uno sfondo, ma una presenza attiva, immensa, che modella i destini individuali e collettivi.

Il viaggio di ’Ndrja si carica così di valenze simboliche. È un ritorno a casa che non conduce davvero alla casa, perché ciò che si trova è la perdita, la fine. È un’Odissea rovesciata: Ulisse aveva come meta la riconquista della propria identità e della propria famiglia; ’Ndrja scopre invece che l’identità è già dissolta, che la famiglia e la comunità sono state inghiottite dal vortice della storia. Il suo è un viaggio verso un approdo che non c’è, o che c’è solo come simulacro.

La brevità apparente della trama è in realtà la condizione necessaria perché il romanzo possa espandersi altrove: nello spazio della lingua, nei paesaggi mentali, nelle allegorie che trasformano ogni dettaglio in segno. Ogni incontro, ogni parola detta dai personaggi, ogni ricordo o leggenda narrata è una deriva che porta lontano, come se la linearità del viaggio fosse continuamente sospesa da un mare di voci.

L’effetto, per il lettore, è duplice. Da un lato, la frustrazione di chi cerca una narrazione convenzionale, un’azione che proceda di causa in effetto. Dall’altro, la fascinazione ipnotica di chi si trova immerso in un ritmo che ricorda le onde: avanzare e retrocedere, ripetere e variare, allargare e restringere. In questo senso il romanzo non è soltanto il racconto di un viaggio, ma la mimesi stessa del mare: sempre uguale e sempre diverso, sempre in movimento e sempre fermo.

Il viaggio di ’Ndrja diventa così un viaggio della coscienza, un pellegrinaggio attraverso i resti di un mondo. È un viaggio che, pur inscrivendosi nella geografia dello Stretto, si fa cosmico e assoluto: non riguarda soltanto un uomo e il suo paese, ma l’intera condizione umana, sospesa tra memoria e perdita, tra desiderio di casa e impossibilità del ritorno.




Il mito del ritorno: Odissea e “nostos” in chiave moderna

La letteratura occidentale nasce con un ritorno. L’Odissea non racconta una conquista, ma un ritorno a casa: l’eroe che, dopo anni di erranza, affronta prove e pericoli per rivedere la sua terra, la sua donna, il suo letto. È un ritorno che coincide con la riappropriazione di sé, con il ricomporsi dell’identità dopo lo sradicamento. In Horcynus Orca, D’Arrigo riprende questo modello archetipico ma lo rovescia: il viaggio di ’Ndrja Cambrìa non porta alla casa ritrovata, ma alla casa perduta. Non c’è ricongiungimento, ma smarrimento; non riconquista, ma dissoluzione. È il mito del nostos declinato in negativo, una parabola sulla fine piuttosto che sul ricominciare.

Il parallelismo con Omero non è una semplice suggestione critica: è lo stesso D’Arrigo a inscrivere la sua opera nella linea epica, a evocare costantemente il mare come spazio del mito. Ma la sua epica è anti-eroica: l’eroe non vince, non supera le prove, non ritrova la sua Itaca. L’Itaca di ’Ndrja è uno spazio devastato dalla guerra e svuotato dalle migrazioni, un luogo in cui la memoria collettiva si sbriciola. Il ritorno, dunque, non coincide con il riconoscimento, ma con lo spaesamento.

Si potrebbe dire che Horcynus Orca mette in scena un “nostos impossibile”: un ritorno che non restituisce, che non ripara, ma che conferma la perdita. In questo senso l’opera dialoga con tutta la modernità, da Joyce a Proust, in cui il ritorno non è più possibile, perché il tempo distrugge, perché la memoria è ingannevole, perché l’identità non è mai stabile. ’Ndrja è un Ulisse che torna e non trova, e proprio per questo la sua vicenda diventa simbolo di un’intera civiltà, quella mediterranea, che dopo il 1943 non è più la stessa.

L’armistizio dell’8 settembre 1943 segna infatti non solo la disfatta militare, ma anche il collasso di un’idea di patria. Per milioni di italiani fu l’esperienza del tradimento, dello smarrimento, della perdita di punti di riferimento. D’Arrigo coglie questo trauma e lo innesta nel mito del ritorno: il marinaio che attraversa lo Stretto è la figura emblematica di chi cerca di ritrovare un senso, una comunità, una casa, ma incontra soltanto la consapevolezza della fine.

