INFORMARE
“Ma si può fare informazione sull’arte, e però né arte, né informazione sull’arte esistono senza aggettivi.” – Mario Merz
L’osservazione di Mario Merz introduce immediatamente un nodo centrale del dibattito teorico sull’arte contemporanea: il rapporto tra linguaggio e conoscenza, tra il dire e il fare, tra l’informazione e l’esperienza estetica. La sua frase, tanto lapidaria quanto carica di implicazioni, contiene un’affermazione radicale: nessuna forma d’arte, e nemmeno il discorso che tenta di spiegarla, può esistere nella neutralità. Ogni atto di comunicazione – sia esso visivo, verbale, concettuale – porta con sé un aggettivo, una tonalità, un residuo affettivo o ideologico che lo colloca nel mondo.
Questa consapevolezza, in apparenza linguistica, assume in Merz una portata ontologica: fare arte, o parlarne, significa necessariamente generare differenza, introdurre nel continuum dell’esperienza una variazione di senso.
Negli anni Sessanta e Settanta, la questione dell’“informazione sull’arte” coincideva con la crisi dei linguaggi modernisti e con l’emergere delle pratiche concettuali. Il termine stesso informazione – che in Italia assume una valenza peculiare grazie alla riflessione di critici come Germano Celant, Tommaso Trini e Jole De Sanna – viene inteso come principio operativo più che come descrizione. Non si tratta semplicemente di comunicare l’arte, ma di trasformare il processo informativo in un campo d’indagine estetica, dove la materia e il linguaggio si sovrappongono e si contaminano.
In questo quadro teorico, l’affermazione di Merz appare come una risposta postuma e insieme anticipatrice: egli intuisce che l’arte non può ridursi a un sistema di segni trasmissibili, poiché la sua forza risiede proprio nell’irriducibilità a un codice. Se l’informazione è sempre filtrata da un aggettivo, allora il compito dell’artista non è eliminarlo, ma renderlo consapevole, esibirne la presenza come elemento costitutivo del discorso estetico.
Gillo Dorfles, nel saggio L’Arte, la Scienza, osservava come i tentativi di assimilare strutture artistiche e scientifiche si fossero rivelati spesso deludenti. Il suo richiamo al fallimento delle elucubrazioni sul Numero Aureo o sulla serie di Fibonacci non va letto come una chiusura, ma come un invito alla cautela metodologica. Dorfles distingue fra una legittima analogia strutturale – per cui arte e scienza condividono certi processi cognitivi di ordine e misura – e una confusione di linguaggi che rischia di ridurre l’una o l’altra a semplice decorazione concettuale.
Merz si inserisce proprio in questa linea di tensione: rifiuta la simmetria sterile, ma non rinuncia alla possibilità di un dialogo. Il suo lavoro – e in particolare le opere degli anni Ottanta – rappresenta un tentativo di risemantizzare lo spazio che i precedenti sperimentalismi avevano lasciato vuoto. Là dove l’arte concettuale aveva sottratto alla materia il suo potere generativo, Merz lo reintegra, ma su un piano diverso, in cui la tautologia non è chiusura, bensì apertura verso una conoscenza circolare.
Lo spazio di Merz è, in tal senso, un dispositivo epistemico: un luogo che produce spazio, un organismo che riflette sulla propria condizione di essere. Tale definizione, apparentemente tautologica, trova fondamento nella pratica dell’artista. Ogni installazione, ogni igloo, ogni struttura in neon o in materiale organico costituisce un microcosmo in cui la forma non rappresenta ma genera il proprio contesto. Lo spazio non è mai contenitore, ma materia di pensiero.
Un esempio emblematico è Sentiero per qui (Triennale di Milano, 1986). In quest’opera, Merz costruisce una relazione diretta fra gesto e significato: la materia diventa flusso, la linearità si spezza in una circolarità energetica. L’opera non “rappresenta” un sentiero, ma ne ricrea la condizione di attraversamento. Il visitatore è invitato a percepire il movimento non come semplice transito fisico, bensì come esperienza cognitiva. In tal senso, la tautologia – “il sentiero è il sentiero” – non è un gioco linguistico, ma una struttura percettiva.
