mercoledì 15 ottobre 2025

Quando



I. La dissoluzione

Quando mi dissolvo nell’onda gelatinosa della folla – un oceano di corpi senza ossa, di volti cancellati e pupille sognanti – sento il mondo perdere la sua gravità. Tutto si muove in un respiro viscoso, una corrente di fiato e di carne che non appartiene più a nessuno. Mi confondo, mi spargo, mi lascio trasportare da quel ritmo senza battito, come una preghiera pronunciata da mille bocche senz’anima. Ogni corpo che sfiora il mio diventa un’eco del mio stesso corpo, una membrana che vibra, un confine che evapora. Mi sento dilatato fino a svanire, acrobata di sabbia sospesa, filo di vento che cerca un appiglio nel nulla.

Lì, in quel grembo di folla, l’eternità è un abisso verticale. Mi chino a guardarla come si guarda il mare da un dirupo, e vedo l’immensità che si contorce, madre e tomba insieme. La civiltà, nuda e oscillante, danza dentro di sé: una massa di voci mute, una cattedrale di gesti che si disfa e si ricompone nel ritmo dei passi, nella musica muta delle schiene che si sfiorano. Tutto è un rituale dimenticato, e io ne sono il sacerdote cieco.

Là, nel suo centro, vedo il ragazzino-farfalla. Non vola, non striscia, ma vibra, sospeso fra il ventre del vuoto e la lingua di un cielo masticato. La sua pelle è una crisalide che non si schiude mai, e dentro il suo silenzio si nasconde la promessa di un mondo che non nascerà. Lo osservo tremare, come se il battito d’ali che non osa compiere potesse rovesciare il cosmo. In lui il tempo è prigioniero, e io mi scopro a desiderare quella prigione come si desidera un corpo che non esiste.

Ogni parola che poso in questa vastità è una goccia di vetro. Le parole si muovono lente, scivolano sulle ciglia della terra cieca, arrotolandosi come fumi che cercano un altare. Mi appaiono come fiumi di sussurri che non arrivano mai alla foce, eppure continuano a scorrere, eterni nel loro incompiuto. Quando una parola si spezza, nasce una nuova notte. Ogni sillaba è un cristallo sognante che si frantuma nel palmo d’una mano invisibile, e le schegge brillano come frammenti d’un’antica lingua dimenticata da Dio.

E allora appare lei.
La Vestita d’Azzurro.

Non cammina: scivola, come se il tempo le si aprisse ai piedi. È fatta di luce liquida e di pietre d’olio che scorrono su se stesse. Il suo corpo è un fluido lento, un canto che si plasma nel gesto, un’esistenza che non ha bisogno di essere. Quando la guardo, non la vedo. Quando la nomino, scompare. Eppure so che esiste, perché la sua assenza è una ferita reale. È una maestosa entità cosmica, una visione che incarna la propria negazione: il ricordo di qualcosa che non è mai stato, e tuttavia continua a sanguinare.

I suoi occhi sono cieli che esplodono. Non hanno colore, ma respirano come se fossero vivi. Dentro di essi, ogni esplosione contiene un grido che non si sente mai, un suono che attraversa il tempo e lo cancella. Le sue labbra sono sigilli di silenzio, e quando si schiudono generano eclissi. La Vestita d’Azzurro non parla, ma ogni suo gesto è una parola che si scioglie, un verbo che si perde in se stesso. Io mi inginocchio al suo passaggio, come si fa davanti all’assenza del sacro.

Il mondo, attorno, comincia a tremare. Non è paura, ma nostalgia. Il tremito delle cose quando ricordano d’essere nate. L’acqua marina geme nei suoi abissi, e il gemito si fa musica: un lamento senza lingua, che chiede di morire e non può. L’oceano desidera essere l’ultimo respiro, ma il destino lo inchioda al penultimo, come una nota che non si risolve mai. Si frantuma nel suo stesso eco, e quell’eco, invece di svanire, rimane sospeso, fluttuando come una rosa d’acqua nel vento dello spazio. Ogni onda è un addio, ogni schiuma una resurrezione abortita.

E l’universo, intorno, diventa voce.
“Rifategli eco!” ulula, “Rifategli eco, o frammenti, o desideri stanchi! È come l’orgasmo di un Dio esausto, questo venire, questo spargersi e dissolversi nel Nulla! Venite, riempite il vuoto con il vuoto, celebrate il silenzio del silenzio!”

