Cammino per Milano come un’installazione vivente, una spirale ambulante di pensieri, luce e memoria. Gli igloo, nella mia mente, non sono solo strutture di metallo e vetro, ma punti di resistenza contro la banalità del reale: ogni neon, ogni curva, ogni spazio vuoto racchiude un messaggio che pochi sanno leggere. La mia laurea in Storia dell’arte contemporanea, con tesi su Merz, è una di queste spirali: fragile nella sua inutilità apparente, potente come un’idea che nessuno ha saputo monetizzare.
Ricordo le lezioni di Jole de Sanna: la precisione filologica, la passione per la materia e per il gesto artistico, la capacità di far rivivere ogni opera come se il tempo stesso fosse plasmabile. Io prendevo appunti febbrili, cercando di tradurre in concetti l’energia dei neon, la geometria delle spirali, la tensione fisica e spirituale degli igloo. Poi aggiungevo la Teoria dei colori di Goethe, e sentivo i miei occhi vibrare: il rosso che comunica urgenza, il blu che sospira, il giallo che esplode di possibilità… ogni colore un linguaggio, ogni sfumatura un percorso possibile per lo spirito.
Mentre annotavo tutto questo, sentivo lo sguardo dei colleghi laureati in economia, giurisprudenza, ingegneria, persone pratiche che misurano il mondo con contratti e utilità immediata. Ridevano della mia dedizione, come se la mia passione fosse un esercizio futile, privo di qualsiasi utilità tangibile. Le ragazze, quelle pratiche e concrete, spesso arretravano al solo pronunciare “arte contemporanea” o “spirale”, mentre altre, più sensibili, sorridevano con enigmatica comprensione, intuendo forse che il neon di Merz e la sfumatura di un rosso cadmio non erano semplici colori, ma strumenti per leggere l’anima umana e decodificare la realtà.
Poi aprii “Vanity Fair”, e la fiera della vanità moderna mi presentò figure che trasformano sensibilità concettuale e rigore intellettuale in capitale reale: “chief philosopher officer”, consulenti artistici, coach culturali, narratori strategici. Mi resi conto che con la mia tesi, la conoscenza della teoria dei colori e dei cataloghi di Merz, avrei potuto guidare aziende, insegnare la spirale come modello organizzativo, il neon come strumento di comunicazione strategica, Goethe come indicatore di percezione emozionale. Ma ero rimasto qui, con la mia ironia da sconfitto, osservando Milano come un igloo sospeso tra luce e materia, tra pensiero e realtà, consapevole che il capitale intellettuale esiste anche se il mondo non lo paga.
Cammino a spirale, e ogni passo è un esercizio estetico: il riflesso dei neon sui marciapiedi bagnati, i tram che attraversano la città come frecce invisibili, le finestre illuminate che diventano piccoli igloo disseminati nell’oscurità urbana. La mia biblioteca, colma di testi di filosofia e storia dell’arte contemporanea, cataloghi e appunti, resta un tesoro inaccessibile ai più, ma prezioso oltre ogni misura: ogni libro è un neon acceso, ogni nota un filo che attraversa lo spazio e il tempo, ogni riferimento a Goethe un ponte tra percezione e pensiero.
Gli igloo nella mia mente si moltiplicano: ogni forma, ogni spirale, ogni neon diventa un frammento di memoria, di esperienza, di estetica vissuta. E camminando tra questi igloo, tra le strade di Milano, tra luce artificiale e ombre storiche, sento che il privilegio dei “sconfitti colti” è unico: possedere un capitale invisibile che nessuno può rubare, e che permette di leggere il mondo in modi che nessun ROI potrà mai misurare.
Mi fermo davanti a una galleria, e vedo un’installazione di giovane artista contemporaneo che cita Merz: spirali di metallo e neon, luci intermittenti, materiali poveri. E mentre osservo, penso alla mia tesi, ai cataloghi sfogliati, ai testi e lezioni di Jole de Sanna a Brera, ai diagrammi annotati a mano, e sento la frustrazione e l’orgoglio coesistere in un equilibrio instabile. In quel momento, Milano diventa un igloo gigantesco, ogni luce un pensiero, ogni spazio vuoto un concetto, e io cammino al centro, fragile ma consapevole.