Questa attenzione alla tautologia avvicina Merz a Luciano Fabro, ma con una differenza sostanziale. Se Fabro analizza il linguaggio dell’arte nella sua autoriflessività (la Tautologia come misura della consapevolezza del gesto), Merz spinge il principio oltre: nella sua poetica, la tautologia diviene fenomeno naturale, un ritmo che appartiene alla crescita biologica tanto quanto al pensiero. L’opera d’arte è così il punto in cui si incontrano due tipi di energia: quella mentale e quella materiale.
Nel linguaggio installativo di Merz, l’igloo rappresenta il culmine di questo processo. È una forma primaria, arcaica, ma al contempo concettuale. È casa, rifugio, cellula e universo. La sua struttura duplice – materiali opachi come il legno e trasparenti come il vetro – riflette una dialettica di isolamento e comunicazione, chiusura e apertura. La trasparenza del vetro, lungi dall’essere mero effetto visivo, funziona come dispositivo epistemologico: permette di “vedere il vedere”, di riconoscere la mediazione fra interno ed esterno.
Nel contesto della Triennale del 1986, la scelta di collocare l’igloo come centro dinamico dello spazio espositivo assume un valore dichiaratamente simbolico. L’opera, posta al centro, funziona come un campo di forze: il punto in cui convergono le energie dell’ambiente e dello spettatore. Merz, in tal senso, riformula l’idea rinascimentale del “centro del mondo” non come dominio prospettico, ma come equilibrio energetico. L’arte non è più rappresentazione del mondo, ma il luogo stesso della sua rigenerazione.
La “sapienza dello spazio” di cui parla Merz è dunque una forma di conoscenza incarnata. L’artista non si limita a costruire un ambiente, ma a produrre una condizione cognitiva. In questo senso, la sua opera supera la tradizionale distinzione tra informazione e arte: l’una diventa funzione dell’altra. L’informare, per Merz, non è descrivere, ma formare di nuovo, restituire alla materia la sua capacità di generare senso.
Perfetto.
Ecco la Parte II – ENERGIA, nella versione accademico-argomentativa estesa.
ENERGIA
“I numeri vivi danno delle visioni.” – Mario Merz
Tra le molte affermazioni di Mario Merz, questa forse racchiude meglio di ogni altra il nucleo teoretico della sua ricerca: la convinzione che ogni processo artistico, come ogni processo vitale, sia fondato su un principio energetico. Non si tratta soltanto di un uso simbolico del termine, ma di un vero e proprio impianto epistemologico. Per Merz, l’energia è la materia prima dell’arte, la sostanza invisibile che attraversa e struttura tanto la materia fisica quanto la forma mentale.
Quando egli dichiara che “i numeri vivi danno delle visioni”, non allude a una metafora poetica: definisce un principio operativo, un metodo conoscitivo che si situa tra la percezione sensibile e l’intuizione concettuale. Il numero, lungi dall’essere un’astrazione matematica, diventa per lui un agente generativo, un campo d’interferenza fra pensiero e natura. La serie di Fibonacci – da sempre presente nella morfologia naturale, nelle spirali vegetali, nei rapporti aurei del corpo umano – diviene così, nelle mani di Merz, una grammatica della vita, una sintassi della crescita.
In una delle sue note più citate, Merz scrive: “I numeri sono un determinato e quindi conoscibile grado di organizzazione di energia”. In questa definizione si intrecciano scienza e filosofia: da un lato l’eco delle teorie termodinamiche del Novecento (l’energia come principio di conservazione e trasformazione), dall’altro la concezione di un universo come totalità in movimento continuo, che la fenomenologia – da Merleau-Ponty a Simondon – aveva ridefinito come essere in relazione. L’opera d’arte, in questa prospettiva, non è una forma chiusa, ma un campo aperto di intensità.
Merz assimila questi concetti e li traduce in una pratica artistica dove la forma non rappresenta, ma trasforma. Il numero diviene dispositivo visivo e concettuale: collocato su muri, igloo, tele, oggetti, esso non comunica una quantità, bensì un ritmo, una sequenza di pulsazioni. Le sue installazioni numeriche – come la celebre Fibonacci sequence al Guggenheim nel 1971 – manifestano la crescita naturale come fenomeno energetico: ogni cifra non è un simbolo statico, ma un’unità vibrante, una misura temporale che esprime lo scorrere della vita.
