Il titolo del nuovo libro di Roberto Ciccarelli, Divenire rivoluzionari.e. Gilles Deleuze, Félix Guattari e noi, è già una soglia e un gesto, un piccolo atto politico travestito da paratesto editoriale. Non c’è neutralità, non c’è accademismo nella scelta delle parole: c’è piuttosto un invito, una sfida, una vibrazione che chiede al lettore di fermarsi, di ascoltare. Quel “divenire” non è soltanto una citazione del lessico deleuziano, ma la dichiarazione di un’intenzione: non si tratta di essere rivoluzionari, di incarnare un’identità, ma di entrare in un processo, di accettare la metamorfosi, la precarietà del divenire stesso come condizione di possibilità della vita politica. Il titolo funziona come una formula di passaggio: attraversarlo significa già assumere un punto di vista, un ritmo, una postura esistenziale. La scrittura “rivoluzionari.e” – con il punto e quella “e” sospesa – rende visibile una tensione. È un segno che incrina la lingua, un gesto di apertura che rifiuta la chiusura binaria del genere, ma anche quella della filosofia che pretende di rappresentare il mondo anziché attraversarlo. È un atto di ospitalità linguistica, un modo per far entrare le differenze nella materia stessa del testo.
In questa piccola rivoluzione tipografica si condensa l’intero programma del libro: non proclamare ma disporre, non imporre ma generare movimenti. Ciccarelli non adotta la lingua inclusiva come moda o correttezza, ma come forma di vita, come pratica politica. La scrittura diventa qui un campo di battaglia, o meglio, di divenire: non il luogo dove si fissano i significati, ma quello in cui si lasciano fluire. È un titolo che si muove, che sfugge, che accenna una danza più che una definizione. E da questa danza nasce il ritmo stesso del libro, che si sottrae alle forme chiuse del saggio per proporsi come un corpo concettuale in movimento, attraversato da tensioni, contaminazioni, aperture.
L’uscita del volume nel 2025 non è casuale. L’anno segna il centenario della nascita di Gilles Deleuze e il trentennale della sua morte. Un doppio anniversario che, nel circuito editoriale, rischiava di trasformarsi in occasione celebrativa, di ridurre la forza del pensiero a icona. Ciccarelli sceglie la via più difficile: sottrarsi alla commemorazione, evitare la santificazione, rifiutare ogni tentazione museale. Non scrive un libro “su” Deleuze e Guattari, ma “con” Deleuze e Guattari. È una differenza decisiva: significa pensare in compagnia, non da discepolo ma da compagno di viaggio. In questo senso Divenire rivoluzionari.e non appartiene al genere della storia delle idee, ma a quello – più raro e necessario – della filosofia attiva, del pensiero che continua, che prolunga, che sperimenta.
Ciccarelli si muove dentro il solco tracciato da L’Anti-Edipo e Mille piani, ma non per ripeterli. Li tratta come strumenti, come dispositivi operativi, come armi concettuali. Deleuze e Guattari sono per lui una cassetta degli attrezzi per leggere il presente, per smontare i meccanismi del dominio contemporaneo, per riconoscere nelle nostre vite gli stessi flussi di potere, desiderio, soggezione che animavano la loro analisi del capitalismo. I concetti vengono riattivati: “macchina da guerra”, “desiderio”, “corpo senza organi”, “molteplicità”, “agencement”, “linea di fuga” diventano ancora una volta parole vive, strumenti da impugnare. La filosofia, qui, non è mai esposizione neutra: è un esercizio militante, un modo di stare al mondo, un modo di respirare.
Il libro affronta uno dei temi più urgenti e sottili del pensiero politico contemporaneo: la mutazione del fascismo. Non come ritorno del passato, non come nostalgia di regimi, ma come logica permanente, come virus capace di mutare. Ciccarelli lo definisce “fascismo molecolare”, e lo descrive come un fenomeno diffuso, capillare, infiltrato nelle pieghe del quotidiano. Non più un potere dall’alto, ma un fascismo che agisce nei linguaggi, nei comportamenti, nei desideri, nelle micro-relazioni di potere. È un fascismo che non impone soltanto, ma seduce; che non domina con la paura, ma con il consenso; che non si limita a disciplinare, ma produce soggettività. È il fascismo del like, dell’identità ostentata, della violenza algoritmica.
Qui Ciccarelli dialoga profondamente con Deleuze e Guattari: già negli anni Settanta avevano intuito che il fascismo è un desiderio, un godimento perverso nell’aderire a forme rigide, a gerarchie, a chiusure. Il “micro-fascismo” è il piacere di servire, la soddisfazione di sottomettersi, la ricerca di sicurezza nell’ordine. Ciccarelli aggiorna questa intuizione e la porta dentro la nostra epoca di reti sociali, di piattaforme che mercificano l’attenzione, di populismi algoritmici. Il fascismo non è più fuori di noi: ci attraversa, ci modella, ci seduce. La precarietà economica e affettiva diventa il terreno su cui attecchiscono le pulsioni autoritarie. La vulnerabilità produce consenso, la frustrazione diventa rancore, il rancore alimenta il potere.
Ecco allora che “divenire rivoluzionari.e” significa innanzitutto disinnescare questo fascismo molecolare, rompere i circuiti di cattura del desiderio. Non si tratta di attendere la grande rivoluzione, ma di inventare micro-resistenze, pratiche quotidiane di liberazione, forme di vita che sfuggano alla norma. La rivoluzione, qui, è un verbo all’infinito, non un nome. È un movimento che non si chiude mai, un processo di sperimentazione collettiva. È il tentativo di costruire un’etica della trasformazione: una politica che si confonde con la vita, un’etica che diventa potenza di esistere.