In questo rovesciamento dell’Odissea c’è anche un elemento profondamente meridionale. Se Ulisse è il simbolo della civiltà greca che trionfa sulla barbarie, ’Ndrja è il simbolo di un Sud che vede dissolversi le proprie tradizioni e i propri saperi. Non c’è un regno da riconquistare, ma un mondo da abbandonare: le tecniche di pesca, le comunità marinare, la stessa relazione sacrale con il mare sono destinate a scomparire. Il ritorno diventa allora elegia, canto funebre, consapevolezza di un tramonto.

Eppure, proprio in questa negatività, il romanzo acquista la sua forza. Perché non si limita a raccontare una perdita individuale, ma ne fa un paradigma universale. Tutti i ritorni moderni sono impossibili: l’emigrante che torna non ritrova più il suo paese, l’esule non riconosce più la sua lingua, il reduce non rientra davvero nella comunità. Horcynus Orca mette in scena questa impossibilità, la scolpisce nella figura dell’orca che incombe come destino ineluttabile.

L’opera di D’Arrigo compie una doppia operazione: da un lato, si inserisce nella grande tradizione epica, facendosi erede di Omero e di Virgilio; dall’altro, la destruttura dall’interno, mostrando che l’eroe non ha più spazio, che il mito del ritorno non regge di fronte alla Storia. È un’epica della sconfitta, del tramonto, della fine. Un’epica che non celebra la gloria, ma custodisce la memoria di ciò che si perde.

Il viaggio di ’Ndrja Cambrìa diventa così il viaggio di tutti: non soltanto di un uomo, ma di una civiltà. È il viaggio dell’Italia sbandata dopo l’armistizio, il viaggio del Mediterraneo che vede declinare le sue comunità tradizionali, il viaggio dell’umanità moderna che non trova più un centro a cui tornare. E in questo senso Horcynus Orca non è solo un romanzo storico, ma un’allegoria universale.




L’orca come figura simbolica: destino, fine di un mondo, morte e rigenerazione

Al centro di Horcynus Orca c’è una presenza che non è mai soltanto zoologica. L’orca che dà il titolo al romanzo è sì un animale marino, predatore temuto dai pescatori, ma assume da subito una dimensione simbolica, mitica, archetipica. È la “fera”, la creatura che incombe sul mondo degli uomini e che lo minaccia con la sua violenza, ma che al tempo stesso lo definisce, perché senza il suo orrore non vi sarebbe identità.

L’orca in D’Arrigo è innanzitutto un segno di morte. Non la morte individuale, che pure attraversa il libro in molte forme, ma la morte collettiva: la fine di un’epoca, di una civiltà marinara, di una comunità che aveva nel mare il proprio orizzonte e la propria ragione. Come Moby Dick per Melville, l’orca non è un semplice animale, ma il volto stesso del destino. A differenza della balena bianca, però, essa non è nemica di un singolo capitano ossessionato: è il nemico di tutti, è la minaccia che pende sull’intero tessuto sociale.

È significativo che l’orca compaia come presenza diffusa, quasi più evocata che mostrata. Non è un personaggio che agisce, ma una forza che grava. È ciò che i pescatori raccontano, ciò che i superstiti temono, ciò che il mare custodisce nelle sue profondità. In questo senso è un simbolo della Storia: la guerra, l’armistizio, la modernizzazione forzata non hanno un volto preciso, ma incombono come potenze impersonali, come onde che travolgono. L’orca è la loro personificazione: l’orrore che non si può dominare, l’evento che non si può fermare.

Ma l’orca non è solo distruzione. È anche rigenerazione, o meglio la possibilità stessa di un passaggio. Come in molti miti, la discesa agli inferi, l’incontro con la morte, è condizione necessaria per un nuovo inizio. Se ’Ndrja e la sua comunità devono attraversare l’ombra dell’orca, è perché solo attraverso questa esperienza si può generare un futuro diverso. Il romanzo non offre soluzioni facili, ma suggerisce che il senso dell’esistenza non sta nell’evitare l’orca, bensì nell’attraversarla, nel riconoscerla come parte integrante del destino umano.

Il simbolismo dell’orca, inoltre, dialoga con la cultura mediterranea più antica. Nei miti greci, i mostri marini sono sempre figure liminari: Scilla e Cariddi, il mostro che minaccia Andromeda, le creature che popolano il viaggio di Ulisse. Sono figure che segnano il confine tra il mondo noto e l’ignoto, tra la sicurezza e l’abisso. D’Arrigo riprende questa tradizione e la trasporta nel Novecento: l’orca diventa il confine tra la Sicilia arcaica e la modernità, tra un passato che muore e un futuro che non ha ancora forma.