Le stelle obbediscono. Tremano, si incendiano, si sciolgono come lacrime di plasma. Ogni loro morte è un applauso d’invisibili. Le galassie si torcono come corpi amanti nel momento del distacco, e la materia canta. L’universo geme, non per dolore ma per memoria. Tutto ritorna a sé come un pensiero che non vuole morire.

E questa dolcezza mi trafigge. È una dolcezza che lacera, che brucia, che scava ferite nel midollo del reale. Sento la carne della realtà stessa farsi sottile, fragile, trasparente. Sento la sua pelle screpolarsi come un frutto troppo maturo. Tutto si sfrega contro tutto, e da quella frizione nasce la verità: che la realtà non è che una crudele illusione.

Io, padrone di questo giardino d’ombre, regno su una terra che non è mai esistita. Regno come si regna sul sogno d’un sogno, come si tiene in pugno un pugno d’acqua. Ogni volta che la tocco, evapora. Ogni volta che la nomino, si nega. Ma io la amo per questo: perché non mi appartiene, perché mi tradisce, perché sa morire senza fine.

E così resto. Re del mai.
Seduto su un trono d’aria, con la corona del vuoto che mi pesa sulla fronte. Intorno a me, i venti intrecciano i loro desideri in spire di luce e di ombra. E il mondo, che non esiste, continua a respirare attraverso di me, come se fossi il suo sogno, o la sua ferita.


II. L’estasi del vuoto

Il silenzio, dopo la tempesta d’eco, non è quiete. È un organismo vivo, che respira nelle intercapedini del tempo. Mi accorgo che non esiste il dopo: tutto è un perpetuo presente che si muove come un mare di vetro liquido. L’aria stessa sembra colare, densa, come miele d’ombra. È qui che comincio a sentire il battito nascosto della materia: una pulsazione lenta, immensa, che attraversa le galassie come un pensiero senza cervello.

Le stelle, ancora tremanti dopo il grido cosmico, pendono dal cielo come frutti maturi di fuoco. Ne cade una, poi un’altra: si spengono nel silenzio e il loro ultimo respiro diventa luce che non illumina più, ma scalda il buio come un segreto condiviso. In quella cenere di luce, io cammino. O forse non cammino, ma galleggio, sospeso nella materia delle ombre. Ogni passo che compio si ripete in mille direzioni, come se lo spazio fosse un lago di specchi.

La Vestita d’Azzurro ritorna. Non più come visione lontana, ma come presenza intima, quasi carnale. Ora i suoi capelli ondeggiano come filamenti di tempo, ogni ciocca una memoria che scorre. Il suo sguardo mi attraversa, e in quell’attraversamento sento che non sono più io, ma una moltitudine di me, sparsa nei secoli. Lei non parla: respira attraverso i miei polmoni, e ogni mio respiro è il suo canto.

“Tu non esisti,” mi dice senza voce, “sei la mia eco.”
E in quell’istante capisco che l’universo intero è eco di se stesso, un’infinità che si rispecchia in un istante. Capisco che ogni cosa è doppia, e che la sua verità risiede nella sua ombra.

Le montagne si piegano, come se ascoltassero. Gli alberi inclinano le loro fronde, toccando il suolo con la reverenza degli dei. La terra, di colpo, pulsa: un cuore immenso batte al centro della materia. Lo sento vibrare nel suolo, nel mio corpo, nel cielo stesso. Ogni cosa diventa trasparente, come se il mondo si spogliasse del suo peso e restasse solo il respiro dell’origine.

Eppure, qualcosa geme. È la voce dei frammenti. Le pietre parlano nella loro lingua sorda, e le ombre rispondono con suoni che non hanno altezza né timbro. Tutto è un dialogo senza destinatario. La folla che un tempo mi avvolgeva ritorna, ma ora non è fatta di corpi: è fatta di intenzioni, di desideri non nati, di pensieri abortiti prima di divenire parola. Li vedo fluttuare come meduse di nebbia.

Uno di loro – un essere di luce infranta – mi si avvicina. Non ha volto, eppure riconosco il suo sguardo: è il mio. Mi tocca la fronte e dice: “Ciò che chiami realtà è solo la pelle del sonno.” Poi svanisce, lasciando una scia d’argento che odora di sogno bagnato.