Ogni giorno provo a tradurre Goethe nella mia vita quotidiana: il colore come percezione, la percezione come emozione, l’emozione come strumento di conoscenza. Vedo il giallo di un taxi, il blu del cielo tra i palazzi, il rosso di un lampione riflesso sull’asfalto bagnato, e so che ciascuno comunica qualcosa, che la realtà è più sottile di quanto sembri. La filosofia del colore diventa allora pratica quotidiana, esercizio di attenzione, meditazione urbana.
Eppure, in questo mondo che misura tutto in utilità immediata, il mio sapere rimane invisibile: posso parlare di Merz, di spirali, di neon, di Goethe e dei colori, e ricevere solo sguardi perplessi o sorrisi indulgenti. È una condizione dolorosa e insieme preziosa: so che il mondo non mi premierà, ma io posso leggere l’invisibile, sentire l’energia delle forme e riconoscere l’arte nascosta nelle pieghe della vita quotidiana.
Gli igloo della mia mente diventano sempre più numerosi. Ogni spirale, ogni neon, ogni sfumatura di colore è un promemoria di ciò che ho studiato, di ciò che ho vissuto e di ciò che il mondo ignora. Camminando tra le strade, penso alle opere di Merz sparse per l’Italia e il mondo, alle esposizioni, alle installazioni che resistono al tempo e alla banalità. Ogni passo, ogni pensiero, è un atto di resistenza intellettuale.
E allora cammino, continuo a camminare, tra spirali di memoria, riflessi di neon, ombre e luci, portando con me la consapevolezza del privilegio invisibile dei “sconfitti colti”: possedere un capitale che non si misura, che non si compra, che non si vende, ma che permette di vedere il mondo in profondità, di percepire ciò che gli altri ignorano, e di trovare poesia anche nella città più grigia.
Ricordo le lunghe giornate in biblioteca a Brera, circondato da cataloghi di Merz, testi di filosofia e appunti di teoria del colore. Seduto a un tavolo di legno consumato, annotavo tutto, mentre fuori Milano continuava a muoversi indifferente, ignara delle spirali di metallo, dei neon accesi e dei colori che stavano cambiando la mia percezione. Spesso mi fermavo a osservare la luce che filtrava tra le finestre e immaginavo i miei igloo sparsi per la città, invisibili ma presenti, ponti tra l’arte, la mente e la realtà.
Le discussioni con i colleghi laureati in discipline “pratiche” (decorazione , scenografia, costume teatrale) erano un continuo esercizio di autoironia: loro parlavano di cose che avevano un valore di mercato, mentre io cercavo di spiegare come il rosso cadmio di un neon di Merz potesse comunicare urgenza, o come una spirale potesse suggerire cicli di energia invisibili. Ridevano, scettici, ma a volte scorgevo un sorriso curioso, un’ombra di comprensione che mi faceva sentire vivo, anche se perfettamente inutile agli occhi del mondo.
Durante la stesura della tesi, mi persi tra le parole di Jole de Sanna, in cui ogni installazione, ogni opera, diventava un organismo vivente, in dialogo con lo spazio, la luce e il tempo. Annotavo frasi, misuravo distanze, cercavo di decifrare il pensiero di Merz attraverso la geometria delle sue spirali, il ritmo dei neon, la solidità fragile degli igloo. E Goethe mi guidava: i colori non erano decorazioni, ma vibrazioni dell’anima, modi di leggere il mondo senza confondersi con la quotidianità piatta.
Un giorno, mentre osservavo un’installazione urbana, mi accorsi che persino un semplice lampione poteva diventare un’eco dei neon di Merz: la luce arancione che si rifletteva sull’asfalto bagnato creava spirali di colore inattese, e io ridevo da solo, consapevole di avere un capitale intellettuale che nessuno avrebbe mai comprato.