Non va dimenticato, poi, che il titolo stesso, Horcynus Orca, accentua l’estraneità della creatura. Non basta dire “orca”: D’Arrigo costruisce un nome ibrido, colto e oscuro, che evoca l’orco e l’orrore, che sembra uscire da un bestiario medievale o da una lingua dimenticata. È come se la creatura fosse più grande del nome comune che la designa, come se dovesse contenere in sé tutto il peso della paura, della fine, del silenzio.

Per il lettore, l’orca non è soltanto un’immagine, ma un’esperienza linguistica e immaginativa. Ogni volta che viene evocata, si avverte il senso di un vuoto che si spalanca, di una minaccia che non ha volto. È il simbolo dell’impossibilità di tornare indietro, dell’irrecuperabile. Non si può più abitare il mondo di prima, perché l’orca lo ha già attraversato.

Eppure, come spesso accade nei grandi miti, la mostruosità non è solo negativa. L’orca è anche madre, grembo oscuro, ventre in cui sprofondare per poter rinascere. In questo senso, la sua presenza non è solo annuncio di fine, ma promessa di trasformazione. La comunità che sopravvive all’orca non sarà più quella di prima, ma avrà conosciuto una nuova coscienza, un nuovo modo di stare nel mondo.

Per questo l’orca non è mai riducibile a un solo significato. È morte e rigenerazione, distruzione e possibilità, minaccia e fondamento. È il simbolo stesso dell’ambivalenza dell’esistenza, del mare come forza che nutre e che inghiotte, che offre vita e che reclama vite. In questa ambivalenza risiede la potenza del romanzo: il lettore non può mai sentirsi al sicuro, perché l’orca è sempre lì, pronta a ricordare che ogni viaggio porta con sé l’ombra dell’abisso.




Il mito del ritorno: un’Odissea capovolta

Ogni grande narrazione epica si misura, prima o poi, con il tema del ritorno. La letteratura occidentale lo sa bene: dall’Odissea in poi, il “nostos” non è solo viaggio di rientro ma prova radicale di identità. Tornare significa ritrovarsi, ridefinirsi, riconoscere e riconoscersi. In D’Arrigo, questo mito viene però deformato, sospinto dentro un universo che non conosce più il lieto fine.

Al Nereide che torna dopo vent’anni di guerra, Omero aveva riservato una ricompensa: il ricongiungimento con Penelope, l’ordine ritrovato, la giustizia ristabilita. A ‘Ndrja Cambrìa, il protagonista di Horcynus Orca, non spetta niente di simile. Non ci sono donne fedeli ad aspettarlo, non ci sono regni da riprendere, non ci sono servi infedeli da punire. Il suo ritorno avviene in un’Italia sfaldata dall’armistizio dell’8 settembre, in uno Stretto di Messina che non è più né patria né rifugio, ma spazio di smarrimento. Il mare che dovrebbe condurlo a casa si rivela enigma ostile, e il viaggio breve – un attraversamento di poche miglia – diventa il percorso infinito di una vita.

D’Arrigo lavora dunque con una torsione del mito: ciò che in Omero era promessa di reintegrazione diventa qui prova dell’impossibilità stessa di tornare. Il tempo storico – la guerra persa, l’occupazione, il collasso delle certezze – ha dissolto ogni tela di Penelope. Non resta che la nostalgia senza oggetto, il desiderio che si consuma nel nulla.


Il ritorno come sospensione

L’aspetto forse più perturbante del romanzo è che il ritorno non avviene mai fino in fondo. L’itinerario di ‘Ndrja non culmina in un approdo rassicurante, bensì in un’oscillazione continua: la sua casa non è più casa, il villaggio non è più villaggio, e il suo stesso corpo sembra smarrito. È come se D’Arrigo avesse capito che, dopo il 1943, l’Italia non poteva più raccontarsi con i miti classici senza corromperli. Il mito omerico resta, ma è svuotato dall’interno: la struttura epica viene mantenuta solo per mostrarne la frattura.