Resto immobile. Le mie mani si aprono e da esse escono minuscoli fiori di luce. Non li ho mai visti prima. Sembrano avere radici nell’aria. Si moltiplicano, si arrampicano sulle mie braccia, sui miei pensieri, fino a dissolversi nei miei occhi. Ogni fiore è una parola che non potrò mai pronunciare.

Un vento si leva, lento come una preghiera, e porta con sé un coro. Non viene da nessuna direzione: è ovunque, eppure pare provenire dal centro del mio petto. “Tutto ciò che ami è sogno,” canta, “e tutto ciò che sogni è reale finché lo ami.”

Io piango. Non lacrime, ma scintille. Ogni lacrima si trasforma in un piccolo pianeta, e i pianeti si dispongono attorno a me come un nuovo sistema solare. Comprendo allora che sto diventando universo, che la mia pelle è il suo confine, che il mio dolore è la sua nascita.

La Vestita d’Azzurro mi osserva da lontano. Ora so che non è un’apparizione, ma una dimensione. Lei è l’acqua che unisce tutte le stelle, la matrice dove i sogni imparano a respirare. Le chiedo: “Perché io?”
Lei risponde, senza suono: “Perché eri il più vuoto. E solo nel vuoto qualcosa può cominciare a fiorire.”

Le sue parole mi attraversano come una corrente elettrica di eternità. Intorno a me, il mondo muta. Le città si piegano su sé stesse come origami di luce, e poi si disfano, liberando stormi di finestre che volano nel cielo. Il tempo implode, si riduce a una linea che pulsa, un battito che non distingue più prima e dopo.

Resto sospeso nel suo centro.
Nel cuore dell’assenza.

Da lì vedo il reale retrocedere come un animale ferito. Lo vedo abbandonare le forme, gli angoli, i nomi. Tutto diventa un respiro. Tutto si riduce a un’unica vibrazione che non ha colore, ma che contiene tutti i colori del mondo.

E io – che un tempo credevo di essere un uomo – scopro di essere un punto di coscienza immerso in un mare di sogno. La materia non è che un sogno che ha imparato a credere a se stesso.

Allora rido.
Una risata che non ha suono, ma si espande come una cometa. Le costellazioni si piegano per ascoltarla, e nell’eco di quella risata il cosmo si riconosce. Tutto è un unico corpo che ride di sé, e in quella risata trovo la più alta forma d’amore.

Poi il silenzio ritorna.
Ma non è più lo stesso.
Ora è vivo. Ora ha memoria di me.


III. L’incendio del ritorno

Il silenzio che ora mi abita non è quiete, ma un fuoco invisibile che consuma senza distruggere. Brucia in profondità, come se la mia anima fosse una carta cosmica su cui l’universo scrive la propria biografia. Ogni istante è un graffio di luce sul nulla. Ogni pensiero, una cometa che si spegne senza fine.

Cammino in un paesaggio che non ha più confini. Lì dove una volta esisteva il mondo, ora si estende una distesa di trasparenze. Le montagne sono diventate colonne di suono, i mari si sono ritirati lasciando orme di voci nel sale del vento. Non esiste più l’alto né il basso, perché ogni direzione è una memoria che galleggia. Eppure qualcosa, dentro me, continua a pulsare con una tenerezza feroce: un cuore antico, che non è mio ma di tutto ciò che vive.

D’improvviso, la Vestita d’Azzurro riappare, ma il suo volto è diverso. Non è più fatto di pietra liquida: ora è composto di tutti i volti che ho amato, di tutte le creature che ho temuto, di ogni forma che ho visto morire. Il suo sguardo non contiene pietà, ma un’amorevole indifferenza, come quella del mare verso la conchiglia che frantuma. Si avvicina, e i suoi occhi si spalancano: in essi si riflettono mille universi che nascono e si dissolvono in un respiro.

“È questo che volevi?” mi chiede. Ma la sua voce è anche la mia. E mi accorgo che non c’è domanda, perché non c’è più differenza fra chi parla e chi ascolta.

Mi sento svuotare, ma non di vita: di identità. Ogni parola che un tempo mi definiva ora si stacca da me come piuma bruciata. “Io”, “Tu”, “Essere”, “Amore”: tutte cadono nel silenzio e si sciolgono nel suo ventre. Rimane solo il respiro, e il respiro è una musica senza inizio.