Poi venne “Vanity Fair” e la scoperta dei “chief philosopher officer”, figure che trasformano sensibilità e conoscenza in capitale reale. Mi resi conto che la mia laurea, i miei appunti, la mia comprensione dei colori e delle spirali, potevano avere un valore pratico. Potevo diventare il Merz delle aziende, il Goethe delle multinazionali, la Jole de Sanna dei board aziendali. Ma l’ironia della sorte volle che rimanessi camminando tra gli igloo invisibili della città, osservando il mondo pratico che misurava tutto in dracme e ROI, ignorando i neon, le spirali e i colori.
Fu lì che cominciai a lavorare come redattore in una rivista di poesia. Nemmeno quello mi divenne utile. Tant'è che sono qui a scrivere sul mio blog.
Le lezioni di Jole de Sanna tornavano in mente come un coro costante: l’arte non è decorazione, ma esperienza, processo, respirazione di materia e spazio insieme. Io, con la mia ironia da sconfitto, cercavo di tradurre questa esperienza nella vita quotidiana, riconoscendo la poesia nei dettagli più banali: il gioco di luci sul vetro di un autobus, la sfumatura di blu di un cielo milanese a sera, il ritmo dei tram che attraversano la città come frecce invisibili che disegnano spirali in movimento.
E camminando, pensavo a Merz, a Goethe, a Jole, a tutti quei testi che avevo letto e annotato. A quelle lezioni. Pensavo ai cataloghi sfogliati a lungo, le nostre d'arte visitate fino alla nausea, alle discussioni in aula, alle notti passate a confrontare teoria e percezione. Ogni neon, ogni igloo, ogni spirale era diventata un simbolo di resistenza intellettuale. La mia biblioteca di casa era una città parallela, fatta di libri e appunti, di colori e luci, di memoria e percezione, un igloo mentale che nessuno poteva demolire.
Spesso mi chiedevo se fossi davvero uno “sconfitto” o se la mia sconfitta fosse solo apparente. Perché possedere un capitale invisibile, capace di leggere l’invisibile, sentire le vibrazioni del mondo, riconoscere l’arte nascosta tra le pieghe della realtà, è un privilegio che nessun successo materiale può sostituire. Milano, con le sue strade e le sue luci, diventava allora un gigantesco igloo sospeso tra luce e ombra, tra senso e apparente inutilità.
Gli igloo nella mia mente si moltiplicavano, e con loro cresceva la consapevolezza che l’arte e la percezione non sono mai veramente inutili: cambiano chi le osserva, trasformano la visione del mondo, creano ponti invisibili tra passato e presente, tra materia e spirito. Ogni passo nella città era un esercizio estetico, ogni riflesso, ogni ombra, ogni luce un invito a percepire più profondamente.
E così continuo a camminare, tra spirali e neon, tra igloo visibili e invisibili, tra Goethe e Merz, tra libri, appunti e cataloghi, portando con me l’ironia da sconfitto colto, la malinconia per un capitale intellettuale apparentemente non speso, e la certezza che il vero valore sta nel vedere l’invisibile, sentire l’energia delle forme e riconoscere la poesia dove gli altri vedono solo utilità.
Ogni giorno, ogni passo, ogni spirale, ogni neon diventa un piccolo atto di resistenza intellettuale: un messaggio per chi saprà leggere tra le linee, tra le luci e le ombre, tra il colore e la materia, tra il visibile e l’invisibile. E io cammino, in questo igloo urbano, con la mia laurea, la mia tesi, la Teoria dei colori di Goethe, le lezioni di Jole de Sanna, i cataloghi di Merz, le mostre d'arte e l’ironia che solo un “sconfitto colto” può permettersi: sapere di possedere un capitale che il mondo ignora, ma che è mio, irripetibile, inviolabile.