Il ritorno, allora, è un atto sospeso. Non esiste più come conquista ma come illusione, un perpetuo tendere verso qualcosa che si nega. E in questo, Horcynus Orca non è lontano dai modernisti europei: Joyce aveva riscritto l’Odissea trasformando Ulisse in Leopold Bloom, un uomo qualunque che torna a casa a notte fonda. D’Arrigo fa un passo ulteriore: il ritorno di ‘Ndrja non è nemmeno la malinconica conquista di una casa borghese, ma il crollo stesso del concetto di ritorno.


Ritorno e metamorfosi

Eppure, non si tratta solo di una negazione. Il ritorno impossibile di ‘Ndrja diventa anche una metamorfosi. Nel mare che lo respinge e lo avvolge, tra i delfini e soprattutto nell’incontro con l’orca, il protagonista si trasforma. Non torna uomo, ma si dissolve in mito. La sua identità individuale sfuma dentro un destino collettivo, quasi cosmico. Il ritorno dunque non coincide più con un punto geografico o familiare, ma con l’immersione nell’archetipo, con la perdita di sé nel mito.




L’orca come figura simbolica

L’orca, in Horcynus Orca, non è soltanto un animale marino, né un elemento realistico inserito a cornice dell’azione. È, piuttosto, il cuore mitico e terribile del libro. Nel suo nome e nella sua apparizione si concentra tutto ciò che D’Arrigo voleva evocare: la morte, il destino, la dissoluzione di un mondo arcaico e insieme la sua metamorfosi in racconto.

Fin dal titolo, l’orca domina l’immaginario: non una semplice balena, ma “l’orca feroce”, la fera che fa tremare i pescatori dello Stretto. Essa è presenza spettrale, minaccia che incombe sulle vite dei protagonisti, ma anche simbolo di ciò che non si può sfuggire: la guerra, la sconfitta, la caduta delle certezze. È come se D’Arrigo avesse preso un frammento di natura e lo avesse caricato di una potenza arcaica, trasformandolo in figura del Fato.


L’orca come morte e destino

Quando appare, l’orca è sempre legata a un evento luttuoso. Le sue movenze marine, i suoi improvvisi balzi e gli scontri con i pescatori segnano il passaggio dal mondo della vita a quello della dissoluzione. Non è un caso che i personaggi avvertano la sua vicinanza come un presagio funesto. L’orca porta con sé la certezza della fine: non la morte individuale soltanto, ma quella collettiva di un’intera civiltà marinara che, nel dopoguerra, non ha più futuro.

In questo senso, l’orca è un mostro tragico. Non appartiene alla dimensione del fantastico, ma a quella del mitico. Come la balena bianca di Moby-Dick, essa è incarnazione di un assoluto che travolge ogni psicologia individuale. La sua presenza ricorda al lettore che l’uomo, per quanto si agiti, resta piccolo davanti alla forza oceanica del destino.

Ma l’orca non è soltanto morte. È anche la testimone della fine di un mondo arcaico: quello dei pescatori di pescespada, con le loro ritualità, le loro lotte, la loro comunanza con il mare. Ogni scontro con l’orca è un rito di passaggio: segna il confine tra ciò che è stato e ciò che non sarà più.

Il dopoguerra cancellerà per sempre quella civiltà marinara. Le barche e le reti, i canti e i racconti, tutto andrà disperso, sostituito da un’Italia che si industrializza e che non ha più spazio per la memoria arcaica dello Stretto. L’orca, in questo senso, è il simbolo stesso della transizione: la sua apparizione coincide con la sparizione di un mondo.

Ecco allora che l’orca diventa una figura universale, un simbolo che travalica la Sicilia e l’Italia. Essa è, nello stesso tempo, animale reale e archetipo, nemico dei pescatori e incarnazione della morte, creatura marina e divinità oscura. Come nelle tragedie greche, il destino si manifesta non in forma astratta, ma in segni concreti: un mostro, un animale, un’apparizione che costringe l’uomo a fare i conti con il proprio limite.

La forza del romanzo sta proprio in questo: nel dare a un ritorno mancato, a una patria perduta, la dimensione epica di un incontro con l’archetipo. L’orca è il rovescio della Penelope omerica: non colei che custodisce, ma colei che distrugge; non la promessa di un ricongiungimento, ma la certezza di una fine.




La lingua di D’Arrigo: invenzione e sfida

Se c’è un punto in cui il romanzo si rivela davvero unico nel panorama del Novecento, questo è il lavoro linguistico. D’Arrigo non ha scritto Horcynus Orca in italiano standard, né in un dialetto puro. Ha creato una lingua nuova, un ibrido possente che mescola l’italiano colto, l’italiano letterario, il dialetto siciliano e calabrese, insieme a neologismi e arcaismi. È un impasto linguistico che non esisteva prima, e che non si è più ripetuto dopo.