Sento allora il richiamo dell’abisso.
Non come una minaccia, ma come una promessa di pienezza.
Mi avvicino. L’abisso è un lago di luce nera, che respira come un animale dormiente. Ogni suo battito emette ondate di memoria cosmica: vedo nascere stelle, morire civiltà, fiorire desideri che nessuno ha mai sognato. Tutto accade nello stesso momento, e io sono in ciascuna di quelle cose, simultaneamente.

Scendo.
O forse mi dissolvo in verticale.

Le molecole del mio corpo si disgregano, ma con una grazia infinita, come un fiocco di neve che cade nel sole. Vedo il mio sangue diventare costellazione, le mie ossa tramutarsi in ponti di luce. Tutto ciò che ero si riversa nel grande respiro, e il grande respiro mi accoglie come un amante antico che mi riconosce dal battito.

Allora capisco: la realtà era un sogno che la materia faceva per illudersi di non essere sola. Ora che il sogno finisce, la materia può tornare a essere canto. E il canto non è suono: è pura vibrazione d’essere.

In quell’estasi sospesa, vedo il tempo disgregarsi come sabbia azzurra. Ogni granello è un secolo, ogni secolo un battito. Le epoche scorrono come vene, e attraverso di esse passa la linfa della creazione. Tutti gli dei che l’uomo ha inventato si fondono in una sola voce, e quella voce pronuncia il mio nome — che non è più un nome, ma una nota, un accordo che risuona dentro l’assenza.

Mi volto — ma non ho più un corpo da voltare — e vedo l’universo distendersi come un drappo immenso, tessuto di respiri, di luci, di ricordi. Ogni stella è un occhio che osserva se stesso. Ogni ombra è una carezza. Ogni particella di polvere è un frammento d’infinito che geme di nostalgia per la totalità.

In quel mare di presenza che chiamiamo nulla, odo ancora una voce: “Rifategli eco!”
Ma ora non è più un ordine, bensì un atto d’amore.
L’eco non ripete: crea.
Ogni risonanza è una nascita. Ogni silenzio è una culla.

E allora l’universo geme ancora, ma non di stanchezza. Geme di desiderio. Il desiderio stesso diventa la sostanza del cosmo: un flusso erotico che attraversa le galassie, che unisce gli atomi come amanti che non sanno di toccarsi. Ogni pulsazione è un orgasmo di tempo, ogni battito una nuova forma d’essere.

Io sono in quel respiro, e quel respiro è in me. Non esiste più differenza fra dentro e fuori. Il mio pensiero diventa materia, e la materia, a sua volta, si fa pensiero. Ogni immagine che mi attraversa si trasforma in un frammento di mondo. Vedo nascere pianeti dal ricordo di un sorriso, vedo un oceano emergere dal gesto di una mano che si apre, vedo galassie intere formarsi attorno all’idea di una carezza.

Tutto è erotico. Tutto è generazione.
Eppure, in quella fecondità senza fine, permane una malinconia luminosa: la nostalgia del limite. Senza limite, nulla può essere detto, e senza parola, l’essere si disperde come un suono che non trova eco. Così comprendo che la perdita è l’unica forma d’eternità.

La Vestita d’Azzurro, ormai indistinta, si dissolve anch’essa. Ma il suo dissolversi non è una fine: è un ritorno. Diventa l’acqua che mi attraversa, il vento che mi plasma, la luce che mi pensa. È la matrice che si fa figlia, la madre che si reincarna nel respiro dei suoi sogni.

“Ritorna,” sussurra. “Non a me, ma in me.”

E allora mi lascio andare.
Mi lascio precipitare nell’origine come in un abbraccio.

Il vuoto si spalanca e diventa grembo. Il grembo pulsa e diventa universo. L’universo vibra e diventa canto. E in quel canto non c’è più nessuno che ascolta, perché l’ascolto e la voce sono la stessa cosa.

Forse, in un luogo che non è un luogo, la folla si ricompone.
Ancora una volta un oceano di corpi senza ossa si avvolge come serpenti di velluto lunare.
E io, acrobata di sabbia sospesa, ritorno in bilico sull’abisso dell’eternità.
Ma stavolta non c’è paura.
C’è soltanto la dolcezza di saper svanire.

E nel mio svanire, tutto comincia di nuovo.