mercoledì 22 ottobre 2025

neutro


Il neutro è un miraggio di seta grigia che vibra tra due respiri, una sospensione del mondo che pare esistere solo per negarsi. Non è né luce né ombra, ma la trama che le lega e le scioglie: un filo teso tra il sì e il no, tra l’apparire e il dissolversi. Si mostra come una superficie levigata, senza margini, dove ogni cosa sembra potersi riflettere, ma nessuna resta. È un velo che si tende e si ritrae, che invita e respinge, come una pelle che non sente più il proprio calore. Non appartiene al giorno né alla notte, ma abita la soglia — quella regione impalpabile dove il mondo si fa nebbia e la nebbia si fa pensiero. Il neutro è un fantasma di grazia, una carezza che non accade, un respiro che non cerca labbra. La sua bellezza è crudele: non si concede, non si lascia amare, e proprio in questa mancanza di volontà si fa assoluto, come un dio stanco del proprio splendore. È la seduzione che rifiuta il desiderio, la promessa che non si compie, l’attesa che non ha fine.

Guardarlo è come contemplare un abisso che non ti guarda, ma che tuttavia ti trattiene, ti inchioda a sé con la forza magnetica dell’indifferenza. L’abisso non ti chiama, ma ti accoglie. Non ti inghiotte, ma ti sospende. È una vertigine senza movimento, una danza immobile del pensiero. E in quella calma inquieta si genera la forma più sottile del desiderio: il desiderio di sparire. Il neutro non seduce, eppure avvolge: è un vortice di aria ferma, una spirale senza centro, che ti cinge come un respiro di vetro. È la distanza stessa che diventa carezza, il gelo che brucia, la presenza che si afferma nel suo stesso svanire. E allora il linguaggio — povero, esitante, sempre troppo tardo — si piega davanti a questa assenza sovrana, tenta di nominarla e fallisce. Le parole diventano allora pietre offerte sull’altare dell’invisibile, e la voce che le pronuncia è la voce delle statue: bocche di pietra che non sanno più cosa sia il calore del fiato. Ogni suono si spegne prima ancora di nascere, come un’eco che non ha origine. Parlare del neutro è consumare il linguaggio fino alla sua ultima sillaba.

Scrivere è gettarsi in quell’abisso, con la stessa follia lucida di chi si spoglia del proprio corpo per poter sentire. È un gesto di rivolta contro il silenzio, ma anche un atto di adorazione verso di esso. Scrivere significa sfidare il nulla con l’innocenza di chi sa che non vincerà mai. È un tuffo senza fondo, una caduta che non finisce, un moto perpetuo del pensiero che si lacera e si rinnova. Ogni parola incisa sulla pagina è una ferita che non cicatrizza, un solco aperto nel tessuto del mondo. Eppure, in quella ferita, la vita si manifesta: l’inchiostro è sangue, ma anche respiro. Il linguaggio, liberato, precipita: cade come pioggia di specchi, come cristalli che si infrangono contro l’invisibile. Ogni riflesso mostra un frammento del reale, ma nessuno lo contiene. Scrivere diventa allora un atto di fede nell’impossibile — credere che dal frantumarsi del senso possa nascere una forma nuova, un’ombra di verità.

Le parole si spezzano non per debolezza, ma per eccesso di luce: non sopportano il peso del non detto, la tensione dell’ineffabile. Si dissolvono in frammenti di dolore, in scaglie di vetro che restano sospese nell’aria, riflettendo la memoria del mondo. Ogni frammento brilla come un ricordo che non si lascia afferrare, come una promessa infranta che continua a vibrare. È una scrittura fatta di vuoti, di assenze che respirano. Ogni parola non detta è più eloquente di mille dette. Lì, tra il suono e il silenzio, si annida il senso: non nel pieno, ma nel margine, nella crepa, nell’eco che non smette di tornare.

La sofferenza non è nella perdita, ma nel non possedere mai davvero. È una condizione essenziale, come il respiro: non si vive per trattenere, ma per lasciare andare. Il dolore nasce non da ciò che si perde, ma da ciò che non si può mai avere fino in fondo: una voce, un volto, una parola. Ogni tentativo di possesso si dissolve nel contatto, come un bacio che svanisce prima di toccare. Eppure, proprio in quella dissoluzione, qualcosa di più profondo si compie. Il neutro diventa allora non solo una vertigine, ma una forma di grazia: la capacità di accettare il mondo senza tentare di definirlo. È il silenzio dopo la parola, la pausa dopo la musica, il momento in cui l’eco non è più ripetizione ma presenza pura.

Scrivere, in fondo, è un esercizio di resa. È imparare a cedere, a non forzare il linguaggio, a lasciarlo respirare. È un atto di devozione verso ciò che sfugge, un abbandono lucido al fluire dell’indeterminato. Ogni scrittura autentica nasce da un fallimento, da una parola che non arriva, da un tentativo che si consuma. Eppure è proprio in questo fallimento che si apre la possibilità della bellezza. Perché il neutro, con la sua indifferenza, è la culla di ogni forma: da esso scaturisce tutto ciò che può ancora essere detto.

Il neutro è l’ombra dell’androgino primordiale, il sogno di una lingua senza genere, senza direzione, dove ogni significato si specchia nel suo contrario. È il punto in cui il maschile e il femminile si confondono fino a dissolversi, lasciando emergere la pura vibrazione dell’essere. È la voce prima della voce, il respiro che precede ogni canto, il silenzio in cui il mondo ancora dorme. Nel suo abbraccio senza forma, la materia si fa attesa, la luce si fa memoria, il tempo si curva su se stesso. E forse, in quell’istante sospeso, anche Dio — se esiste — tace. Non per mancanza di parola, ma per amore del silenzio.

E in quell’esitazione divina — in quel vuoto che respira e si espande — nasce la scrittura: fragile, inevitabile, sacra. Ogni scrittore è un acrobata del neutro, un equilibrista sul filo teso tra il nulla e la rivelazione. Scrivere significa cadere con grazia, accettare la vertigine come compagna, e riconoscere che il senso non si trova, ma si perde. È un modo di sparire restando, di dire tacendo, di vivere morendo un poco a ogni parola. Nella vertigine del neutro, tutto si dissolve e tutto si ricompone, come se il mondo intero fosse un unico, interminabile respiro che non appartiene a nessuno — ma che, nel suo svanire, ci contiene tutti.