Questa lingua non è solo uno strumento, ma un personaggio del romanzo. Come l’orca, essa incombe, si muove, si fa minacciosa e affascinante. Leggere D’Arrigo significa affrontare un mare linguistico, in cui ogni frase è un’onda che travolge e risucchia. Non è una prosa lineare, ma una prosa che pretende dal lettore un atteggiamento attivo, quasi una navigazione.

D’Arrigo sapeva bene che scrivere in puro dialetto avrebbe confinato il libro a un pubblico ristretto, mentre usare un italiano standard avrebbe tradito la realtà del mondo narrato. Così scelse una terza via: innestò il dialetto siciliano sull’italiano, creando una lingua poetica che restituisce i suoni, i ritmi, la corporeità della parlata popolare, senza mai ridursi a folklore.

Le parole inventate, le deformazioni, i giri sintattici inusuali sono tutti strumenti per restituire la complessità della vita dello Stretto. Non si tratta di un vezzo sperimentale, ma di una necessità: la lingua stessa diventa lo spazio in cui il mare, i pescatori, la memoria trovano forma.

Spesso la lingua di D’Arrigo è stata accostata a quella di Carlo Emilio Gadda. In effetti, i due autori condividono un’idea di prosa come laboratorio linguistico, come fusione di registri diversi, come resistenza a ogni semplificazione. Ma mentre Gadda è un ingegnere del linguaggio, che costruisce i suoi meccanismi con precisione quasi scientifica, D’Arrigo è un poeta epico: la sua lingua non si concentra tanto sull’analisi minuta della realtà, quanto sulla creazione di un universo mitico.

Gadda smonta il mondo; D’Arrigo lo rifonda in chiave visionaria. Gadda fa esplodere la prosa; D’Arrigo la fa ondeggiare come il mare. In entrambi i casi il lettore è costretto a rallentare, a fermarsi, a faticare: ma con D’Arrigo questa fatica assume i contorni di un’immersione quasi estatica.

Dietro la lingua di Horcynus Orca c’è una lunga tradizione che va da Dante a Verga, passando per Manzoni e Tomasi di Lampedusa. Ma D’Arrigo ne rovescia le regole: se Dante era riuscito a fondere i registri alti e bassi in una lingua nazionale, se Verga aveva restituito la coralità siciliana con il suo “italiano dialettizzato”, D’Arrigo porta questa tensione all’estremo, creando una lingua che non è più comunicazione ma esperienza.

Il risultato è un romanzo che non si può “riassumere” senza perdere il suo senso: perché il senso non sta soltanto nella trama, ma soprattutto nella lingua stessa. È la lingua a creare la realtà, a darle consistenza, a trasformare il ritorno di ’Ndrja in un viaggio epico.




Lo Stretto come confine e come abisso

Lo Stretto di Messina è il teatro di tutta la vicenda. È un luogo concreto, riconoscibile, con le sue correnti insidiose, i vortici, le coste che si fronteggiano. Ma nello stesso tempo è un confine, una soglia tra mondi: tra Calabria e Sicilia, tra passato e presente, tra storia e mito. Ogni movimento di ’Ndrja è attraversato da questa tensione: non si tratta soltanto di attraversare poche miglia d’acqua, ma di passare da un universo all’altro.

Le leggende dello Stretto, antichissime, risuonano in filigrana: Scilla e Cariddi, i mostri marini che divorano i naviganti; le correnti che risucchiano; i delfini e i pescespada che emergono e spariscono. In Horcynus Orca questi miti non sono citazioni colte, ma presenze vive, riattivate dalla scrittura. Lo Stretto non è mai neutro: è un luogo che racconta, che parla, che insidia i protagonisti.

Siamo nell’ottobre del 1943, pochi giorni dopo l’armistizio. L’Italia è in frantumi, i soldati allo sbando, le comunità incerte sul proprio destino. Eppure, in questo tempo storicamente circoscritto, D’Arrigo innesta una dimensione mitica che dilata ogni istante. Il viaggio di ’Ndrja dura pochi giorni, ma nello spazio narrativo diventa immenso: lo Stretto diventa mare epico, Oceano senza fine.