Questa nozione di “numero vivo” si oppone radicalmente alla tradizione neopitagorica che aveva concepito l’armonia come equilibrio e proporzione. In Merz, il numero è instabile, espansivo, caotico nel senso creativo del termine. Non rappresenta l’ordine, ma il suo continuo divenire. La serie fibonacciana non è una regola aurea, ma un principio di crescita: da un elemento ne nasce un altro, per somma e proliferazione. Ciò che interessa Merz non è la misura, ma il processo di formazione.
L’artista traduce questa visione in un linguaggio materico che unisce elementi eterogenei: neon, pietra, vetro, legno, cera, vegetali, metalli, animali tassidermizzati. Ciascuno di questi materiali porta con sé un proprio carico energetico, una memoria termica o biologica. Il neon, ad esempio, è energia pura resa visibile: la luce che si piega a disegnare una cifra o una parola. La cera, invece, conserva la traccia della manipolazione umana, il calore del gesto che la plasma. Nelle opere di Merz, l’incontro fra questi materiali genera tensione, produce un campo percettivo in cui lo spettatore si trova immerso come in una condizione fisica.
La nozione di energia in Merz si colloca così al crocevia tra fisica, biologia e antropologia. Essa non si limita a indicare la forza naturale che anima la materia, ma comprende anche l’energia psichica, quella che Jung avrebbe chiamato “libido creativa”, ovvero la spinta archetipica alla trasformazione. L’artista diventa medium di questa energia, il punto in cui essa si condensa e si manifesta in forma visibile. L’opera, in tal senso, non è mai un oggetto finito ma un organismo in perenne mutazione.
Merz si appropria del linguaggio numerico per trasferirlo in un contesto poetico, dove la cifra perde la sua neutralità e acquisisce una temperatura affettiva. Nei suoi lavori, il numero non misura, ma emoziona; non delimita, ma espande. È un mezzo per articolare una visione del mondo in cui la logica e la sensibilità coincidono. La matematica, tradizionalmente dominio dell’astrazione, diventa per lui una lingua della natura, una poetica della quantità vitale.
Questo atteggiamento è coerente con la tensione dell’Arte Povera, di cui Merz è figura cardine, a riscoprire l’energia intrinseca dei materiali e dei processi elementari. Tuttavia, Merz se ne distacca per la dimensione cosmologica della sua ricerca. Se l’Arte Povera nasce come gesto politico e linguistico di riduzione, Merz la dilata fino a farne un sistema organico, una riflessione sulla crescita universale. Il suo è un pensiero del mondo, non dell’oggetto.
Il tema dell’energia, infatti, attraversa tutta la sua produzione come un filo conduttore. Dalle prime installazioni degli anni Sessanta fino ai grandi igloo degli anni Ottanta e Novanta, Merz esplora la possibilità di tradurre in forma visiva il flusso energetico che lega materia e pensiero. Le sue opere non rappresentano l’energia, ma la mettono in scena, la rendono tangibile nello spazio.
La concezione energetica di Merz può essere letta anche alla luce della filosofia deleuziana del divenire. Come in Deleuze, anche in Merz l’essere non è mai statico: è processo di differenziazione. Ogni forma nasce da una tensione, da una forza che si dispiega nel tempo. La spirale di Fibonacci, con la sua crescita progressiva, diventa metafora perfetta di questo pensiero del movimento. L’opera si espande come un rizoma, senza centro né gerarchia, seguendo una logica di proliferazione continua.
È interessante notare come la nozione merziana di energia si colleghi anche alla fenomenologia di Merleau-Ponty. Per quest’ultimo, la percezione è sempre incarnata, il corpo è il luogo in cui il mondo si fa esperienza. In modo analogo, Merz concepisce l’opera come un’estensione del corpo, un luogo in cui la materia percepisce e viene percepita. L’energia che attraversa le sue installazioni è, dunque, anche un’energia percettiva: il flusso tra il vedere e l’essere visto.
Il numero, in questo contesto, diventa un segno energetico, una soglia fra il visibile e l’invisibile. Ogni cifra è una traccia, una misura provvisoria di un movimento che non si arresta. La sequenza numerica è una partitura, e l’opera, nel suo complesso, è un concerto di energie, una sinfonia in cui luce, materia e spazio vibrano all’unisono.
Merz manipola materiali fragili e micidiali, li dispone nello spazio come elementi di un esperimento fisico e poetico. Egli non teme il pericolo insito nella materia – il rischio del collasso, della combustione, dell’instabilità – ma lo assume come componente essenziale del processo creativo. L’artista diventa così un equilibrista dell’energia, colui che orchestra le forze contrarie per ottenere una forma di equilibrio dinamico.
