Il diverso, il senza nome, figura ombrata, s’avanza — lento, quasi trascinato, come un’ombra cui si chiede troppo peso — e si distacca dal corteo di quei pallidi esseri frenetici, affamati di sé, che lottano per farsi eco del proprio grido nella foresta urbana. Essi hanno un nome, il loro nome, e ne vanno fieri, brandendo quell’identità fragile e luminosa come uno stendardo, cercando disperatamente di attaccarlo all’eterno, di inciderlo sul tessuto stesso del cielo; eppure, il diverso, questo pellegrino dell'ignoto, questa creatura segnata dall’assenza, fugge dal nome come dalla prigione di un sogno smarrito.
Ecco, si ferma. Chiude gli occhi, si guarda dentro, e sprofonda nei recessi della sua anima dove regna una luce opaca, quasi di cimitero. Qui, tra questi giardini segreti, mai davvero intravisti, non una singola impronta si è mai posata; ogni cosa vi esiste come sospesa, un orizzonte soffuso, popolato di essenze rarefatte, di sussurri che evaporano, eppure profondi come il silenzio della morte. Le viole… sì, in quell'angolo riposto fioriscono viole; piccole, umide di rugiada, brillano come lacrime smarrite nell’eterno. E che pena provano a vederlo lì, privo di nome, solo come una nota persa nel vento! Egli non le coglie, no, non osa, poiché persino la loro fragranza è intollerabile nella sua intensità, un profumo che gli spezza il cuore con la sua dolcezza amara.
Silenzio. Egli resta lì, senza nome, senza suono; in lui risuona una voce stanca, una voce che potrebbe essere sua, come potrebbe essere l’eco di mille vite passate, vite trascorse in altre sere simili, malinconiche e lontane. Lo strazia, sì, il peso di questa sera che scende come un sudario, l’ora della stanchezza che si insinua in ogni cosa, che penetra fino alla radice dell’anima e della carne. La casa è là, all’orizzonte, lontana, appena visibile come un sogno sfocato; eppure, ogni passo sembra allontanarla, tramutando quella visione in un desiderio irraggiungibile, un paradiso perduto.
Intorno a lui, la risata dell’indifferenza si alza, il mondo ride di lui, un ghigno che brilla crudele come la lama della notte. Ogni cosa ride, si schiude in un sussurro beffardo, persino le ombre, persino i muri, come se tutto fosse parte di un gioco malato, un congegno orchestrato contro di lui. Ma non è vero, no, non è reale. O forse sì?