La forza di D’Arrigo sta proprio in questa sovrapposizione: da una parte il contesto realistico della guerra e del dopoguerra; dall’altra l’aura di leggenda che trasfigura ogni incontro. Così, lo Stretto non è più solo un tratto di mare, ma una soglia esistenziale, il punto in cui la storia di un singolo uomo si intreccia con le grandi narrazioni del mito.

Lo Stretto, nel romanzo, è anche il deposito di una memoria collettiva. Ogni onda porta con sé storie di pescatori, di lotte, di amori e di morti. Per i personaggi, attraversarlo significa anche rivivere un passato che rischia di scomparire. Non a caso, i pescatori e le donne che compaiono lungo il viaggio di ’Ndrja sono custodi di racconti, di gesti, di canti che appartengono a una civiltà in via di sparizione.

Il mare, dunque, non è solo natura, ma cultura: è il luogo in cui si tramandano leggende, dove ogni creatura marina diventa segno, dove la stessa orca assume un valore simbolico. Lo Stretto è il libro dentro il libro: è il testo che i personaggi leggono e interpretano con le loro vite.

Infine, lo Stretto è lo specchio in cui si riflette la condizione di ’Ndrja. Il suo ritorno non è mai pacifico, mai rassicurante: il mare gli oppone resistenze, lo costringe a confrontarsi con l’instabilità, con il rischio di naufragio, con l’impossibilità di una vera casa. In questo senso, lo Stretto è l’immagine stessa della condizione umana dopo la guerra: un continuo oscillare tra speranza e perdita, tra desiderio di approdo e consapevolezza di non poterlo mai raggiungere davvero.




Le figure femminili: forza, desiderio e memoria

Le donne nel romanzo non sono semplici personaggi secondari. D’Arrigo le investe di una densità simbolica straordinaria. Sono custodi della vita, ma anche della memoria collettiva; incarnano la fertilità, il desiderio e la resilienza di un mondo che sembra destinato a sparire. Non sono mai passive: parlano, cantano, vegliano, guidano gli uomini con la loro presenza silenziosa ma potente.

Attraverso le donne, il romanzo esplora l’eros come energia vitale. Il desiderio non è mai superficiale o edonistico: è forza che sostiene, che conserva la comunità, che accompagna i pescatori e gli uomini in viaggio. L’eros si intreccia con il mito, con la guerra, con la memoria; diventa strumento di sopravvivenza e al contempo di trasformazione.

Molto spesso le figure femminili appaiono come custodi di antichi rituali, di conoscenze tramandate oralmente, di canti che resistono al tempo. In questo senso, esse sono anche un ponte tra passato e presente, tra realtà storica e leggenda: la loro voce trasmette i ritmi dello Stretto e custodisce il senso della comunità.

Gli uomini, invece, sono figure in bilico tra coraggio e vulnerabilità. ’Ndrja Cambrìa incarna il marinaio archetipico, erede della tradizione omerica, ma è anche un uomo segnato dalla Storia, fragile di fronte al destino. I pescatori che incontra lungo il viaggio mostrano la quotidianità del lavoro e del rischio, ma anche il peso di un mondo in dissoluzione: sono uomini sospesi tra la fatica fisica e il peso del mito, tra la sopravvivenza concreta e il simbolismo delle acque.

L’eroismo maschile nel romanzo non è spettacolare, ma tragico. Gli uomini non vincono mai: affrontano la violenza della guerra, le difficoltà del mare, la minaccia dell’orca, e spesso soccombono. La loro eroicità sta nella resistenza, nella capacità di affrontare l’ignoto, di confrontarsi con forze che li superano, senza illudersi di poterle dominare.

Le interazioni tra uomini e donne nel romanzo sono complesse e spesso ambigue. Non sono mai ridotte a stereotipi: passione e affetto convivono con conflitto, desiderio e paura, eros e tensione morale. I legami sono segnati dalla guerra, dalla perdita e dalla precarietà della vita quotidiana, e si collocano tra concretezza e mito.

D’Arrigo non racconta solo relazioni individuali, ma costruisce un microcosmo in cui le tensioni tra i sessi riflettono i contrasti della comunità e della Storia. Le donne guidano, sostengono, proteggono; gli uomini combattono, resistono, si confrontano con la violenza e con l’abisso. Insieme, uomini e donne incarnano la complessità di una civiltà sospesa tra passato e futuro, tra mito e realtà.