La sua pratica è, in fondo, una riflessione sul limite. Ogni opera di Merz si colloca tra due polarità: luce e ombra, trasparenza e opacità, natura e artificio. In questo spazio intermedio si produce la conoscenza: l’energia diventa allora non solo tema ma anche metodo, principio di una epistemologia artistica che riconosce nell’instabilità la propria verità.
Non stupisce, dunque, che Merz si sia spesso definito più un “costruttore di energie” che un artista. Le sue opere, pur nella loro apparente semplicità formale, sono dispositivi complessi che mettono in relazione spazio, tempo, materia e pensiero. Esse rivelano che ogni forma visiva è, in ultima analisi, una forma di energia organizzata.
Nel suo universo poetico, l’artista non cerca la bellezza come armonia, ma come intensità. L’arte, per lui, non è rappresentazione di un ideale, ma manifestazione di una forza vitale. In questo senso, Merz si colloca in una linea di pensiero che unisce Spinoza a Nietzsche, passando per l’estetica vitalista del Novecento: un’arte che coincide con la vita, che ne assume il ritmo, le contraddizioni e le metamorfosi.
La sua fiducia nella potenza del numero, nel suo potere di organizzare l’energia, si traduce in un linguaggio che unisce rigore e intuizione. Ogni opera di Merz è una mappa di flussi, una cartografia dell’energia. Ed è in questa tensione tra il calcolo e l’emozione, tra la regola e la metamorfosi, che si colloca la sua originalità.
SEZIONE IV
La germinazione della cosa e l’ontologia dell’abitare
Nel lessico di Mario Merz, la parola cosa assume un rilievo che travalica il piano della nominazione. Non è semplice oggetto, ma organismo pulsante, cellula di un sistema più ampio che si autoalimenta e si rigenera. La “germinazione della cosa” è dunque l’immagine di un fare artistico che non si esaurisce nel gesto plastico, ma prosegue come processo vitale, come emanazione energetica. Quando Merz dichiara che “il cartello di foglie è un’architettura ideale”, non compie una metafora, ma individua una funzione: la foglia è il modulo primario di un sistema di crescita, un mattone vegetale che rinvia al ritmo della natura. Il cartello, dunque, è una soglia, una forma di scrittura che già contiene la promessa di una forma futura.
La “casa tra gli alberi”, così come l’igloo, o la mensola di vetro su cui si adagiano i numeri di Fibonacci, non costituiscono mai luoghi dell’abitare in senso domestico. Sono spazi di passaggio, dimore provvisorie dell’energia, che incarnano la tensione tra il costruire e il dissolversi. Il vuoto che occupano non è assenza ma principio ordinatore: l’artista vi inscrive la misura del tempo, la proporzione del vivente. Tale vuoto, mobile e in espansione secondo la sequenza fibonacciana, diventa il perimetro mentale in cui lo spettatore viene invitato a entrare, ma senza garanzie di stabilità. È un invito al rischio, alla perdita dell’orientamento percettivo, alla presa di coscienza che l’opera, come la vita, non si lascia mai fissare.
Merz, nel concepire il vuoto come sostanza operativa, si situa in una linea di continuità con le poetiche del non-finito michelangiolesco e con le tensioni spaziali dell’arte povera. Tuttavia, la sua differenza risiede nel modo in cui il “fare casa” diventa metafora epistemologica. La casa, costruita con materiali transitori – legno, cera, vetro, pietra – non rappresenta un rifugio, ma un esperimento antropometrico. È l’estensione del corpo, il suo diagramma nello spazio. In questo senso, l’opera di Merz si fa architettura in senso fenomenologico: un luogo che pensa e fa pensare, che ospita l’essere e lo obbliga a riconoscersi nel proprio limite.
Quando Tommaso Trini osserva che “la sua è un’arte dell’abitare e dell’insediamento antropometrico”, coglie il cuore etico della sua pratica. Ogni igloo, ogni tavolo con la spirale numerica, ogni fascio di rami che si eleva come una cupola vegetale è una mappa dell’essere, un tentativo di riconciliare natura e cultura, corpo e numero, istinto e costruzione. Merz non cerca la sintesi: cerca la tensione, l’attrito che tiene insieme le parti. L’arte, per lui, è proprio questo movimento oscillante, una continua germinazione che non conosce fine.