Ciccarelli scrive con un’urgenza che raramente si ritrova in un testo filosofico. La sua lingua è precisa ma vibrante, capace di muoversi tra piani diversi: la filosofia politica, l’arte contemporanea, le lotte transfemministe, la critica ecologica, la psicoanalisi, la teoria queer. Non cerca la purezza, ma la contaminazione. Il suo stile è un laboratorio, un luogo di attraversamenti. Si avvertono echi di Spinoza e Foucault, ma anche di Donna Haraway, Rosi Braidotti, Judith Butler, Toni Negri, Achille Mbembe. Ogni citazione è una connessione, ogni concetto è una soglia. Il pensiero procede per assemblaggi, come in Deleuze e Guattari: il libro è esso stesso un “agencement”, un piano di consistenza che connette corpi, linguaggi, esperienze.
Questa trasversalità, però, comporta anche un rischio. La rapidità dei passaggi, l’ampiezza del campo semantico, la moltiplicazione delle linee di fuga possono disorientare il lettore. Ma questo disorientamento è parte del metodo: la filosofia del divenire non promette mappe, ma invita a perdersi. Ciccarelli non costruisce un sistema, costruisce un flusso. Ogni concetto si apre, si deforma, si rigenera in un altro. È una scrittura che accetta la propria instabilità come condizione di verità.
In questo movimento continuo, Divenire rivoluzionari.e affronta anche la grande questione politica del nostro tempo: come pensare la rivoluzione dopo la fine delle rivoluzioni? Dopo il fallimento delle avanguardie, dopo il collasso delle sinistre storiche, dopo la cattura neoliberale della democrazia, è ancora possibile parlare di trasformazione? Ciccarelli risponde sì, ma a condizione di cambiare completamente prospettiva. Non più la rivoluzione come evento finale, ma come processo permanente. Non più il soggetto come portatore della storia, ma come flusso di forze che si trasforma insieme al mondo. Non più la lotta per il potere, ma la creazione di nuove forme di vita.
È un pensiero che risuona con le esperienze più radicali del presente: i movimenti transfemministi e queer, le pratiche ecologiche che mettono in discussione la centralità umana, le esperienze di mutualismo e cooperazione che emergono nei margini urbani, le comunità artistiche e digitali che sperimentano linguaggi alternativi. Tutti questi fenomeni, per Ciccarelli, sono esempi di “divenire rivoluzionari.e”: non movimenti dottrinali, ma forme di vita che si inventano.
Il pregio più evidente del libro sta nella sua capacità di unire rigore teorico e passione politica. Ciccarelli non è un accademico che commenta: è un pensatore che agisce nella lingua. La sua scrittura è parte del problema che analizza. In un panorama editoriale dove spesso la filosofia politica si riduce a commentario o divulgazione, Divenire rivoluzionari.e riporta il pensiero là dove brucia, dove si rischia.
Certo, il testo non è privo di limiti. La dimensione del divenire, così mobile e fluida, rischia talvolta di dissolversi in evocazione, di non offrire strumenti organizzativi concreti. Il pericolo è quello di restare nel piano dell’ispirazione, senza incidere nelle strutture materiali del potere. Ma forse non è questo il suo compito. Ciccarelli non scrive un manuale di tattica, ma una filosofia del possibile. Il suo scopo non è dire al lettore cosa fare, ma ricordargli che può ancora fare qualcosa.
In questo senso il libro è profondamente deleuziano: non prescrive, provoca. Non insegna, stimola. Non tranquillizza, inquieta. È un testo che non lascia indifferenti. Rifiuta la passività della lettura, chiama alla partecipazione. Ogni pagina invita a pensare con, a pensare contro, a pensare oltre.
Nel contesto italiano, Divenire rivoluzionari.e ha un valore particolare. Da un lato rompe con il deleuzismo accademico, che ha trasformato un pensiero del movimento in un sistema di citazioni; dall’altro rifiuta il deleuzismo “pop” che usa concetti complessi come slogan decorativi. Ciccarelli sceglie una terza via: quella del pensiero militante, vivo, incarnato nella storia. È un libro che non teme di sporcarsi con l’attualità, di attraversare la cronaca, di parlare di fascismo e algoritmi, di linguaggio e precarietà, di vita e desiderio.
Ed è proprio per questo che Divenire rivoluzionari.e è importante. Perché riporta la filosofia al suo compito originario: interrogare il presente, creare concetti per sopravvivere al caos. Non un sapere consolatorio, ma un sapere in lotta. Ciccarelli ricorda che pensare è un atto rivoluzionario, e che ogni atto di pensiero, se sincero, produce uno spostamento. Nel mondo, nelle relazioni, nei corpi.
Il libro si chiude come si apre: con un gesto. Non un punto fermo, ma una sospensione, un’invocazione al possibile. Nessuna conclusione definitiva, ma un invito a continuare il movimento. Divenire rivoluzionari.e non chiede di credere, ma di fare esperienza del divenire stesso. È un libro che non insegna cosa sia la rivoluzione: la fa accadere, nella lingua, nel pensiero, nella vita. In un’epoca in cui la filosofia sembra aver rinunciato a incidere nel reale, questo testo restituisce la sensazione di un pensiero che ancora pulsa, che ancora osa. E se, come diceva Deleuze, pensare significa creare, allora questo libro non è solo una riflessione sulla rivoluzione, ma un suo frammento in atto.