Il gruppo di pescatori, le famiglie, le figure che affollano il romanzo non sono semplici comparse: sono parte integrante della costruzione simbolica dell’opera. D’Arrigo li utilizza per mostrare come la memoria e la cultura si trasmettano attraverso la solidarietà e l’azione collettiva. Ogni uomo e ogni donna è parte di un tessuto più grande, in cui la singolarità si fonde con l’archetipo.

Il risultato è una narrazione corale, in cui la psicologia dei singoli si intreccia con la storia collettiva, dove le emozioni, le paure e i desideri dei personaggi diventano emblematici di una condizione universale: la lotta per la sopravvivenza, la fedeltà al passato, l’incontro con l’ignoto e con la morte.




Ricezione critica: dal timore al riconoscimento

All’uscita, nel 1975, Horcynus Orca affrontò una reazione ambivalente. Il pubblico generale fu intimidito dalla mole del libro e dalla complessità della lingua. Non si trattava solo di un romanzo lungo e denso, ma di un’esperienza di lettura radicalmente nuova, che richiedeva un impegno attivo e paziente. Per molti, le pagine di D’Arrigo apparivano inaccessibili, quasi ermetiche, e l’opera sembrava destinata a rimanere confinata a una nicchia di curiosi.

Al contrario, la critica letteraria accolse il romanzo con entusiasmo e meraviglia. Scrittori e intellettuali di primo piano riconobbero in D’Arrigo un autore di genio. Primo Levi, ad esempio, sottolineò la potenza narrativa e l’originalità della lingua, elogiando la capacità dell’autore di coniugare mito e Storia. Giuseppe Pontiggia notò come il romanzo fosse un laboratorio linguistico e simbolico senza precedenti, in grado di ridefinire i confini del romanzo italiano.

Il parere forse più celebre venne da George Steiner, che descrisse Horcynus Orca come “l’unica risposta europea a Moby Dick”. Con questa affermazione, Steiner non si limitava a un paragone letterario, ma riconosceva in D’Arrigo un’epica contemporanea, capace di riprendere la tradizione del romanzo-mare e di proiettarla in una modernità profondamente tormentata e visionaria.

Il rigore linguistico e la densità sintattica del testo furono al tempo stesso ostacolo e attrattiva. La mescolanza di dialetto, italiano colto, neologismi e arcaismi non facilitava la lettura, ma creava un’esperienza immersiva: leggere D’Arrigo significava nuotare in un mare di parole, percepire il ritmo delle acque, il respiro del vento e le correnti sotterranee del pensiero.

Questa scelta linguistica ha limitato la diffusione internazionale del romanzo: tradurre Horcynus Orca significa affrontare difficoltà quasi insormontabili. Ogni neologismo, ogni arcaismo, ogni sintassi particolare porta con sé un mondo culturale che rischia di perdersi fuori dal contesto originale. Eppure, paradossalmente, questa stessa difficoltà ha contribuito a costruire l’aura leggendaria dell’opera: un libro di culto, temuto e amato, accessibile a pochi ma intensi lettori.

Con il passare degli anni, Horcynus Orca ha conquistato uno status quasi mitico. Il romanzo non è solo letto, ma studiato, decodificato, venerato. L’opera è diventata un punto di riferimento per chiunque voglia comprendere le possibilità estreme della lingua italiana, il rapporto tra mito e storia, e l’arte di trasformare la realtà in leggenda.

Il culto intellettuale del romanzo si è rafforzato anche grazie alla sua apparente inaccessibilità: chi riesce a penetrarne la complessità linguistica e simbolica ottiene un’esperienza unica, quasi iniziatica. La lettura diventa rito, immersione totale in un mondo che sfida le regole del romanzo tradizionale.

In rapporto al Novecento, Horcynus Orca si colloca in una posizione singolare. Non è neorealismo, non è sperimentalismo astratto, non è romanzo psicologico: è un ibrido epico e moderno, un “romanzo-mare” che unisce la tradizione italiana e mediterranea con la sperimentazione linguistica più estrema. Questa combinazione lo rende unico e lo pone accanto ai grandi esperimenti epici europei, da Melville a Joyce, senza perdere mai la radice profondamente italiana e siciliana.




Horcynus Orca: un’esperienza totale

Horcynus Orca non è semplicemente un romanzo da leggere, ma un’esperienza da vivere. Ogni elemento del libro — lingua, mito, paesaggio, figure umane e animali — contribuisce a creare un universo complesso, immersivo, in cui la lettura diventa un atto di partecipazione attiva. D’Arrigo non offre scorciatoie: non c’è narrazione lineare, né consolazione finale. C’è un mare di parole in cui perdersi, un labirinto linguistico che riflette l’inquietudine e la grandezza del mondo che descrive.