La “casa di foglie”, infine, non è soltanto un’immagine poetica, ma una figura epistemica. Essa germina, crea e disperde come il pensiero stesso: nasce dall’intuizione, si condensa in forma, poi si riapre al mondo. In questa ciclicità, l’artista ritrova il senso di un’etica naturale del fare: ogni gesto è parte di un continuum biologico e mentale. La foglia che cade, l’igloo che si chiude, il numero che si moltiplica: tutto concorre alla rivelazione di un ordine che non è mai dato una volta per tutte, ma continuamente riformulato.
La germinazione, dunque, è anche un atto linguistico. Merz trasforma il linguaggio visivo in un linguaggio di crescita, in cui le parole, i numeri, i materiali si comportano come cellule di un medesimo organismo. Da qui la sua prossimità con la poesia, intesa non come genere ma come metodo di conoscenza. La scrittura numerica, che aveva intuito nel progetto Voglio fare subito un libro, rappresenta il tentativo di rendere visibile il respiro interno dell’opera: un respiro che non appartiene all’uomo solo, ma all’intero sistema della vita.
SEZIONE V
Conclusione e dedica: la scrittura come eredità energetica
A metà degli anni Ottanta, l’idea di un testo intitolato La poesia numerica di Mario Merz nasceva come una forma di indagine parallela alla pratica dell’artista. Non si trattava di una semplice monografia, ma di una lettura “in tensione”, un tentativo di seguire la traiettoria energetica della sua scrittura. L’incontro con Jole De Sanna, figura militante e rigorosa della critica d’arte, diede a quel progetto la sua forma più matura. Jole, che aveva accompagnato Merz nei suoi percorsi teorici e installativi, comprese che la dimensione numerica e quella poetica coincidevano in un unico principio di crescita: la conoscenza come processo organico.
Quella collaborazione, più che un esercizio di esegesi, fu un dialogo tra due visioni affini. L’una, quella di Merz, orientata a costruire spazi di energia visiva; l’altra, quella della critica, tesa a tradurre quei flussi in pensiero, in linguaggio. Ne nacque un terreno comune, in cui il numero e la parola si scambiarono le funzioni: il primo diventando discorso, la seconda struttura. In questo senso, l’omaggio a De Sanna non è soltanto una dedica affettiva, ma un riconoscimento teorico: fu lei a intuire che la poetica merziana non si poteva ridurre né a scultura né a installazione, ma doveva essere letta come sistema semantico aperto, come organismo simbolico in continua espansione.
Il testo su Merz, anche se rimasto inedito, si configurava come un atlante di corrispondenze. Ogni capitolo avrebbe cercato di rendere conto del modo in cui la scrittura dell’artista – le sue frasi incise, le sue dichiarazioni sparse – si intrecciava con la materia del suo lavoro. L’ipotesi di fondo era che l’opera visiva e la parola si fondessero in un unico corpo ritmico: che ogni numero tracciato al neon fosse già un verso, che ogni spirale fosse una frase in evoluzione.
Nel riprendere oggi quelle riflessioni, si può dire che Merz, più di altri protagonisti dell’Arte Povera, abbia anticipato la necessità di un’arte post-discorsiva, in cui il pensiero si manifesta come energia e l’opera come sistema vivente. La sua eredità, pertanto, non si misura solo nei materiali o nelle forme, ma nella capacità di pensare l’arte come conoscenza attiva, come scienza sensibile.
In questo orizzonte, “informare”, “energia” e “germinazione” non sono soltanto titoli di sezioni, ma stadi di un processo cognitivo. Informare significa dare forma alla materia del pensiero; energia è la sua trasmissione vitale; germinazione è la continuità del divenire. In questo percorso circolare, l’artista non è demiurgo ma catalizzatore: colui che mette in moto, che attiva il campo. E in fondo, forse, è questo che Merz intendeva quando affermava che “i numeri vivi danno delle visioni”: non un’apparizione mistica, ma la visione del mondo che si forma dentro la materia stessa del numero.
Così l’opera si chiude come si apre, in una spirale: un ritorno che non è ripetizione ma crescita. E la dedica finale, rivolta a Jole De Sanna, non appartiene al registro del ricordo, ma a quello della continuità. È un modo per dire che l’arte, quando è autenticamente vitale, non muore: si trasmette, come energia, da un corpo a un altro, da una mente all’altra, da un gesto a una parola.