La vicenda di ’Ndrja Cambrìa e il suo viaggio nello Stretto non sono semplici spostamenti nello spazio, ma veri e propri percorsi esistenziali. Il ritorno a casa si trasforma in un’Odissea contemporanea: l’eroe non trova approdo sicuro, ma si confronta con la morte, il mito e la trasformazione. L’orca, simbolo della forza distruttrice e rigenerativa del destino, diventa il fulcro di una riflessione sul limite, sulla fine di un mondo arcaico e sulla possibilità di rinascita attraverso la memoria e il mito.

La lingua di D’Arrigo è l’elemento che più di tutti definisce il carattere epico del romanzo. La fusione di italiano colto, dialetto, neologismi e arcaismi non serve solo a decorare il testo, ma a costruire un mondo sensoriale e simbolico, a rendere palpabile la voce del mare, dei pescatori, delle correnti e dei venti. La scrittura diventa musica, corpo, esperienza fisica: il lettore non legge soltanto le parole, le attraversa, le respira, le sente scorrere come un’onda.

In questo senso, Horcynus Orca rappresenta una nuova epicità, che unisce tradizione e sperimentazione, mito e storia, realtà e immaginazione. La narrativa italiana del Novecento raramente ha prodotto opere di tale densità e complessità: D’Arrigo non racconta semplicemente, crea un mondo intero.

Oltre alla sperimentazione linguistica e alla densità simbolica, il romanzo ha anche un valore di testimonianza. La Sicilia e la Calabria degli anni Quaranta, la vita dei pescatori, la violenza e il caos della guerra: tutto questo emerge con precisione e potenza, senza sacrificare la dimensione epica e mitica. Horcynus Orca è quindi insieme documento storico e leggenda: un’opera in cui il reale e il simbolico si intrecciano inestricabilmente.

La fama internazionale limitata, dovuta alle difficoltà di traduzione, non ha tolto al romanzo la sua aura di leggenda: esso resta un punto di riferimento per lettori, critici e studiosi che cercano un’esperienza di lettura totale, in grado di fondere poesia, epica, filosofia e storia.

A distanza di decenni, Horcynus Orca mantiene il suo fascino e la sua capacità di sorprendere. È un romanzo che insegna che la letteratura può essere sfida e piacere insieme: richiede impegno, ma restituisce un mondo che nessun’altra opera italiana del Novecento ha offerto con pari potenza. La sua lingua, la sua mitologia, la sua forza simbolica continuano a influenzare scrittori, studiosi e lettori, confermandolo come una delle più alte espressioni della narrativa italiana contemporanea.

In definitiva, leggere Horcynus Orca significa accettare una sfida: perdersi nelle sue parole, confrontarsi con l’orca, attraversare lo Stretto, sperimentare il ritorno impossibile. Ma significa anche emergere trasformati, portando con sé l’esperienza di un viaggio unico nel panorama letterario europeo e mondiale. È un romanzo che non si consuma con la lettura, ma che resta, potente e inesauribile, come il mare che lo ha generato.




In conclusione, Horcynus Orca non è soltanto un romanzo da leggere, ma un’esperienza da vivere, un’immersione totale nella lingua, nel mito e nella storia. D’Arrigo ci mostra che il ritorno non è mai semplice ricongiungimento, ma confronto con la memoria, con la morte e con l’impossibile. L’orca, lo Stretto, le figure di uomini e donne, la lingua stessa diventano strumenti per una riflessione sulla fragilità e la potenza dell’esistenza.

Il romanzo ci sfida, ci affascina, ci mette alla prova: non concede scorciatoie, eppure offre una ricompensa unica, quella di un mondo intero, sospeso tra leggenda e realtà, tra epica e modernità. Chi affronta le sue pagine esce trasformato, portando con sé la consapevolezza che la letteratura può essere, davvero, un oceano in cui perdersi e ritrovarsi allo stesso tempo.

Horcynus Orca resta così, dopo decenni, un faro della narrativa italiana: monumento di lingua e immaginazione, testimone di un’epoca e al tempo stesso mito senza tempo, capace di parlare ancora oggi a chi cerca la densità, il rischio e la meraviglia della parola letteraria.